“Il Re è nudo”. All’innocenza del bambino che, manifestando il suo stupore (“Ma il Re non ha niente addosso!”), rivela l’ipocrisia cortigiana degli adulatori nella nota fiaba di Hans Christian Andersen “I vestiti nuovi dell’Imperatore” può venire paragonata la tranciante affermazione di cui alla dissenting opinion dei giudici Breyer, Sotomayor e Kagan in Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization (la sentenza che ci occupa in queste brevi note, emanata dalla Corte Suprema Federale USA, ad epilogo dell’October Term 2021, in data 24 giugno 2022): “la Corte adotta oggi una nuova prospettiva” Pessimi, nondimeno, entrambi i decisa stante la visuale marcatamente giuridica. Roe, in temporibus, ancorava le possibilità di scelta della gestante (il cosiddetto right to choice, per l’appunto) ad una rigorosa articolazione in trimestri: tanto più ci si approssimava all’epilogo naturale della gravidanza tanto più il nascituro (the potential life “declina” Roe in ciò poi corroborata da Casey) era suscettibile di vita autonoma al di fuori dell’utero materno venendone, di tal che, una serie di counter-arguments funzionali a bilanciare il diritto summenzionato (Roe enumera la tutela della vita potenziale, eletta a focus privilegiato in Casey, la necessità di mantenere standards medici elevati – in ciò leggendosi l’occhio di riguardo manifestato da Harry Blackmun, estensore della majority opinion in Roe, nei confronti delle professioni sanitarie -, l’esigenza di salvaguardare la salute della donna giusta evenienze che questa potrebbero mettere a repentaglio). Oggi Dobbs che, a bene vedere, al di là del ripudio della Roe doctrine, si caratterizza per quello che dice “di non dire e di non fare” (finanche di tale sibillino, ed apparente, “bisticcio” si darà conto nell’immediatezza dell’esposizione). In medias sta Casey che, nell’opportunamente sottordinare i Roe trimesters – facile obiettare che trattasi di impostazione “liquida” che può “flottare” tra estremi assai distanti (tanto per esemplificare, nel XIX° secolo l’autosufficienza del nascituro veniva a fissarsi fra la 32a e la 33a settimana a muovere dall’ingravidamento; ai tempi di Roe ciò veniva retroagito all’incirca alla 28a settimana; oggi il progresso della ostetricia e della ginecologia attesta quella “linea di displuvio” al compimento della 23a/24a settimana) – al core di Roe (in parallelo consolidandosi la nozione di viability tout court), ne salvava l’essenza nel verso che qualsivoglia opzione in materia di pratiche abortive non poteva disconoscere la centralità dell’autodeterminazione della partoriente nel motivarsi al riguardo. In estrema sintesi, allora, il “nucleo duro” di Roe veniva a preservarsi giusta le seguenti componenti: 1) il riconoscimento del diritto della donna ad abortire prima della viability di modo che ogni disciplina limitativa, con riguardo specifico a quella fase, si sarebbe tradotta in un peso eccessivo (undue burden) giacché gli interessi ordinamentali volti a supportare una proibizione dell’aborto o a frapporre ostacoli sostanziali all’effettività di una libertà scelta ad avvalersene before fetal viability were not strong enough; 2) nondimeno, una volta acclarata la potenzialità di vita autonoma del nascituro, ben potevano i singoli Stati ricorrere a discipline contenitive laddove le normative di risulta si facessero carico di individuare evenienze ad oggetto la vita e/o la salute della donna “in stato interessante”; 3) infine, “il fatto che ad ogni ordinamento vada attribuito un interesse legittimo a tutelare la salute della madre oltre che the life of the fetus that may become a child” fin dal momento dell’impianto dell’ovocita nell’utero materno. Un maggiore “interventismo” in capo ai singoli Stati nel normare in subiecta materia, ça va sans dire, ma, del pari, una ferma accentuazione del right to choice: e ciò in ossequio al canone dello stare decisis (regola del precedente) che permea di sé il modus procecendi/decidendi degli organi giudiziari, soprattutto di vertice, di common law. Oggi, nondimeno, i sottili equilibrismi di Casey, stante Dobbs, non hanno più ragione di essere. Prima, pur tuttavia, di indagare l’apparato motivazionale che ha garantito l’overruling di Roe e di Casey sciogliamo la riserva in ordine all’entità numerica di Justices che ha supportato tale esito conclamato. A differenza di quanto comunemente assunto, difatti, per il superamento delle pronunzie del 1973 e del 1992 si sono