La “saga infinita” dell’overturning, in grado di appello, della liberatoria emessa in prime cure si arricchisce di un nuovo, ennesimo, capitolo. In una recente pronunzia (Cass. pen., Sez. I, 28732/23), infatti, il giudice di legittimità ci dice che “la rinnovazione istruttoria non può essere parziale e limitata ad una selezione delle fonti dichiarative e neppure ad una scelta delle circostanze sulle quali esse debbano essere riassunte, tanto più se arbitrariamente delimitata a quelle funzionali ad un giudizio di condanna. La valutazione della prova dichiarativa è … il risultato di un’operazione di comparazione tra i contenuti della singola fonte e quelli delle altre fonti, nonché degli altri apporti istruttori … Poiché scopo dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. è quello di portare tutte le fonti dichiarative decisive e tutto il loro patrimonio conoscitivo nella disponibilità del giudice d’appello attraverso il metodo dell’oralità e dell’immediatezza, una rinnovazione selettiva di tali prove determina una violazione sostanziale del diritto al contraddittorio” – violazione che era, giustappunto, venuta a realizzarsi ad esito del complesso accertamento, in secondo grado, dei fatti imputati. I prequel del decisum si trasmettono su “piattaforme” diverse: a livello sovranazionale (di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali) un insieme di arrêts, di precipuo rilievo, della Corte EDU; a livello interno una sequenza febbrile di interventi della Corte di cassazione, nella sua massima espressione a Sezioni Unite, prima di indirizzo e, poi, di sofferto governo dell’esistente. In mezzo, a collante imperfetto, il già menzionato art. 603, comma 3-bis, c.p.p., fra l’altro recentemente interpolato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (cosiddetta riforma Cartabia, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia), a Rubrica normativa “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, stante il cui precetto “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5”.
Giusta il primo scenario (quello della Corte alsaziana) tutto muove da un ormai risalente “arresto” del giudice dei diritti umani – Dan v. the Republic of Moldova (n. 1), terza Sezione Corte EDU, 5 luglio 2011 – in cui si ingiungeva, alla Repubblica ex-sovietica de qua, laddove si mirasse a condannare e, di riflesso, ad applicare una pena in grado di appello, con ciò dichiarando l’overturning dell’assoluzione resa in prime cure, di mandare ad effetto l’enunciato di cui all’art. 6 §1 CEDU (Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali) giusta il tenore del quale “[i]n the determination of … any criminal charge against him, everyone is entitled to a fair … hearing … by an independent and impartial tribunal established by law.” E ciò in quanto, nel così orientarsi, la Corte di appello non può, se si vuole che il canone del “giusto processo” non resti lettera morta, esaminare la vicenda sottoposta al suo giudizio a prescindere da un vaglio diretto dei testi di accusa: “coloro a cui si assegna la responsabilità di decidere della (e sulla) colpevolezza/innocenza di un accusato dovrebbero, in linea di principio, essere posti in grado di sentire i testimoni onde attestarne la “fededegnità” tanto più considerando che ciò identifica un “onere” complesso che non può essere soddisfatto dalla mera lettura di quanto detto in primo grado e, poi, raccolto a verbale”. In quel contesto, infatti, il signor Dan, preside di una scuola media superiore, era stato accusato di avere richiesto denaro ad un genitore onde agevolare l’iscrizione del figlio di quest’ultimo presso il plesso scolastico. Ebbene: in primo grado l’imputato era stato assolto poiché i testimoni oculari (al di là del supposto tramite della “mazzetta” tutti operativi di polizia giudiziaria che avevano assistito al ritenuto interscambio) avevano fornito dichiarazioni contraddittorie tali da non soddisfare il canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ tanto più considerando che il video dell’operazione sotto copertura, che avrebbe dovuto documentare l’addebito, si interrompeva proprio nel momento “topico” dell’incontro fra dante ed avente causa); a seguito dell’appello interposto dal pubblico ministero, ed inopinatamente “ribaltando” il previo giudizio, il signor Dan veniva condannato in seconda istanza meramente a fronte di una diversa valutazione, sulle “carte”, di quanto dichiarato dagli astanti in precedenza (i quali, dunque, non erano stati esaminati anew). “Forte” del judgment con cui la Corte di Strasburgo condannava lo Stato moldavo per violazione dell’art. 