Era self-evident che l’esclusione del reato previsto e punito ex art. 73, comma 5 (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità”) D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” (d’ora in innanzi, per acronimo, t.u. stup.) dal novero dei casi tali per cui è possibile formulare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova (d’ora in innanzi, per acronimo, MAP) per adulti (cfr. art. 464 bis e ss. c.p.p.) non avrebbe potuto resistere all’esito del vaglio di conformità/difformità con la legge fondamentale – e ciò indipendentemente dal formante normativo che si supponga “aggredito” (quantunque, poi, tutto si orienti, more solito, giusta il mancato rispetto dell’art. 3 Cost.). Bene ha fatto, laonde per cui, il giudice di costituzionalità (Corte cost., sent. 11 giugno – 1° luglio 2025, n. 90) ad accogliere la quaestio de legitimitate dichiarando la non conformità al precetto dell’art. 168 bis c.p. nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stup. – in primis adducendo a tertium comparationis l’art. 82, comma 1, (“Chiunque pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da lire due milioni a lire dieci milioni ” – qui, fra l’altro, non si è esplicitamente convertita in Euro la provvista sanzionatoria) identico Testo Unico il quale, pur venendo attinto da una pena più elevata, sia nel minimo che nel massimo edittale, garantisce il layout di accesso alla MAP. Come è dato legittimare tutto ciò (ovvero che per un illecito punito più severamente sia consentito ricorrere ad un istituto, all’apparenza di favor, come la messa alla prova laddove per un altro, espressione di una minore, reale o presunta che sia, intensità lesiva quell’opportunità è preclusa)? Basta leggere le norme e, a preambolo, proprio quell’art. 168 bis c.p., l’incentro della doglianza di costituzionalità, non per nulla vittima della “mannaia” del giudice di costituzionalità delle leggi (a breve osserveremo, per vero, che i giudici de quibus investivano la Corte costituzionale di perplessità in ordine alla tenuta di altre disposizioni giusta le quali, nondimeno, la Consulta si è motivata per l’inammissibilità o per la non fondatezza delle censure).

L’art. 168 bis c.p., allora e, più precisamente, il suo primo comma. Il legislatore, al riguardo, detta che, “Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova”. Ictu oculi si rileva che il cosiddetto piccolo spaccio, o spaccio di lieve entità (enunciati convenzionali con cui si fa rinvio alla fattispecie ex art. 73, comma 5, t.u. stup.), esula dagli orizzonti disciplinari colà quantitativamente indicati – la soglia di accessibilità alla MAP è fissata non oltre i quattro anni di pena detentiva nel massimo (e, qui, quel tetto è innalzato a cinque anni giusta recenti modifiche legislative di cui, fra non molto, segnaleremo il responsabile). Nulla sembrerebbe nondimeno perduto dacché quella evenienza – di accesso alla MAP – è comunque garantita, indipendentemente dagli editti sanzionatori, alla luce dell’operatività del comma 2 dell’art. 550 del codice di rito penale. Quest’ultimo disposto, in via diretta ed immediata, configura un listone sovrannumerario di casi al cui verificarsi il pubblico ministero esercita l’azione penale con la citazione diretta a giudizio innanzi al tribunale in composizione monocratica – in via indiretta e mediata, come da rinvio operato dall’art. 168 bis, comma 1, c.p.p., viene allora ad estendersi la possibilità di ricorso alla MAP (tutte le fattispecie incriminatrici ivi declinate prevedono un massimo edittale superiore ai quattro anni di reclusione). Ordunque: in quell’elenco, alla lettera c), è compreso il delitto di cui all’art. 82, comma 1, t.u. stup. (in merito al quale, di tal che, l’interessato può fare proposta di sospensione con messa alla prova) mentre del reato previsto e punito ex art. 73, comma 5, identico Testo Unico non v’è traccia (venendone, pianamente, che l’interessato soffre di un “banno” vero e proprio al riguardo). È assioma consolidato che situazioni uguali esigono trattamento conforme e che situazioni diverse esigono trattamento differenziato. Tutto sta quindi a verificare se i due illeciti penali eletti a confronto rispondano, o meno, ad identici contenuti e ad identici obiettivi: laddove il binomio si risolvesse per l’affermativa la disparità di trattamento risulterebbe costituzionalmente ingiustificata; qualora, invece, ci si disponesse per la negativa nihil de jure. La Corte costituzionale ha gioco facile a decidere (per la non conformità a precetto): e ciò nonostante ricostruzioni “fantasiose” dell’Avvocatura dello Stato volte a giustificare il doppio binario. L’organo legale di consulenza giuridica dell’esecutivo, invero, adduce “come il legislatore avrebbe previsto, non irragionevolmente, per il reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, un trattamento sanzionatorio, complessivamente considerato, più