di Simone Ferrari
La perizia è un mezzo di prova finalizzato ad integrare le conoscenze del giudice con quelle di un esperto.
Essa deve essere disposta dal giudice quando occorre compiere una valutazione per la quale sono necessarie specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.
La perizia adempie alle tre seguenti funzioni:
- svolgere indagini per acquisire dati probatori;
- acquisire gli stessi dati selezionandoli e interpretandoli;
- effettuare valutazioni sui dati già acquisiti.
Semplificando, il testimone espone un fatto, mentre il perito dà una valutazione su di un fatto al fine di indicare la legge scientifica ad esso applicabile.
Talvolta, peraltro, la perizia è anche una prova rappresentativa di ciò che il perito ha fatto o percepito nell’adempimento dell’incarico.
Si definisce scientifica quella prova che, partendo da un fatto dimostrato, utilizza una legge scientifica per accertare l’esistenza di un ulteriore fatto da provare.
La scienza è limitata, incompleta e fallibile. Ne deriva che ciascuna parte del processo penale ha il diritto di mettere in dubbio l’ipotesi che è stata formulata da un’altra parte o dal perito nominato dal giudice.
Pertanto, ciascuna delle parti deve poter dimostrare se per caso non sono applicabili al fatto storico differenti regole che diano una spiegazione alternativa dell’accadimento.
Inoltre, se veramente la causa era quella identificata, essa in base a regole note avrebbe dovuto provocare determinate conseguenze: se si accerta che anche una sola delle conseguenze non si è verificata, si mette in dubbio la validità della legge scientifica in quel caso concreto.
Il diritto alla prova scientifica comporta il potere di compiere indagini sui predetti fatti falsificativi.
Il rischio più grave per il processo è la dispersione delle prove. Perciò, occorre garantire il diritto ad acquisire la prova non ripetibile. Poiché ciò potrebbe comportare una modifica irreversibile della fonte o dell’elemento di prova, simili attività acquisitive devono essere effettuate in contraddittorio.
Le parti hanno uno strumento più agile della richiesta di nomina di un perito e della designazione di propri consulenti tecnici all’interno della perizia.
Fin dalla fase delle indagini il PM, l’indagato e l’offeso possono direttamente nominare un consulente tecnico di parte al fine di svolgere indagini al di fuori della perizia e anche se non è stata disposta perizia.
Il consulente di parte sarà poi sentito in dibattimento con lo strumento dell’esame incrociato: la consulenza tecnica di parte è oggi un vero e proprio mezzo di prova.
Il legislatore non fornisce peraltro al giudice un criterio espresso che indichi quando una prova è scientifica e, di conseguenza, quando questa può essere introdotta nel processo.
Il giudice, anche il più esperto, non può operare da solo valutazioni che presuppongono conoscenze tecniche, scientifiche o artistiche.
Egli si trova di fronte ad un’alternativa: deve utilizzare le valutazioni operate da un consulente tecnico di parte o disporre una perizia.
Di regola la perizia è disposta a richiesta di parte; può essere disposta anche d’ufficio nel dibattimento perché il giudice può avvertire la necessità di motivare la sentenza sulla base di un sapere specialistico che deve essere applicato ad un fatto provato.
I criteri di affidabilità della prova scientifica “nuova” sono: verificabilità del metodo; falsificabilità; sottoposizione al controllo della comunità scientifica; conoscenza del tasso di errore.
Se il metodo innovativo richiede l’esperimento di un mezzo di prova atipico, il canale acquisitivo sarà costituito dall’art. 189 c.p.p. Se, viceversa, l’applicazione di un metodo innovativo è richiesta nell’ambito di un mezzo di prova tipico (perizia), è ben possibile configurare all’interno del sindacato effettuato ex art. 190 c.p.p. una valutazione sulla relativa idoneità accertativa.
In tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell’assoluzione dell’imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità fra la condotta e l’evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato fra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell’imputato sia provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” (Cass. pen., Sez. IV, n. 55005/2017: in applicazione del principio la Corte – richiamando espressamente i limiti del sindacato di legittimità rispetto al sapere scientifico – ha ritenuto immune da censure la sentenza di assoluzione degli amministratori delegati e dei presidenti del consiglio d’amministrazione di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, che aveva argomentato la mancanza di prova del nesso causale sulla duplice considerazione che gli imputati avevano assunto la carica a distanza di molti anni dalla c.d. “iniziazione” della malattia tumorale, e che costituiva ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica la sussistenza di un effetto acceleratore sul mesotelioma dell’esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell’iniziazione).
Le parti hanno un pieno diritto all’ammissione della perizia e il giudice deve motivare il rigetto della richiesta. Il provvedimento può essere impugnato con la sentenza ex art. 586 c.p.p.
Qualora la perizia sia stata richiesta a titolo di prova contraria, la parte che si è vista negare l’ammissione può ricorrere per cassazione ex art. 606 lett. d c.p.p., nel caso in cui ritenga trattarsi di una prova decisiva.
È importante che al momento del conferimento dell’incarico il giudice e le parti verifichino, oltre alla specifica qualificazione del perito, la concreta capacità dello stesso di rispondere ai quesiti proposti, sulla base degli elementi disponibili nel caso di specie.
Da questo momento i consulenti possono assistere allo svolgimento della perizia, presentare al giudice osservazioni e riserve e, infine, proporre specifiche indagini.
In punto privacy, si segnala che il Garante ha adottato le «Linee guida in materia di trattamento di dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero» (in GU n. 178 del 31/7/2008).
Dopo aver presentato la relazione scritta o aver svolto una relazione orale, il perito è sottoposto all’esame incrociato su richiesta di parte. «Perché la consulenza di parte venga ad assumere funzione probatoria, assimilabile alla perizia, è necessario che la stessa sia acquisita dal giudice con il consenso delle parti o, in caso di dissenso, all’esito dell’audizione del consulente: ne consegue che affinché il parere tecnico possa essere veicolato nel processo sotto forma di memoria, con conseguente obbligo del giudice di tenerne conto nel motivare la propria decisione, è necessario che quello prodotto sia appunto un parere e non – anche solo in parte – un autonomo accertamento tecnico su cose e persone, giacché in tale caso l’allegazione difensiva si tradurrebbe non già nell’ampliamento dell’orizzonte valutativo del giudice (che deve sempre ritenersi ammissibile) quanto piuttosto nel surrettizio tentativo di modificare la sua piattaforma cognitiva, aggirando le regole del contraddittorio sulla prova» (Cass. pen., Sez. V, n. 39683/2016). D’altro canto, la polizia giudiziaria può riferire in dibattimento sull’attività svolta dall’ausiliario di PG, nominato senza formalità, in quanto la necessità di sentire quest’ultimo nel contraddittorio sorge soltanto se lo stesso venga successivamente nominato consulente tecnico dal PM (Cass. pen., Sez. III, n. 38642/2017).
Il giudice non è vincolato dalla perizia perché può disattenderne le conclusioni dando adeguata motivazione.
Sono ammesse sull’imputato soltanto quelle perizie che tendono ad accertare una malattia mentale (divieto di perizia criminologica): «non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche» (art. 220 co. 2 c.p.p.).
La ratio del divieto può essere rinvenuta nell’esigenza di tutelare la presunzione d’innocenza dell’imputato. Tale divieto deve intendersi esteso alla consulenza tecnica di parte, posto che questa può vertere sul medesimo oggetto della perizia. Peraltro, il divieto non si estende alla persona offesa e al testimone.
Dopo la condanna irrevocabile, la perizia criminologica è ammessa in relazione alla fase dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
Le parti possono nominare consulenti tecnici:
- in relazione ad una perizia già disposta;
- al di fuori della perizia;
- per contrastare il risultato di una perizia già svolta.