6, §1 il Dan chiedeva la riapertura del processo ad epilogo del quale, nondimeno, veniva una volta di più ritenuto responsabile dell’addebito. La vicenda ha un sequel, laonde per cui – giustappunto, Dan v. the Republic of Moldova (n. 2), seconda Sezione Corte EDU, 10 novembre 2020 -, ancora una volta ad esito non “gradito” dallo Stato convenuto nuovamente condannato per inosservanza del dettato convenzionale testé menzionato. Quasi agendo impropriamente da giudice di “quarta istanza” l’organo di jus dicere di specie effettua una verifica dettagliatissima sull’operato dei giudici nazionali censurandone la superficialità giacché non avevano posto in essere tutte le “misure positive necessarie” onde assicurare la presenza dei dichiaranti in giudizio volgendo, in luogo, alla mera lettura del pre-formato. Da ciò due corollari significativi: 1) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello non è un vuoto esercizio di stile, una mockery of justice, di tal che le seconde cure identificano un processo a tutti gli effetti, caratterizzato da oralità ed immediatezza nell’assunzione della prova; 2) di tal che, rebus sic stantibus, la rinnovazione dibattimentale non potrà limitarsi ad una richiesta di conferma, o di disconoscimento, dei precedenti assunti dovendosi invero procedere a ri-sentire gli io-narranti de quibus. Nel caso concreto, e ciò appare di significativo rilievo per la vicenda che ci occupa, il giudice di appello moldavo, a fronte dei sette escussi in primo grado, si era limitato a sentirne in esclusiva tre (con riguardo alla supposta vittima del reato la ri-audizione si mostrava impossibile essendo, nelle more del procedimento, costui era deceduto; in merito ai tre esponenti delle forze dell’ordine non citati a comparire non si dettagliava alcunché significando, alquanto genericamente a dire il vero, che uno di essi, non essendo più in servizio, risultava di difficile, se non impossibile, reperibilità) mentre, degli altri quattro, si procedeva a leggere i verbali delle previe dichiarazioni – da ciò le ferme “stipulazioni” della Corte EDU nella parte motiva di Dan n. 2.
A complemento (rectius, ad “incentro”) due “pietre miliari” della giurisprudenza strasburghese ovvero Al-Khawaja and Tahery v. United Kingdom, Grande Camera Corte EDU, 15 dicembre 2011, e Schatschaschwili v. Germany, Grande Camera Corte EDU, 15 dicembre 2015. Nella vicenda ad oggetto il Regno Unito due tranches de vie autonome, ma simili quanto a dinamica realizzativa, vengono a “consolidarsi” in un unico decisum. Al-Khawaja, attivo nel campo della medicina riabilitativa, viene accusato di avere mantenuto una condotta inappropriata nei riguardi di due pazienti di sesso femminile, una delle quali commette poi un atto anti-conservativo, pur tuttavia non legato alla vicenda de qua, mentre costoro risultavano sottoposte ad ipnosi. La persona che si è suicidata, oltre a rendere formali dichiarazioni alla polizia giudiziaria (il cui verbale, non potendosi procedere all’audizione dell’interessata per ovvie ragioni, verrà poi letto dinnanzi alla court of first instance), aveva altresì condiviso il suo vissuto con due sue amiche (le quali verranno nondimeno sentite in giudizio). Sul punto specifico Al-Khawaja viene condannato, esito confermato dai giudici di appello in quanto, a detta di questi ultimi, la lettura del verbale de qua non si mostra, di per sé, incompatibile con il dettato dell’art. 6, §§1 e 3 (d) CEDU (Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali) il tenore dell’ultimo paragrafo – per il primo v. supra – assumendo che “[e]veryone charged with a criminal offence has the following minimum rights … d) to examine and have examined witnesses against him and to obtain the attendance and examination of witnesses on his behalf under the same conditions as witnesses against him”. Tahery, a sua volta, viene imputato, ad esito di un alterco per ragioni etno-razziali, di avere ferito, brandendo un coltello, un esponente della comunità iraniana a Londra il quale, pur tuttavia, non si mostrava in grado di identificare il presunto assalitore (non avendolo visto mentre commetteva l’atto). Uno degli spettatori al litigio – anch’egli esponente della comunità iraniana – “confidava” ai law officers di avere sì visto Tahery pugnalare l’avversario ma, per timore di vendette e/o di ritorsioni, negava di esporsi in sede di giudizio (egli, difatti, rendeva il proprio sapere al di fuori della portata “video-auditiva” della giuria popolare chiamata a decidere il caso – solo il togato, nevvero, era messo a conoscenza delle sue preoccupazioni). Anche in questo frangente