favorevole di quello previsto per lo spaccio di lieve entità, pur nel «medesimo ambito di oggettività giuridica». Nonostante una cornice edittale più elevata, infatti, si deve tener conto «di altri indici della minor gravità del reato [di cui al citato art. 82, comma 1], ricavabili da ulteriori profili del trattamento sanzionatorio, quali l’inserimento [tra i reati] non necessitanti del vaglio dell’udienza preliminare e non preclusivi della messa alla prova». Si sarebbe infatti assistito, «in materia di contrasto alla diffusione degli stupefacenti», a un mutato apprezzamento legislativo del disvalore del reato di piccolo spaccio, «evidentemente ritenuto più grave dell’omologo reato previsto dall’articolo 82, nell’ambito di quell’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore» e il cui limite si rinviene solamente «nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato, sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato». Nel caso di specie, in conclusione, le norme censurate non violerebbero l’art. 3 Cost., perché «la severità della risposta sanzionatoria» non risulterebbe «manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato». Paralogismo evidente giacché, qui, non si controverte sulla ritenuta maggiore gravità intrinseca di una fattispecie piuttosto che di un’altra quanto, invero, della tenuta costituzionale dell’inclusio unius (accessibilità alla MAP per i procedimenti ad oggetto l’istigazione, il proselitismo e l’induzione al reato) a detrimento dell’exclusio unius (inaccessibilità alla MAP per i procedimenti ad oggetto la produzione, il traffico, la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope laddove realizzate con quelle metodiche che, a fronte del contenuto normativo di cui al comma 5 dell’art. 73 t.u. stup., identificano il cosiddetto ‘piccolo spaccio’). Un grazioso fin de recevoir, alla base di questo argomento, a tutto concedere. Forse consapevole dell’inconferenza di ciò la difesa erariale, in sede di discussione orale, ha poi eccepito l’inammissibilità delle questioni per carente descrizione della fattispecie concreta, in quanto i rimettenti non avrebbero chiarito se le condotte contestate agli imputati nei rispettivi giudizi configurino fattispecie di piccolo spaccio “occasionale” o “non occasionale”. In sede di conversione del “decreto Caivano”, infatti, la legge n. 159 del 2023 ha aggiunto un secondo periodo al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, a mente del quale «[c]hiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità». La novella legislativa ha così introdotto un aggravamento della pena edittale minima prevista per lo spaccio di lieve entità, qualora sia caratterizzato dalla non occasionalità della condotta. Suggestione alquanto futile, al di là della configurazione del novum normativo quale fattispecie autonoma di reato od evenienza circostanziata (a tale riguardo, per amore della precisione, va evidenziato come la “terza istanza” rappresenti la non occasionalità della condotta di spaccio di lieve entità alla stregua di «una peculiare ipotesi circostanziale della fattispecie base prevista dal primo periodo del comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, come si desume [appunto] non solo dalla collocazione della previsione in esame all’interno del medesimo comma, ma anche dal rinvio, quanto alla descrizione della condotta punita, alla fattispecie prevista dal primo periodo del medesimo comma 5, differenziandosi, rispetto ad essa, per l’elemento specializzante della “non occasionalità” della condotta»: Cass. pen., sez. III, 22 gennaio – 13 febbraio 2025, Amendola): il fatto che il legislatore del 2023 abbia operato sul minimo edittale – triplicandolo rispetto a quanto contemplato per la fattispecie-base – non ha impatto veruno sull’accessibilità, o meno, alla MAP (al limite ciò potrebbe condizionare il ricorso ad ulteriori istituti, per così dire, di favor, tanto per esemplificare l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. – il “potrebbe” si giustifica dacché, in concreto, anche il ‘piccolo spaccio’ non occasionale è suscettibile di essere qualificato come di particolare tenuità la soglia oltre la quale si attiva il divieto fissandosi ex legein due anni) una volta osservato che “il criterio distintivo di identificazione dei reati, per i quali è possibile la messa alla prova, riman[e] affidato alla pena edittale nel massimo, senza considerare gli accidentalia delicti, né le aggravanti, né le attenuanti, quantunque ad effetto speciale”. Come fugacemente di già osservato è consequenziale, ciò premesso, disporsi per l’accoglimento della quaestio de legitimitate. Appurato che “(l)e ipotesi di reato messe a confronto – il piccolo spaccio e l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti – attengono alla medesima materia e sono sostanzialmente omogenee sotto il profilo dell’oggettività giuridica, nonché