espressi “solo” cinque giudici ovvero i tre Trump’s nominees a cui vanno uniti l’arcigno Samuel Alito, estensore della majority opinion, nonché il tetragono Clarence Thomas espressione, alla Corte, dell’America più profonda e codina. Il Chief Justice Roberts, invece, pur riconoscendo la conformità al precetto fondamentale della legge del Mississippi che ha dato origine alla vicenda – la quale punisce l’aborto a muovere dalla 15a settimana successiva al concepimento, ben prima quindi che il feto possa qualificarsi viable -, sul condivisibile presupposto della corrispondenza fra chiesto e pronunciato (lo Stato del Sud, quantunque con incertezze, non si sarebbe disposto apertis verbis per l’overruling) e dell’economia di cui ai giudizi (“se non è necessario decidere un quid pluris per risolvere un caso allora è necessario non intraprendere quella strada”), ritiene non ancora maturi i tempi per procedere all’obliterazione di Roe e di Casey. Altrimenti detto: John Roberts vorrebbe eliminare ogni cenno alla viability, di difficile “gestione”, ma conservare il nucleo duro di Roe ovverossia il right to choice, in capo alla donna, onde decidere su questioni, per così dire, personalissime come se portare a termine, o meno, una gravidanza (sia detto per inciso: altresì l’impostazione privilegiata dal Chief Justice, a lungo andare, potrebbe rivelarsi infattibile dacché la verifica di costituzionalità di una legge che proibisse in toto il ricorso a pratiche abortive, e ciò a prescindere dal momento in cui ci si facesse carico di quello strumento, ovvero ad esordio dei nove mesi di “travaglio”, tanto per esemplificare, ed a prescindere dalle condizioni che hanno determinato la gravidanza come, putacaso, una violenza sessuale, laddove avvenuta con successo, implicherebbe l’azzeramento del diritto, per vero solo a parole, riaffermato). Ma, al di là di quanto chiosato fra parentesi, appare lampante che i giudici che si motivano per l’overruling di Roe e di Casey sono cinque, e non sei, come costantemente ripetuto dagli organi, qui, di disinformazione: trattasi, allora, di una split decision che si muove lungo assiali ormai consolidati nella formazione delle maggioranze di cui alla Corte Suprema USA [un primo indice dei (dis)United States of America quale eredità di Dobbs, fra l’altro). Ma veniamo alla ratio decidendi di quest’ultima. Roe aveva individuato la dimensione costituzionale del diritto all’aborto nelle “pieghe” della Due Process Clause (dovuto processo legale) di cui al XIV° Emendamento alla Costituzione federale, clausola mediante cui, all’indomani della sanguinosa guerra civile che aveva visto fronteggiarsi Stati del Nord e Stati del Sud, si era provveduto ad incorporare, con riguardo alle singole entità territoriali, i diritti e le garanzie di cui ai primi dieci Emendamenti alla Costituzione federale. Quella previsione, fra l’altro, si mostrava idonea, giusta l’esegesi dominante, a legittimare diritti e garanzie non espressamente riconosciuti nel testo fondamentale – i cosiddetti not-enumerated rights – (qui, di tal che, sarebbe più onesto discutere di substantive due process) a patto che essi fossero “profondamente radicati nella storia e nella tradizione degli Stati Uniti d’America” nonché “impliciti nel concetto di libertà come colà intesa (ordered liberty)”. Poiché in Costituzione non è dato riscontrare accenno veruno al right to abortion il passo è breve per segnalarne l’estraneità ai presupposti or ora menzionati: trattasi dell’ormai stucchevole argomento letterale (rectius, testualista) in ordine a cui parrebbe quasi superfluo dedicare attenzione non fosse per il fatto che la majority opinion esso elegge a “cavallo di Troia” del proprio percorso motivazionale. Argomento specioso, nondimeno: in una Costituzione scritta da uomini (rectius, da esseri umani di sesso maschile per esseri umani di sesso maschile) figuriamoci se solo si immaginava di dedicare spazio – siamo nel 1789, rammentiamolo – ad istanze volte a tutelare la sfera intimo/relazionale delle appartenenti al sesso femminile (in temporibus ridotte alla veste tradizionale di mogli e/o di madri); e nulla muta nel 1868, anno di ratifica del XIV° Emendamento di cui supra, se solo a breve lasso di tempo, nel 1873 per la precisione, la Supreme Court negava l’autorizzazione alla pratica forense ad una donna con orgoglio mal riposto soggiungendo che esse non avevano esistenza giuridica se non per tramite del marito: così Bradwell v. State, 