di Emanuele Vari

In Italia si discute molto sul problema del sovraffollamento delle carceri, e ciò anche a seguito dell’emissione da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo della sentenza dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri c. Italia), con la quale il nostro Paese è stato condannato per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, il quale vieta la tortura e pene o trattamenti inumani e degradanti.

È stato anche approvato dalla Camera un decreto “svuota carceri” (Decreto Legge 1 luglio 2013 n. 78), e spesso si discute sui provvedimenti di clemenza (amnistia ed indulto).

Ma il problema delle carceri riguarda anche e soprattutto tutti quei bimbi, figli di madri detenute, costretti in carcere fin dalla più tenera età.

Bambini attualmente detenuti nelle carceri italiane, che non hanno nessuna colpa se non quella di essere nati da una madre condannata a scontare una pena detentiva. Bambini che sono costretti a crescere in un ambiente che nulla ha a che fare con un’infanzia spensierata, e che possono guardare il cielo soltanto da dietro le “sbarre”!

La loro presenza in strutture penitenziarie, specialmente se iniziata in età neonatale e protratta per più anni, oltre ad essere una pratica contraria ai diritti umani più elementari, può sicuramente arrecare gravi e permanenti danni per la loro salute.

Dovrebbe essere loro fornita ogni attenzione e conforto assieme alla madre. Dovrebbero essere garantiti – sempre in accordo con il genitore – la frequenza agli asili nido territoriali, opportuni spazi di socializzazione, la concreta vicinanza dell’altro genitore e/o dei parenti, un appropriato controllo delle condizioni di salute, la presenza di una puericultrice.

Sino alla fine del 2013, la Legge 26 luglio 1975 n. 354 permetteva alle madri detenute, che non potevano usufruire di percorsi alternativi alla detenzione, di tenere con sé i propri figli soltanto fino all’età di tre anni.

Compiuta tale età, i piccoli venivano separati ed affidati a parenti oppure ad istituti, per andare incontro alla vita, quella vera … ma senza la loro mamma!

Uno spiraglio è apparso con la Legge n. 62/2011, a tutela del rapporto fra madri detenute e figli minori. Tale normativa, nel prevedere che non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo esigenze di eccezionale rilevanza, nei confronti di donne incinta o madri di prole di età non superiore ai sei anni, consente alle donne di tenere con sé i propri figli fino ai sei anni in strutture non carcerarie, gli ICAM.

L’ICAM (Istituto a custodia attenuata per madri detenute) è una struttura che accoglie madri detenute in un edificio lontano dal carcere: quella che sembra una normale abitazione, con giardino, cucina, pareti colorate e giocattoli sul pavimento, in realtà è un carcere “a dimensione” di bambino, senza sbarre visibili, dove le mamme devono rispettare le stesse regole degli istituti di pena e dove la polizia penitenziaria lavora senza divisa, affiancata anche da educatori uomini per consentire ai minori di relazionarsi costantemente anche con figure maschili.

I bambini dormono con le loro mamme, la mattina sono accompagnati all’asilo e rientrano nel pomeriggio, vivendo la loro infanzia come se fossero a casa.

Anche le mamme si adoperano all’interno della struttura, occupandosi della pulizia delle camere e degli spazi comuni, preparando i pranzi, seguendo corsi ed altre attività.

Non per tutte le mamme, però, l’uscita coincide con la libertà definitiva: purtroppo alcune verranno comunque separate dai figli, dato che soltanto un terzo della pena può essere scontato in istituti a custodia attenuata.