veniva letto il verbale di cui alle antecedenti dichiarazioni alla polizia giudiziaria ed il prevenuto, come Al-Khawaja, veniva condannato (quantunque con un verdetto solo a maggioranza), esito sottoscritto finanche dal giudice di appello. Schatschaschwili, invece, è rinviato a giudizio per avere derubato, in una con taluni complici ed in luoghi diversi, un gruppo di persone, di nazionalità lituana e di nazionalità lettone (queste ultime, temendo ulteriori conseguenze non gradevoli, trovano rifugio presso una delle vittime di cui alla prima rapina abbandonando poi, e nell’immediatezza, la Germania), nei loro appartamenti ed al loro cospetto. Le due ragazze dopo avere reso dichiarazioni innanzi al giudice delle “investigazioni” preliminari mantengono fede al loro proposito ritornando nel loro Stato di origine: una volta evocate a comparire a pubblico dibattimento esse adducono certificato medico comprovante, a loro dire, un’instabilità emotiva e psicologica tale da impedirne la partecipazione effettiva al giudizio, sia in presenza sia da “remoto”. E neppure la richiesta di assistenza giudiziaria, diligentemente avanzata dal giudice tedesco, va a buon fine giacché l’omologo lettone, accedendo alle “suppliche” delle due persone offese, rifiutava di procedere a sentirle nel loro habitat naturale ovvero la Lettonia. Non resta, anche qui, che leggere, inevitabilmente, venendone che Schatschaschwili viene condannato sulle “carte” (i suoi appelli successivi verranno poi dichiarati inammissibili).
Quid juris, tum? La Al-Khawaja doctrine, a seguire rifinita in Schatschaschwili, identifica una composita procedura a più steps così, a grandi linee, riassumibile. A) Primo si deve accertare se sussista una valida ragione a giustifica dell’assenza del testimone e, di riflesso, per l’ammissione, a compendio probatorio, delle previe dichiarazioni non vagliate per il filtro del contraddittorio; B) deinde è giocoforza verificare se il sapere di cui al teste assente rappresentasse la sola o la preponderante base (sole or decisive test) onde addivenire alla condanna dell’imputato; C) extremo vanno ricercati fattori compensativi (sufficient counterbalancing factors), su tutto “robuste” garanzie procedurali, per bilanciare l’handicap sofferto dalla difesa ad origine nell’ammissione a giudizio di elementi di prova non “testati” e per garantire che il processo, valutato nel suo complesso, risulti fair. Nondimeno, ad ulteriori corollari: D) la mancanza di valide ragioni a giustifica del fatto che l’escutendo non abbia presenziato al trial non è, di per sé, momento invalidante la fairness processuale benché essa si configuri quale profilo di significativa rilevanza per quest’ultima valutazione; E) l’esistenza dei fattori compensativi di cui supra appare imprescindibile non solo laddove il contributo del dichiarante soddisfi il test di riferimento ma finanche qualora, alla luce della valutazione effettuata dalle corti nazionali sul peso da attribuire alle “evidenze” raccolte, la Corte dei diritti umani, pur mostrandosi incerta sulla natura esclusiva o preponderante, ai fini dell’accertamento di responsabilità, della prova, ciononostante ne ritenga significativo l’impatto tanto se più se la sua ammissione abbia pregiudicato la strategia difensiva. Il margine di operatività dei fattori compensativi de quibus, dunque, sarà direttamente proporzionale all’importanza della prova out of the cross-examination: maggiore quest’ultima maggiore quanto “esatto” da quelli; F) infine, l’impostata serie non configura un percorso rigidamente vincolante per il sindacato rimesso agli organi di jus dicere. Rebus sic stantibus Tahery e Schatschaschwili ebbero soddisfazione delle loro doglianze mentre, in ordine ad Al-Khawaja, la Corte alsaziana ritenne rispettati i formanti convenzionali di cui all’art. 6, §1 e 3, della CEDU – nel dettaglio i counterbalancing factors a compensazione della mancata cross-examination della supposta vittima della condotta indecente addebitata al para-medico di specie venivano a riassumersi nell’opportuna instruction rivolta ai juries dal giudice togato: stante il fatto che, alla luce dell’intervenuto suicidio della persona offesa, la giuria non era in grado di osservarne il demeanour laddove escussa, di modo che il peso da attribuire alle previe dichiarazioni, “cristallizzate” in apposito verbale, veniva ad evidenziarsi attenuato (e di ciò il corpo giudicante laico risultava pienamente edotto nella apposita instruction), in una alle ulteriori prove addotte dall’ufficio dell’accusa (prosecution office), il trial non poteva certo qualificarsi come unfair.