La parte privata non ha l’obbligo di scegliere il consulente all’interno di albi; il PM nomina il consulente tecnico «di regola» scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti.
A differenza del perito, che assume l’obbligo penalmente sanzionato di far conoscere la verità, nessun obbligo del genere è previsto per il consulente di parte. Un’eventuale menzogna, rilevata ad esempio nell’esame incrociato, potrà avere influenza sull’attendibilità della valutazione prospettata dal consulente stesso.
Il consulente nominato da una parte privata può svolgere investigazioni difensive per ricercare ed individuare elementi di prova e può conferire con le persone che possono dare informazioni, nonché visionare, previa autorizzazione, il materiale che l’autorità giudiziaria ha posto sotto sequestro.
La consulenza di parte è insieme espressione della difesa tecnica e mezzo di prova scientifica, tecnica o artistica.
Il giudice, quando nel contrasto fra le parti presceglie una tesi scientifica, deve motivare le ragioni per le quali la preferisce ad altre, pur sottoposte alla sua attenzione.
Nella prassi accade che si faccia ricorso al confronto diretto fra gli esperti, sia pure “guidato” dalle domande rivolte dalle parti. Il perito è attendibile in quanto la sua ricostruzione abbia resistito all’urto del contraddittorio.
Non esiste una gerarchia fra perito e consulente, tale da determinare in via presuntiva un minor credito dell’esperto di parte.
Circa il consulente tecnico del PM, la differenza con il consulente tecnico della parte privata sta nell’interesse pubblico che muove l’attività del PM.
L’obbligo spettante al PM di svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato, deve intendersi riferito anche al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica.
Dal punto di vista del diritto penale sostanziale, ai sensi dell’art. 373 c.p. (falsa perizia o interpretazione), il perito che, nominato dall’autorità giudiziaria, dà parere o interpretazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero, è punito con la reclusione da due a sei anni. La condanna importa, oltre l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione dalla professione o dall’arte.
L’oggetto della tutela viene individuato nella sincerità e completezza delle prestazioni cui è tenuto il perito, al fine di garantire il normale funzionamento dell’attività giudiziaria.
Persona offesa è esclusivamente lo Stato-collettività, in quanto il privato danneggiato dalla falsa perizia non è, sia pure implicitamente, titolare o contitolare dell’interesse preso in considerazione dalla norma incriminatrice.
Soggetto attivo del reato non può essere il consulente tecnico nominato dal PM né il consulente tecnico nominato dalla parte privata nel processo penale.
La condotta tipica consiste per il perito nel dare pareri mendaci. Il termine parere indica l’esito dell’attività propria del perito, che può assumere la forma sia della relazione scritta sia dei chiarimenti oralmente dati all’autorità giudiziaria.
Si ha falsità del parere quando esso contrasti con una corretta applicazione dei parametri che il perito deve applicare nell’espletamento della propria attività o quando contrasti con l’intimo convincimento del perito, nei casi in cui l’opera del perito comporti valutazioni che lasciano ampio spazio a componenti soggettive.
La giurisprudenza ha precisato che il reato di falsa perizia sussiste, nel contesto di accertamenti valutativi, in presenza di un enunciato mendace riconducibile, sotto il profilo oggettivo, a canoni di certezza, in quanto non d’ufficio controvertibile, e, sotto il profilo soggettivo, ad una divergenza intenzionale fra il convincimento reale del perito e quello manifestato nell’elaborato tecnico (Cass. pen., Sez. VI, n. 12654/2016).
Del resto, nel contesto di accertamenti valutativi la presenza di difformi autorevoli pareri nonché l’adesione del giudice ad una stima diversa da quella prospettata dal consulente d’ufficio sono elementi atti a dimostrare che l’oggetto della perizia debba considerarsi obiettivamente controvertibile e difficilmente rapportabile alla certezza dello schema dettato dall’art. 373 c.p., salva una giustificazione attenta a raccordare la delicatezza del quesito offerto al perito e la certa infedeltà del risultato da questi reso (Cass. pen., Sez. VI, n. 48915/2015).