della strutturazione come reati di pericolo astratto o presunto … mentre l’art. 82, comma 1, t.u. stupefacenti, incrimina, alternativamente, l’istigazione pubblica, il proselitismo e l’induzione al consumo di sostanze stupefacenti, sanzionandoli con la pena detentiva da uno a sei anni di reclusione, oltre la multa; il reato di spaccio di lieve entità, «che un tempo costituiva una fattispecie attenuata rispetto al reato-base di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope, si delinea oggi quale illecito autonomo … che, “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità … ed è punito con la pena della reclusione da sei mesi (diciotto in caso di “non occasionalità della condotta”) a cinque anni, oltre la multa … è comunque riscontrabile una similitudine di disvalore tra le due fattispecie poste a raffronto, attestata appunto dall’identità dei beni giuridici e dall’anticipazione della loro tutela penale; similitudine che rende priva di giustificazione la diversa disciplina per esse prevista con riferimento alla messa alla prova, soprattutto in considerazione della natura e delle finalità di detto istituto … È, pertanto, irragionevole, e comunque foriero di disparità di trattamento, che, per la fattispecie meno grave tra le due poste a confronto (il piccolo spaccio), l’accesso alla messa alla prova sia precluso, mentre per quella più grave (l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti) sia, in astratto, ammissibile”. A corollario le, ormai sedimentate, osservazioni sul ruolo “istituzionale” della MAP. 1)  “la messa alla prova coniuga la funzione premiale – derivante dalla circostanza che il suo «positivo svolgimento determina [per l’imputato] le favorevoli conseguenze della declaratoria di estinzione del reato» … – con una forte vocazione risocializzante: la risocializzazione del soggetto, infatti, si svolge in «una fase anticipata» … rispetto alla stessa celebrazione del processo e all’eventuale condanna a una pena condizionalmente sospesa, a una pena sostitutiva di una pena detentiva breve o, comunque, a una pena la cui esecuzione sia sostituita da una misura alternativa. Ciò indubbiamente comporta maggiori possibilità di esito positivo della prova con conseguente recupero dell’imputato, che viene “affidato”, senza ritardo, all’ente o al soggetto presso il quale svolgerà le sue prestazioni …”; 2) “[l]a messa alla prova non implica una mera prognosi circa l’astensione dal commettere reati, bensì la valutazione in ordine all’idoneità del programma di trattamento, che – pur «funzional[e] alla risocializzazione del soggetto» – al contempo assume «una innegabile connotazione sanzionatoria rispetto al fatto di reato … . Il carattere sanzionatorio della messa alla prova è evidenziato, tra l’altro, proprio dalla prestazione del lavoro di pubblica utilità, che ne è una componente imprescindibile … Le prescrizioni oggetto del programma trattamentale, inoltre, incidono «in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto», tanto da doversi mantenere «entro un rapporto di proporzionalità rispetto alla gravità del fatto commesso» … In virtù delle finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire, il trattamento è però «ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione» … Esso è, infatti, «determinato legislativamente solo attraverso l’indicazione dei tipi di condotta che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione […] all’ufficio di esecuzione penale esterna e al giudice, con il consenso dell’imputato» … Ritiene pertanto questa Corte che – stante la particolare natura del reato di spaccio di lieve entità che, come evidenziato, si traduce in un fatto pur sempre attinente alla produzione, al traffico e alla detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, ma di limitata offensività e, soprattutto, indice di una ridotta pericolosità … – la messa alla prova ben si presta al conseguimento dello scopo – costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. – della risocializzazione del soggetto”; 3) “[n]on può non evidenziarsi come l’esclusione del piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova frustrerebbe anche le «finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità», che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’istituto persegue … Si è al cospetto, infatti, di un reato di minore gravità e di facile accertamento, soprattutto in riferimento alla fattispecie base non circostanziata – che viene in rilievo «quale discrimine per l’accesso al beneficio» della messa alla prova … – la cui condotta è caratterizzata, alla luce delle modifiche apportate dal “decreto Caivano”, oltre che dalla minima offensività, anche dall’occasionalità. È dunque un reato che ben si presta a una definizione alternativa del procedimento, con evidenti effetti deflattivi (sic!)”. Rebus sic stantibus de plano la declaratoria di incostituzionalità.