Sul fronte interno, come già anticipato, un “esercito” di pronunzia a Sezioni Unite dalla Corte di cassazione. Il comparto giurisprudenziale, alla luce dell’ormai usuale “neghittosità” del legislatore – Dan n. 1 risaliva al 2011 -, nella sua massima espressione nomofilattica (Cass. Sezioni Unite, 26620/2016), enucleava le linee-guida per la rinnovazione dell’istruttoria in appello: “a) il valore di parametri esegetici da riconoscere ai precetti della Convenzione europea dei diritti umani, come interpretati dalla Corte di Strasburgo; b) l’obbligo del giudice d’appello, per ribaltare il proscioglimento in condanna, di rinnovare, anche d’ufficio, l’esame delle fonti di prova dichiarative ritenute decisive in primo grado; c) la configurazione della prima condanna in appello, in assenza di rinnovazione istruttoria, quale vizio di motivazione censurabile di fronte alla Corte di legittimità, in ragione del mancato rispetto del canone decisorio del superamento di ogni dubbio ragionevole, indipendentemente dal richiamo alla violazione della Convenzione europea” [in questo punto le Sezioni Unite sembrando discostarsi dall’insegnamento Dan giacché, valorizzando il profilo del “superamento di ogni dubbio ragionevole” (v. art. 533, comma 1, c.p.p.), paiono volgersi a tutelare la presunzione di innocenza ex art. 6 §2 CEDU – per il Nostro assetto cfr. la formula, non del tutto equivalente, di cui all’art. 27, comma 2, Cost. – in luogo del richiamo al fair trial ex art. 6 §1, da leggersi in combinato disposto con l’art. 6 §3, lett. d), emblema del diffusamente riconosciuto right to confrontation – di modo che il contraddittorio per la prova, da indeclinabile principio ispiratore dell’ordinamento, verrebbe depotenziato a metodo di formazione di quella]. Comunque sia detto indirizzo appare ribadito, a “stretto giro di posta”, da un ulteriore intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sezioni Unite, 18620/2017), in relazione ad un appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento emessa ad esito di giudizio abbreviato. Nel frattempo interviene la legge generale ed astratta, finalmente verrebbe con amarezza da chiosare – ma di ciò subito a breve – di modo che l’incessante “lavorio” dei pratici ora è volto a ciò che, ad esordio di questo contributo, è venuto a qualificarsi come governo dell’esistente. Si è quindi pervenuti a ri-stipulare il tratto definitorio del novum di riferimento (l’ancora non declinato, nei suoi tratti identitari, art. 603, comma 3-bis, c.p.p.) sia giusta l’angolo visuale soggettivo che giusta l’angolo visuale oggettivo. Dal primo versante, allora, si è sottolineata la necessità della rinnovazione istruttoria finanche laddove si voglia ri-esaminare, in seconde cure, o un perito e/o un consulente tecnico a patto che costoro siano già stati ascoltati in primo grado e che il loro “sapere esperto” sia ritenuto ‘decisivo’ onde riformare la sentenza impugnata nel verso di cui alla norma codicistica (Cass. Sezioni Unite, 14426/2019); non vale la “conversa”, invece, nel senso che non grava nessuno obbligo, sul giudice di appello, di rinnovare la “provvista” probatoria allorquando, a seguito di una condanna, si intenda