di Simone Ferrari 

Nel caso in esame (in cui la Cassazione annullava senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste), la condotta integrante il reato addebitato di cui all’art. 388, co. 1, c.p. sarebbe stata posta in essere attraverso la stipulazione, nelle date del 9 dicembre e del 14 dicembre, rispettivamente di un atto di compravendita della quota-parte di un appartamento e di due autorimesse in favore della moglie C.G. e di un atto di donazione alla figlia Z.D. di un podere agricolo. Entrambi tali atti, in tesi accusatoria, sarebbero stati infatti perfezionati al fine di consentire a Z. e alla moglie di sottrarsi all’adempimento degli obblighi derivanti da sentenza di condanna al risarcimento dei danni e da altra sentenza di condanna al pagamento della somma di denaro, sì da dover essere ritenuti atti “fraudolenti”.

Tanto premesso, va rammentato come la condotta sanzionata dall’art. 388, co. 1, c.p. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) sia quella di chi, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria o di cui sia in corso l’accertamento “compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti”.

Non è sufficiente, al fine di colorare di illiceità penale la condotta de qua, che gli atti siano oggettivamente finalizzati a consentire al loro autore di sottrarsi agli adempimenti indicati, ma è necessario che gli stessi si caratterizzino altresì per la loro natura simulatoria o fraudolenta. Una lettura della norma che facesse coincidere, per quanto riguarda la natura fraudolenta, tale requisito con la semplice idoneità dell’atto alla sottrazione all’adempimento di legge, si profilerebbe in contrasto con il principio di legalità.

È in altri termini indispensabile, in tale chiave interpretativa, che l’atto si qualifichi per un quid pluris rispetto all’idoneità a rendere inefficaci gli obblighi nascenti dal provvedimento giudiziario, tanto più in quanto solo così potrebbe giungersi, in un’ottica improntata al principio di offensività, a differenziare una condotta solo civilmente illecita (e passibile, nel concorso degli ulteriori requisiti, di azione revocatoria) da una condotta connotata da disvalore penalmente rilevante.

Infatti, la dolosa preordinazione di un intento fraudolento è richiesta, nell’azione revocatoria, unicamente in relazione ad atto dispositivo compiuto prima del sorgere del debito e non anche in relazione ad atto compiuto dopo, per il quale è sufficiente la generica consapevolezza di nuocere alle ragioni del creditore. Si è aggiunto che la natura fraudolenta dell’alienazione non può coincidere con il fine di ridurre le garanzie del credito, diversamente essendovi un’evidente commistione fra il piano oggettivo della condotta e quello soggettivo della volontà con conseguente spostamento del giudizio dal disvalore dell’evento (offensività) a quello della volontà (mera disubbidienza).

Viene dunque in rilievo il significato da attribuire alla nozione di atto “fraudolento”.

Si è sottolineato che “mezzo fraudolento” consiste, con riferimento al reato di turbata libertà degli incanti, in “qualsiasi artificio, inganno o menzogna concretamente idoneo a conseguire l’evento del reato”, ovvero, con riferimento all’aggravante ex art. 625 n. 2 c.p., in “comportamenti improntati ad astuzia o scaltrezza, tali da eludere le cautele e gli accorgimenti predisposti dalla persona offesa a tutela delle proprie cose”.

Con riguardo alla nozione di “atto fraudolento” contenuta nell’art. 11 D. Lgs. n. 74/2000, laddove, con terminologia mutuata dall’art. 388 c.p., si sanziona la condotta di chi, “al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto … aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”, la Cassazione ha osservato che dev’essere considerato atto fraudolento “ogni comportamento che, formalmente lecito (analogamente, del resto, alla vendita di un bene), sia tuttavia caratterizzato da una componente di artifizio o di inganno”, ovvero che è tale “ogni atto che sia idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero (per la verità con una sovrapposizione rispetto alla simulazione) ovvero qualunque stratagemma artificioso tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali alla riscossione”.

Nel caso di specie, va notato che la sentenza impugnata, senza confrontarsi con il dato dell’effettiva traslazione dei beni (non essendo stata contestata alcuna simulazione) e della regolare trascrizione con atto pubblico, appare essersi limitata, sul punto, a richiamare, da un lato, il dato temporale della posteriorità di entrambi gli atti rispetto alla notifica dell’atto di precetto, in tal modo sembrando così avere valorizzato un elemento di prossimità cronologica (peraltro gli atti furono posti in essere sei mesi dopo la notifica dell’atto di precetto), e dall’altro a ritenere irrilevante la circostanza che Z. possedesse ulteriori beni immobili aggredibili.

Ma tale ultimo profilo, in realtà, appare tutt’altro che indifferente in un’ottica di corretta esegesi della norma, non potendo l’accertamento della sussistenza del requisito, questa volta, di idoneità dell’atto, prescindere da una valutazione dell’intero patrimonio del contribuente da rapportare al debito insorto, ben suscettibile di essere ugualmente garantito. Il rischio che la pretesa creditoria non trovi capienza nel patrimonio del debitore presuppone che la diminuzione causata dall’atto realizzato comporti una riduzione significativa della garanzia, da valutare sia in relazione al credito sia in relazione al patrimonio del contribuente.