Veniamo ora ai non possumus ovvero alle censure respinte o perché inammissibili o perché non fondate. I giudici rimettenti – il Tribunale ordinario di Padova, sezione penale, in composizione monocratica ed il Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica – avevano tacciato di incostituzionalità ulteriori “comparti” normativi; entrambi dubitavano in merito all’art. 550, comma 2, c.p.p. laddove solo il giudice alto-atesino finanche mostrava perplessità in ordine all’art. 4, comma 3, d.l. 15 settembre 2023, n. 123, recante “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale” (cosiddetto ‘decreto Caivano’, dal comune dell’hinterland napoletano in cui ebbero a verificarsi accadimenti tragici che hanno fornito, all’esecutivo, occasione per un “giro di vite” con riguardo all’universo processuale penale minorile), convertito, con modificazioni, in l. 13 novembre 2023, n. 159. La doglianza “comune” viene ritenuta inammissibile; e ciò per mancanza di delimitazione effettiva del petitum. Qui, con motivazione sintetica bensì in toto approvabile, la Corte costituzionale, premesso che “[e]ntrambi i giudici a quibus ritengono che l’esclusione della messa alla prova per il reato di piccolo spaccio integri un vulnus agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., rimediabile con una pronuncia additiva, che aggiunga, alla lettera c) dell’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., il riferimento allo spaccio di lieve entità accanto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, stante la presunta omogeneità tra le due fattispecie delittuose”, epiloga che “l’accoglimento delle questioni così come formulate dai rimettenti produrrebbe effetti eccedenti il vulnus denunciato; in particolare, renderebbe applicabile alla fattispecie criminosa in questione l’intera disciplina processuale del rito semplificato della citazione diretta a giudizio, in luogo del solo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Il petitum è, quindi, eccedente rispetto alla reale portata delle questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione … Il petitum dell’ordinanza di rimessione «ha la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle censure», ma non vincola questa Corte, la quale, «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata”. Esito ineccepibile che non necessita di ulteriori commenti.

Ben altro riflettere ingenera, d’altro canto, il supposto vulnus arrecato dall’art. 4, comma 3, d.l. 123/2023 all’equilibrio costituzionale. A nostro modo di vedere il Tribunale di Bolzano aveva “colto nel segno” individuando in esso una violazione dell’art. 77, comma 2, Cost. (“Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”) ma la Corte non si é mostrata di identico avviso. La quaestio de legitimitate sottende un profilo peculiarmente delicato ovverosia l’abuso (inteso sia come uso eccessivo che come uso smodato) dello strumento del decreto-legge (emblematica, fra tutte, la vicenda di cui all’ennesimo ‘pacchetto-sicurezza’ – d.l. 11 aprile 2025, n. 48, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, convertito, rara avis, senza modificazioni, in l. 9 giugno 2025, n. 80, esito di un blitz governativo stante il quale l’esecutivo Meloni ha “trasfuso” in un provvedimento a tempo, ovvero e giustappunto il decreto-legge, i contenuti di un disegno di legge presentato dai Ministri dell’Interno – Piantedosi – della Giustizia – Nordio – e della Difesa – Crosetto –, in data 22 gennaio 2024, a numero d’ordine A.C. 1660, con ciò di fatto impedendo la “libera” discussione parlamentare su quegli scenari); profilo che, ça va sans dire, tange ben altro che il limitato occhiale del processualpenalista. La vicenda è ben nota: se, ormai un trentennio addietro, il punctum dolens si incentrava nella reiterazione seriale di quel provvedimento – che dovrebbe essere caratterizzato da necessità ed urgenza (per di più