optare per l’assoluzione (Cass. Sezioni Unite, 14800/2017). Difatti, mentre la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non traduce, in formula decisoria, la certezza dell’innocenza bensì solo il dubbio sulla medesima (scil.: colpevolezza) (cfr. art. 530, comma 2, c.p.p.) venendone, di riflesso, che “l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l’assoluzione” (dal che è dato evincere, qualora ancora ve ne fosse urgenza di conferma, che le autentiche rationes decidendi a fondamento di tale manipolo giurisprudenziale stanno nella tutela della presunzione di innocenza e non nel pieno esplicarsi del right to confrontation). Comunque sia “il giudice di appello … è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado”. Quanto da ultimo precede, pur tuttavia, non esonera l’organo di secondo grado dal disporre la rinnovazione de qua: semplicemente ciò non rappresenterà una necessità bensì una opportunità da “coltivare” a mente del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 603 c.p.p. laddove il giudice così decida di motivarsi. Sempre eleggendo a focus il così qualificato momento oggettivo la riflessione di cui alla suprema Corte di legittimità ha infine delimitato la necessità della rinnovazione istruttoria facendo cenno alle sole ‘prove decisive’ ovvero a quelle prove atte a “scardinare” l’esito conclamato di cui al giudizio di primo grado (nell’evenienza di specie la pronunzia assolutoria) – altrimenti detto, per così dire, ‘prove determinanti’ che sotto-ordinano un nuovo epilogo decisorio.
A “crocevia”, da ultimo, l’interpolazione normativa ex art. 603, comma 3-bis, del codice di rito penale (per il suo “conio” cfr. l. 23 giugno 2017, n. 103, recante “recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, la cosiddetta ‘riforma Orlando’, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia) stante cui il giudice ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale qualora il pubblico ministero appelli una sentenza di proscioglimento “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”. L’“onnivora” riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) ha provveduto anche qui giacché, ora, l’art. 34, comma 1, lett. i), n. 1) di quest’ultimo articolato, intervenendo ciononostante sul testo dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., soggiunge, restandone invariato il “tessuto” originario, che è d’uopo disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale “nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5”: e ciò basti per quel che ci occupa. Ora appare palese che il novum sia stato dettato in aderenza formale all’insegnamento a Sezioni Unite a muovere dal 2016 – la rinnovazione opera non solo più a fronte di appello avverso decisioni ad esito di giudizi ordinari ma altresì ad esito di giudizi abbreviati condizionati – nonché per ribadire, in ossequio a quanto ripetutamente conferito dalla Corte EDU, che la ratio ispiratrice di quella necessità di rinnovo tende a salvaguardare il compiuto esplicarsi del right to confrontation e non valori indeclinabili quali la presunzione di innocenza o di non colpevolezza, che dir si voglia – metodi e non princìpi, in estrema sintesi.