La condotta illecita può inoltre consistere nell’affermare fatti non conformi al vero. La previsione normativa è riferibile a quella specifica attività che si sostanzia in mere affermazioni dell’esistenza (o dell’inesistenza) di determinati fatti, che non è di per sé qualificabile come dare parere, essendo prodromica a quest’ultima attività.
In punto elemento soggettivo, per potersi configurare il delitto di falsa perizia è necessario che l’alterazione del vero sia intenzionale, mentre esso non viene integrato quando le falsità sono dovute ad una prestazione professionale scadente ovvero ad un involontario errore della mente (Cass. pen., Sez. VI, n. 38307/2015).
Al reato si applicano le cause di non punibilità di cui agli artt. 376 c.p. (ritrattazione) e 384 c.p. (non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore; la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere assunto come perito, consulente tecnico o interprete ovvero avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere perizia, consulenza o interpretazione), nonché le aggravanti di cui all’art. 383 bis c.p. (la pena è della reclusione da quattro a dieci anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a cinque anni; è della reclusione da sei a quattordici anni se dal fatto deriva una condanna superiore a cinque anni; è della reclusione da otto a venti anni se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo).
Estendendo la nostra analisi all’intero codice penale, notiamo, circa il perito, che l’art. 366 c.p. (rifiuto di uffici legalmente dovuti) punisce con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 30 a euro 516 chiunque, nominato dall’autorità giudiziaria perito, ottiene con mezzi fraudolenti l’esenzione dall’obbligo di comparire o di prestare il suo ufficio (le stesse pene si applicano a chi, chiamato dinanzi all’autorità giudiziaria per adempiere ad alcuna delle predette funzioni, rifiuta di dare le proprie generalità, ovvero di prestare il giuramento richiesto, ovvero di assumere o di adempiere le funzioni medesime).
Con riguardo invece alla figura del consulente tecnico, l’art. 380 c.p. (patrocinio o consulenza infedele) punisce con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516 il consulente tecnico che, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui assistita o rappresentata dinanzi all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale. Pertanto, è necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, che, quale conseguenza della violazione dei doveri professionali, rappresenta l’evento del reato, inteso non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale (Cass. pen., Sez. V, n. 22978/2017).
D’altro canto, il consulente tecnico che, in un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria, presta contemporaneamente, anche per interposta persona, la sua consulenza a favore di parti contrarie, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave reato, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 103. La pena è della reclusione fino a un anno e della multa da euro 51 a euro 516, se il consulente, dopo aver assistito o rappresentato una parte, assume, senza il consenso di questa, nello stesso procedimento, la consulenza della parte avversaria (art. 381 c.p.: altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico).
Va infine ricordato che l’art. 377 c.p. (intralcio alla giustizia) prevede che chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere il reato previsto dall’art. 373 c.p., soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite nell’articolo medesimo, ridotte dalla metà ai due terzi. La stessa disposizione si applica qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa.
Se poi chiunque, nel corso di un procedimento penale, anche davanti alla Corte penale internazionale, o anteriormente ad esso, al fine di trarre in inganno il perito nell’esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone, è punito, qualora il fatto non sia preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, con la reclusione da uno a cinque anni (art. 374 c.p.: frode processuale).
Per completezza, si segnala altresì che l’art. 382 c.p. (millantato credito del patrocinatore) punisce con la reclusione da due a otto anni e con la multa non inferiore ad euro 1.032, il patrocinatore che, millantando credito presso il perito, riceve o fa dare o promettere dal suo cliente, a sé o ad un terzo, denaro o altra utilità, col pretesto di doversi procurare il favore del perito, ovvero di doverlo remunerare.