costituzionalmente qualificate come straordinarie) [solo per esemplificare un decreto , per ironia della sorte, cosiddetto ‘Milleproroghe’, non convertito, era stato ri-presentato per ben 29 volte: perfetta rispondenza fra significante e significato ma con buona pace di quei requisiti, or ora evidenziati, di necessità e di urgenza] – al punto che, imperiosamente, dovette provvedere la Corte costituzionale (Corte cost., sent. 17 – 24 ottobre 1996, n. 360), allo stato attuale il focus converge sull’omogeneità dei contenuti dei decreti-legge. Qui la Consulta detta le “tavole della legge” assai di recente (cfr. Corte cost., sent. 2 – 24 luglio 2024, n. 146) insegnandoci, e confortandoci, anche alla luce di opportuni precedenti, che l’omogeneità “si atteggia come «uno degli indici idonei a rivelare la sussistenza (o, in sua assenza, il difetto) delle condizioni di validità del provvedimento governativo»”. Didatticamente proseguendo la Corte enuclea due sottoclassi di riferimento – l’omogeneità materiale, o contenutistica, stante cui, nel corpo del decreto-legge, è dato evincere una“pluralità di norme accomunate … dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate” e l’omogeneità funzionale, o finalistica, stante cui, nel corpo del decreto-legge, è dato evincere l’“intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione” – la cui inosservanza determina una “aggressione” al chiaro disposto dell’art. 77, comma 2, Cost. supra evocato. “[U]n decreto-legge che si apre a “norme intruse”, estranee alla sua finalità, travalica i limiti imposti alla funzione normativa del Governo e sacrifica in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo. Infatti, in presenza di un termine assai breve, entro cui il Parlamento deve decidere se e con quali emendamenti approvare la legge di conversione del decreto-legge, l’eterogeneità dell’atto normativo governativo preclude un esame e una discussione parlamentare effettivi nel merito del testo normativo. La brevità del termine, assegnato al Parlamento per decidere se approvare la legge di conversione e con quali emendamenti, esige, affinché sia rispettata la funzione legislativa del Parlamento, che l’oggetto da disciplinare sia circoscritto. Senza il rispetto di tali condizioni, il decreto-legge si tramuta in un improprio “disegno di legge ad urgenza garantita”, in cui si possono trasfondere le norme più disparate, confidando nel fatto che la legge di conversione ne consolidi l’efficacia. … I limiti costituzionali alla decretazione d’urgenza e alla legge di conversione non sono funzionali solamente al rispetto degli equilibri fondamentali della forma di governo, ma valgono anche a scoraggiare un modo di legiferare caotico e disorganico che pregiudica la certezza del diritto. … Le “norme intruse” nel testo di un decreto-legge, contraddistinte da contenuti che non possono più essere ricondotti ad una finalità unitaria, sia pure largamente intesa, danno luogo ad una legislazione frammentata, spesso incoerente, di problematica interpretazione, che aggrava il fenomeno dell’incertezza del diritto e reca così pregiudizio sia all’effettivo godimento dei diritti che all’ordinato sviluppo dell’economia. Imprescindibile, in questa prospettiva, è un sufficiente grado di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti, prevedibilità che l’affastellarsi disordinato di leggi mina in modo irrimediabile. La certezza del diritto, lungi dall’essere una mera aspirazione filosofica, costituisce un principio di rilievo costituzionale e deve orientare l’interpretazione delle previsioni della Carta fondamentale, è parte viva e integrante del patrimonio costituzionale europeo e, in concreto, si declina come esigenza di chiarezza e di univocità …”. Quale migliore occasione della doglianza avanzata dal tribunale di Bolzano per mandare ad effetto i principi, solo un anno prima, nobilmente ed efficacemente impostati?