Bréf: se quanto precede corrisponde al reale nihil sub sole novum con riguardo alla sentenza che ha dato origine a queste fugaci annotazioni. Ripercorriamone, per sommi capi, le vicende, tutto affatto che di immediata lettura, prima di trarne qualche considerazione ad epilogo. In primo grado la Corte di assise di Reggio Emilia aveva assolto un gruppo di sodali di un consorzio mafioso dall’accusa di concorso in omicidio pluriaggravato ai danni di X eleggendo invece uno fra i predetti ad unico responsabile dell’omicidio di Y condannandolo, laonde per cui, alla pena dell’ergastolo; e ciò sulla base delle convergenti dichiarazioni di taluni collaboratori di giustizia (non ritenuti invece “fededegni” in ordine all’ulteriore episodio omicidiario) nonché dei riscontri forniti dai tabulati telefonici dall’agenda di colui che aveva venduto le armi che erano servite per commettere il delitto e dalle dichiarazioni dell’allora fidanzata di un partecipante, benché solo in ruolo accessorio, all’intrapresa. Proponevano appello il pubblico ministero – che chiedeva la condanna di tutti gli interessati e la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ex art. 603, comma 3-bis, c.p.p. – ed il capo mafioso che era stato dichiarato unico autore dell’omicidio di Y. Il giudice di seconde cure, id est, la Corte di assise di appello di Bologna, sottoscrivendo solo in parte l’operato dell’ufficio requirente, ammetteva le prove sopravvenute (cfr. art. 603, comma 2, c.p.p.) e, ciò ritenendo assolutamente necessario a mente del comma 3, l’esame di alcuni fra i previ narranti (testimoni, collaboranti, imputati in procedimento connesso che fossero); veniva di conseguenza esclusa la rinnovazione integrale dell’istruttoria dibattimentale a mente dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., reputandone mancanti i presupposti. A esito di questa revisio prioris instantiae il giudice felsineo, pur riaffermando l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, ha stipulato che “la ricostruzione operata dai primi giudici in ordine” al primo omicidio “fosse frutto di un travisamento della prova per omissione e falsificazione” attribuendo pertanto la responsabilità per l’evento luttuoso a due fra i coimputati de quibusmentre, per il secondo episodio criminoso, tutti i rinviati a giudizio venivano condannati – fra l’altro alla pena dell’ergastolo – e non solo più l’esponente di spicco di cui sopra della (dis)onorata società. “Nel caso di specie, pur avendo il pubblico ministero contestato la valutazione operata dai primi giudici delle prove dichiarative ritenute decisive …, la Corte d’assise di appello ha escluso l’integrale rinnovazione istruttoria. Tanto ha fatto affermando che la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado fosse il frutto di travisamento della prova per falsificazione, omissione ed invenzione su circostanze del tutto omesse o falsificate. In realtà, posto che secondo l’insegnamento di questa Corte, ricorre l’errore revocatorio quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia …, ciò che la Corte territoriale qualifica come tale costituisce piuttosto una diversa valutazione ed interpretazione delle fonti dichiarative su cui i primi giudici avevano fondato la pronuncia di assoluzione. E ciò risulta puntualmente dal percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata la quale, pur affermando di condividere il giudizio di credibilità espresso dalla Corte d’assise riguardo alle due principali fonti dichiarative … ne ha operato una pressoché integrale rilettura alla luce dell’intero compendio probatorio, addivenendo ad una decisione di condanna” (la sottolineatura è nostra) “In tal modo, la Corte d’appello è pervenuta al ribaltamento della decisione assolutoria sulla base di una vera e propria rivalutazione e complessiva reinterpretazione dell’intera prova dichiarativa, mediante una integrale e analitica rilettura della stessa, operata alla luce dell’intero compendio probatorio acquisito. È indubbio che tale prova dichiarativa avesse contenuto decisivo, dal momento che su di essa sono fondate le due opposte decisioni dei giudici di merito. Ciononostante, la Corte territoriale ha operato una rinnovazione istruttoria doppiamente selettiva, sia quanto alle fonti da riascoltare, sia, soprattutto, quanto alle circostanze su cui risentirle. Tale decisione si risolve in una violazione del diritto al contraddittorio, puntualmente denunciata dalle difese, la quale, comportando una nullità di ordine generale a regime intermedio, espone la sentenza impugnata ad annullamento con riferimento alla parte in cui è stata esclusa l’integrale rinnovazione dell’istruttoria. I giudici d’appello avrebbero pertanto dovuto rinnovare la prova dichiarativa nella sua interezza, non potendo limitarsi ad una selezione delle fonti, né delle circostanze sulle quali esse dovevano essere risentite, ma dovendo riguardare tutte le fonti coinvolte nel contrasto. La violazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. e la conseguente lesione del diritto al contraddittorio espone pertanto la sentenza impugnata ad annullamento con riferimento alla omessa integrale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale” (anche la seconda sottolineatura mandata ad effetto è nostra).
