di Emanuele Vari

Una riflessione sull’infanzia in Italia, nata dalla lettura dell’indagine resa nota da Terre des Hommes e CISMAI su maltrattamenti e abusi durante i primi anni di vita: quasi 100.000 le piccole vittime, e il dato più allarmante è l’assenza di una reale consapevolezza della gravità del problema.

Il maltrattamento dei bambini è un fenomeno ancora in parte sommerso: mancano sia dati omogenei capaci di misurarne l’effettiva incidenza, sia un sistema di monitoraggio che permetta poi di concepire efficaci politiche di contrasto alla violenza. Oltre al fatto che è assente, e forse è questo il dato più preoccupante, una reale consapevolezza da parte dell’opinione pubblica della gravità del problema. Eppure, come mostra l’indagine divulgata il 17 settembre 2013 dalla Fondazione Terre des Hommes e dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia), in Italia sono quasi 100.000 i minori vittime di maltrattamenti e di abusi. Bambine e bambini che vengono trascurati (52,7%) o che assistono impotenti alla violenza dei padri nei confronti delle madri (16,6%). Bambini e bambine che subiscono violenze psicologiche (12,8%) e abusi sessuali (6,7%), o che vengono maltrattati fisicamente (4,8%).

Un problema diffuso in tutto il Paese, indipendentemente dal contesto socio-economico e culturale in cui crescono i minori. È soprattutto una questione di “assenza di rispetto” nei confronti dei più fragili che spesso non vengono ascoltati.

Quando si è piccoli si dipende completamente dagli adulti, soprattutto dai propri genitori, e non si è capaci di difendersi da soli e di far valere le proprie opinioni. Non si hanno né gli strumenti, né le capacità. Si tende a giustificare sempre gli adulti. Così capita di adattarsi a situazioni di maltrattamento, di considerare normale la limitazione dei propri movimenti e di accettare senza alcuna lamentela di essere denigrati, incolpati, minacciati e intimiditi. Quando si è trascurati o maltrattati, è difficile imparare a “tenersi su” da soli, diventando progressivamente autonomi e fiduciosi nel futuro.

Proprio per questo, l’attenzione all’opinione del minore, soprattutto nei procedimenti giudiziari che riguardano minori e bambini maltrattati, è un tema di rilevante attualità. In Italia, come in ambito internazionale, infatti, si è molto discusso sulla reale possibilità del minore di partecipare attivamente alle decisioni che lo coinvolgono direttamente.

Il problema reale con cui il legislatore ha dovuto fare i conti è il confronto tra due concezioni del minore: il minore soggetto “incapace” che va protetto e gestito, e il minore quale soggetto “capace” che va semplicemente aiutato dal genitore nella sua autodeterminazione.

In ambito internazionale, la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 – ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991 – prima e le Convenzioni dell’Aja sull’adozione internazionale del 1993 ed Europea sull’esercizio dei diritti dei minori del 1996 poi, stabiliscono che nei procedimenti che riguardano un minore l’autorità giudiziaria dovrà assicurarsi che il minore stesso abbia non solo ricevuto tutte le informazioni necessarie, ma dovrà anche permettere a questi di esprimere la propria opinione consultandolo personalmente “se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità”, a meno che ciò non sia manifestatamente contrario al suo interesse.

In Italia, si è considerata prevalente la necessità di valutare la capacità di discernimento del minore ossia la sua maturità e le sue capacità di autodeterminazione prescindendo, dunque, dall’età dello stesso. L’attuale normativa, ad ogni modo, prevede che il minore possa essere sentito in una serie di occasioni: l’art. 155 sexies c.c. stabilisce che il giudice della separazione, prima dell’emanazione dei provvedimenti temporanei, possa disporre l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni o anche di età inferiore ma che abbia capacità di discernimento; in caso di divorzio dei genitori è previsto l’ascolto del figlio minore solo se ritenuto “strettamente necessario dal giudice” (art. 6 legge n. 898/1970); nel caso di affido o adozione l’esigenza di ascoltare il minore costituisce una costante intesa ad attribuire rilievo alla personalità e alla volontà del minore in relazione a provvedimenti che nel suo interesse trovano la loro ragion d’essere.

In situazioni di crisi familiari, invero, l’ascolto del minore può diventare indispensabile per poter formulare indicazioni che permettano di aiutarlo ad affrontare i cambiamenti della vita: il bambino tende a non elaborare propri punti di vista e proprie scelte sia per l’ansia, sia per il timore di perdere appoggi e punti di riferimento. Le scelte che in queste condizioni fa possono quindi non essere autonome ma sono senz’altro sue” perché corrispondono alle proprie esigenze nel presente.

Occorre, dunque, non dimenticare che l’ascolto è un diritto che non può in alcun modo essere compromesso, soprattutto in casi dove il minore è maltrattato, salvo che il minore stesso consapevolmente si rifiuti o il giudice abbia gravi e fondati motivi per non ascoltarlo: una tale omissione comporterebbe, infatti, un vizio procedurale di rilevante gravità, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Diritto tanto più protetto e garantito quanto più sarà elevata sia la preparazione di coloro che a vario titolo si interessano del bambino sia l’accettazione del lavoro dell’altro e dei confini di competenza propri e altrui. Una collaborazione professionale che, se ben condotta, può aiutare l’adulto a maturare atteggiamenti più adatti al minore di cui ha cura e il minore a comprendere meglio la sua situazione e ad esprimersi superando ansie e timori.

Nell’attesa di una riforma da parte del legislatore che quantomeno colmi le lacune presenti nell’odierna normativa, si auspica una sempre maggiore sensibilizzazione da parte di tutte le professionalità che si occupano di minori al rispetto della “persona minore” e al riconoscimento delle sue capacità di scelta e di autodeterminazione al fine di una maggiore tutela.