Di certo il cosiddetto ‘decreto Caivano’ non può qualificarsi per una omogeneità materiale – già le intitolazioni dei quattro Capi in cui esso si articola ne sono fedele testimonianza (Capo I – Interventi infrastrutturali nel territorio del Comune di Caivano; Capo II – Disposizioni in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile; Capo III – Disposizioni in materia di offerta educativa; Capo IV – Disposizioni per la sicurezza dei minori in ambito digitale). Tutto, di modo che, volge ad intendere il significato da attribuire alla locuzione ‘omogeneità funzionale’: e qui la Corte “strologa” onde preservare la vigenza dell’articolato normativo di cui al d.l. summenzionato. “Il Capo II (artt. 3-9), in cui è inserita la norma censurata, detta … disposizioni «in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile», con lo scopo – dichiarato nel preambolo del decreto-legge – di «contrasto alla criminalità minorile e all’elusione scolastica, e [di] tutela delle minori vittime di reato». Le norme di questo Capo, caratterizzate da una certa eterogeneità contenutistica, si snodano lungo tre direttrici: a) potenziamento delle misure di prevenzione «a tutela della sicurezza pubblica e della sicurezza delle città» (art. 3); b) interventi di diritto penale sostanziale, consistenti nell’introduzione di nuove fattispecie di reato e nell’inasprimento sanzionatorio di quelle esistenti, in materia di armi e di stupefacenti (art. 4); c) modifiche in materia di processo e di esecuzione penali minorili (artt. 6-9). Dai lavori preparatori emerge che l’aumento della pena detentiva per il reato di piccolo spaccio è finalizzato, tra l’altro, a consentire l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, anche per i soggetti adulti (art. 280, comma 2, cod. proc. pen.). Con riferimento ai minori, peraltro, l’art. 6, comma 1, lettera c), numero 1), del “decreto Caivano” ha modificato l’art. 23 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), riducendo da nove a sei anni di reclusione il limite edittale per l’applicazione della custodia cautelare ai minorenni, ma stabilendo che essa è comunque consentita per una serie di reati, tra cui quelli previsti dall’art. 73 t.u. stupefacenti. Anche in considerazione di ciò è individuabile un collegamento tra l’incremento sanzionatorio per il reato di piccolo spaccio e gli obiettivi di fondo del provvedimento d’urgenza: che è anzitutto quello di contrastare la criminalità giovanile, e non solo minorile, intervenendo in modo più severo nella repressione di alcune fattispecie criminose, come quella dello spaccio di lieve entità, che di detta criminalità sono espressione e manifestazione frequenti. Al contempo, questo intervento risponde alla finalità, anch’essa propria del decreto-legge in esame, di arginare situazioni di disagio e degrado minorile e, più specificamente, di tutelare le vittime di reato minori di età, considerato che spesso proprio i minori, e i giovani in genere, sono i destinatari dell’attività di spaccio cosiddetto di strada. Peraltro, la modifica della cornice edittale del reato in esame non è neanche un intervento isolato. … Nell’ambito del Capo II del “decreto Caivano”, l’art. 4 opera diversi interventi di diritto penale sostanziale, consistenti nell’introduzione di nuove fattispecie di reato o nell’inasprimento sanzionatorio di quelle esistenti, relative alle armi e agli stupefacenti. Con specifico riferimento ai reati in materia di stupefacenti, poi, il decreto-legge oggetto di censura ha introdotto altre modifiche in ambito di produzione, traffico e detenzione illeciti degli stupefacenti di lieve entità, ad esempio in tema di cosiddetta confisca in casi particolari (art. 85-bis t.u. stupefacenti) e di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere (art. 19, comma 5, del d.P.R. n. 448 del 1988). In conclusione, deve escludersi che la norma censurata sia palesemente estranea alla «traiettoria finalistica portante del decreto» … Detto decreto-legge, infatti, nell’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata – come quella volta a reagire alla reiterata commissione di episodi delittuosi di notevole gravità, sintomatici di una situazione di degrado sociale di una determinata area territoriale e, in generale, della diffusione di comportamenti devianti e criminali da parte di giovani e a carico di vittime minori di età – ha sì previsto interventi oggettivamente eterogenei, perché afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione …” Tutto vero, in un’ottica generale, ma sia consentito dissentire; ed altresì fermamente. Bene aveva motivato il giudice a quo a cui vedere “il “decreto Caivano” è stato adottato per far fronte a un «”caso straordinario” determinato da episodi di criminalità giovanile ritenuti pericolosamente in aumento», come emerge dai lavori preparatori