Se quanto precede è vero, e non v’è ragione veruna per dubitarne, il decisum oggetto di interesse parrebbe “organico” ad un filone consolidato. A livello di grande Europa, come è stato dimostrato, la corte EDU ha, con costanza di intendimenti, supportato un approccio, per così dire, “olistico” [il processo deve risultare fair laddove complessivamente considerato: anche se, in tempi a Noi prossimi, detto modulo operativo sembrerebbe tendersi ad incresparsi: cfr. Durdaj and Others v. Albania, terza Sezione Corte EDU, 7 novembre 2023, avuto riguardo alla violazione degli aspetti procedurali di cui all’art. 2 CEDU (Right to life)] – e come si possa eventualmente supporre che la Corte di Strasburgo si sia altrimenti motivata in Dan n. 2 manet in alta mente retentum giacché proprio la mancata, integrale, rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ha “precipitato” l’ulteriore condanna della Repubblica ex-sovietica; a livello di ordinamento italiano, poi, nulla lascia desumere, altresì ad una lettura fuggevole delle pronunzie a Sezioni Unite, che l’organo di nomofilachia abbia mai ipotizzato una legittimazione selettiva del quod erat demonstrandum a fronte del chiaro enunciato di cui all’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. (“il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”). In un commento “ostile” alla sentenza testualmente si scrive che “non si vede infatti come il sol fatto di ripetere la prova testimoniale a distanza di anni possa essere garanzia di un processo più equo. Laddove è invece dato notorio che, con il passare del tempo, il teste, chiamato per la seconda volta nella witness box, tenderà a ricordare di più quello che aveva precedentemente dichiarato rispetto al fatto in sé”. Sarà pure dato notorio … ma è proprio ciò che è accaduto in Dan n. 2 a fare riflettere sulla fallacia dell’assunto in quanto, in quel contesto, i dichiaranti residui (i tre poliziotti escussi) sembravano rammentare particolari finanche de minimis che, invece, nell’immediatezza degli accertamenti, o avevano omesso di narrare o addirittura negavano di avere percepito con i propri apparati sensoriali – la memoria si era sorprendentemente “ridestata” a molti anni dal fatto oggetto di imputazione, laonde per cui; e proprio su ciò si erano appuntate le critiche del giudice dei diritti umani. A bene vedere sotteso a detto modus argomentandi sta la parola d’ordine di cui alla ormai “famigerata” riforma Cartabia: l’efficienza o, come con orrenda cacofonia si detta, l’“efficientamento” della macchina giudiziaria, costi quel che costi. Certo che si rinvia a giudizio il meno possibile – ora ciò accade sulla base di una “ragionevole previsione di condanna”; certo che se si “invoglia” verso risoluzioni alternative delle contese (premiate a detrimento dell’esercizio di diritti prima facie inconcussi: si mediti, tanto per esemplificare, sull’art. 442, comma 2-bis, c.p.p. in tema di benefit sanzionatori a fronte dell’opzione per il giudizio abbreviato) ed il dibattimento ordinario è sempre più una chimera (guai ad assolvere, non sia mai!); certo che se il grado di appello è vieppiù stretto da “lacciuoli” formali (cfr. l’art. 581, commi 1-bis, 1-ter e 1-quater, del codice di rito penale) ed è sempre meno partecipato (v. il nuovo art. 598-bis c.p.p.) allora anche un utile tutto sommato marginale come quello derivante da una rinnovazione ridotta dell’istruttoria dibattimentale può fare massa inerziale efficiente. Se le cose stessero effettivamente come auspicano i corifei della riforma “il collega del merito, in maniera del tutto illogica, si troverebbe costretto a dover riascoltare anche prove dichiarative, o parti delle stesse, che non hanno avuto alcuna ricaduta – effettiva – sulla decisione, nemmeno incidentalmente. Con buona pace della tanto ricercata efficienza, quale corollario della c.d. “economia processuale” nonché del fruttuoso dibattito in merito ai connotati del requisito della decisività della prova che pure deve essere attinta da rinnovazione ex art. 603, co. 3-bis, c.p.p. e che pure nelle motivazioni della sentenza in analisi sembrano, almeno apparentemente, godere di un certo cono di luce”. Gli ipotizzati scompensi verrebbero sì a gravare sull’efficienza processuale –non v’è dubbio – ma perseguire quest’ultima, a contraltare, non dovrebbe azzerare le garanzie di cui al processo accusatorio – come invece l’ordito Cartabia sembrerebbe disporsi a fare e come la migliore letteratura processualpenalistica si è subito impegnata a denunziare.