e dal preambolo dello stesso. Rispetto alle finalità perseguite dal legislatore, «l’intervento di cui all’art. 4, terzo comma, appare affatto inconferente», ponendosi come «norma oggettivamente e teleologicamente sconnessa con il resto del corpo dell’atto». L’aumento del massimo edittale della pena detentiva per il reato di spaccio di lieve entità, infatti, non può «in alcun modo, nemmeno astrattamente, essere ricondotto alla necessità di contrastare il disagio giovanile, la criminalità minorile o la sicurezza dei minori in ambito digitale». Peraltro, non risulterebbe alcun legame tra «i delitti in tema di stupefacenti (in particolare le ipotesi lievi)» e la «criminalità minorile», considerato comunque che l’esclusione dell’accesso alla messa alla prova riguarda solamente «gli indagati adulti»” (la sottolineatura è nostra) “e, quindi, l’eventuale obiettivo legislativo di contrasto alla criminalità minorile sarebbe «manifestamente mancato»”. Diciamolo ancora meglio, scusandoci per la presunzione: l’aumento di pena, giusta il massimo edittale, per il reato di spaccio di lieve entità, che preclude l’accesso alla MAP per gli indagati/imputati maggiori di età, si inserisce in un contesto riformistico stante cui, nel panorama di riferimento degli under ages, per la prima volta la sospensione del processo con messa non è più incondizionatamente garantita (cfr. art. 28, comma 5 bis d.p.r. 22 settembre 1988, n. 4448, recante “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”: “Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai delitti previsti dall’articolo 575 del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 576, dagli articoli 609 bis e 609 octies del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 609-ter, e dall’articolo 628, terzo comma, numeri 2), 3) e 3-quinquies), del codice penale”). Cosicché, senza nessuna logica di sistema, prima dell’intervento della Corte costituzionale: A) per l’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stup., è interdetta l’evenienza della MAP per coloro che abbiano raggiunto la maggiore età laddove B) per gli infradiciottenni ciò rimane “lecito” – e tutto ciò in un provvedimento ad oggetto dichiarato l’universo minorile ed in cui, fatto inedito, la MAP non è più indefettibilmente concedibile. Per garantire l’omogeneità funzionale, come esatta dalla Corte nella sentenza 146/2024, sarebbe bastato un mero tratto di penna ovvero aggiungere alle interdizioni ex art. 28 comma 5 bis d.p.r. cit. quella ad oggetto l’art. 73, comma 5, t.u. stup. [e che al proposito il legislatore non avesse remora veruna è testimoniato dal fatto che, nel riformulare i contenuti dell’art. 23 d.p.r. 448/1988 – ivi leggendosi che, ora, è possibile applicare la custodia cautelare quando si procede per delitti non colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a sei anni -, egli, claris verbis, ha fatto riguardo, giusta la clausola di esordio “Anche fuori dei casi predetti”, all’art. 73 t.u. stup. generalmente inteso, il cui comma 5, come a più riprese conferito, adduce una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni]. Clamoroso, a nostro modo di vedere, l’“infortunio” di cui la Corte è stata apportatrice.

Quali, al postutto, le ragioni della cautela manifestata dal giudice di legittimità delle leggi? Difficile comprenderlo. Con buona plausibilità si può nondimeno ipotizzare che il giudice costituzionale non abbia voluto indispettire il riformatore, in un’ottica di leale collaborazione, affrettandone i deliberata in materia – la coerenza di sistema del mini-codice processuale penale minorile sembrerebbe, ordunque, essere stata immolata sull’“altare” della riscrittura dell’equilibrio tra i poteri dello Stato (legislativo vs. esecutivo) giusta l’esercizio adeguato della funzione normativa. Ciononostante si ha sentore della problematica: non per nulla, presso le Assemblee parlamentari, sono calendarizzati numerosi disegni di legge (nello specifico A.S. 574, Paroli; A.S. n. 892, Tosato; A.S. 976, Giorgis ed altri; A.S. 1137, Gelmini) che, a vario titolo (dall’incremento dei termini di conversione dei decreti-legge dagli attuali 60 giorni a 90 giorni nondimeno assumendone l’inefficacia ex tunc laddove la conversione avvenga ugualmente dopo l’esaurirsi del sessantesimo giorno dalla loro presentazione al “contingentamento” dell’uso a determinate materie e, ancora, alla necessità della richiesta di priorità ad opera del Governo nell’iter legislativo; oltre alle ricorrenti sollecitazioni per il voto a data certa, o per la corsia preferenziale, per i disegni di legge governativi), mostrano di farsi carico dell’abuso del ricorso al decreto-legge. Trattasi di prospettiva che ben oltrepassa il limitato “campo di elezione” del processualpenalistica; ma non più tergiversare, sul punto, è ormai indifferibile.