16 Wall. 130 (1873) (ricordiamo che le donne assurgeranno a “soggetti politici” pleno jure in esclusiva stante il riconoscimento del diritto di voto nel 1920). Fisiologico, quindi, che il dettato costituzionale taccia comprensibilmente sul punto. Ma finanche autoconfutante, invero: non per nulla, nel dichiarare l’incostituzionalità di una legge dello Stato di New York in una decisione resa pubblica il giorno precedente a quella che ci occupa – New York State Rifle & Pistol Assn., Inc. v. Bruen – la suprema magistratura federale non si è affatto peritata di verificare se il II° Emendamento legittimi a portare armi al di fuori del proprio domicilio sulla base di criteri oggettivi (nella fattispecie, giusta la necessità di difesa personale). E valga il vero: quell’Emendamento non dice nulla al riguardo. Del resto, a tale proposito, è magistrale quanto conferito dal giudice Kagan nella sua dissenting opinion, sottoscritta altresì dai colleghi Breyer e Sotomayor, ad esito di una ulteriore vicenda problematica risolta nel Term appena giunto ad epilogo – West Virginia v. EPA: “Anni fa ricordavo che, ormai, siamo tutti testualisti … Probabilmente mi sbagliavo. L’attuale Corte è testualista solo quando ciò Le fa comodo. Quando detta metodica frustra obiettivi di più ampio raggio ecco che nuovi stilemi magicamente appaiono come “conigli dal cilindro””. A seconda guideline della “decostruzione” di Roe e di Casey la revisione critica della regola del precedente (stare decisis) – su questa “linea del Piave” avevano con buona probabilità fatto affidamento coloro che auspicavano una conservazione dello status quo ante – vincibile al concomitante manifestarsi di determinate pre-condizioni. Qui entriamo in un terreno impervio che si propone per numerose technicalities (di particolare ostività per un lettore ad esse non avvezzo): a tracciarne le coordinate si dedica Justice Kavanaugh nella sua concurring opinion. A breve sinossi, di tal che, un precedente può essere superato se 1) la previa decisione non solo è errata bensì si rivela clamorosamente errata; 2) la previa decisione ha provocato significative conseguenze negative sia giusta il profilo dell’interpretazione giurisprudenziale sia avuto sentore agli effetti da essa determinati sulla vita reale; 3) dichiarare l’overruling non suscita indebite ricadute su legittimi diritti quesiti. L’opacità e la porosità di tali elencandi appare già ictu oculi: tanto per esemplificare che cosa distingua un mero errore da un errore clamoroso manet in alta mente retentum; ed idem dicasi per il peso che la “significanza negativa” dovrebbe assumere per potere rilevare su giurisprudenza e/o quotidianità. E dubbi e perplessità ben potrebbero moltiplicarsi ad abundantiam. Come già accennato incidenter tantum, dopotutto, il profilo di maggiore interesse sta in ciò che l’opinione di maggioranza si affanna a negare … “non diciamo questo né intendiamo fare quest’altro” (non fosse altro perché con ciò viene a preconizzarsi il futuro). In primis viene ossessivamente significato che Dobbs non cancellerebbe affatto il right to abortion bensì riattribuirebbe a “We, the People” (gli uomini di cui sopra, verrebbe con impertinenza da chiosare), per il filtro delle Assemblee legislative, il diritto di normare in subiecta materia, diritto del quale, stante un atto di “arroganza giudiziaria” in concorso imputabile a Roe ed a Casey, si era stati ingiustificamente privati. Ora, al di là dell’ovvia considerazione per cui un Parlamento sovrano potrebbe ridurre il diritto di specie ad un banned right (laddove si criminalizzasse senza “se” e senza “ma” il ricorso all’interruzione della gravidanza) oppure estenderlo ultra necessitate (un vero e proprio capricious right rimesso in esclusiva alla volontà della donna senza bilanciamenti di sorta a compensazione di un ipotizzabile arbitrio) – ed i movimenti di “assestamento tellurico” di cui alle iniziative parlamentari susseguenti a Dobbs lasciano presagire che quanto detto non riconduce a sterile esercizio accademico – sia consentito dubitare dei sistemi elettorali di una Federazione che, per ben cinque volte nella sua storia, ha visto eleggere a Presidente un candidato che ha ottenuto un numero di voti popolari inferiori rispetto allo sconfitto (ancora di recente ciò si è verificato nella tornata che ha contrapposto Donald Trump e Hilary Clinton stante il fatto che quest’ultima ha riscontrato quasi tre milioni di voti in più dell’avversario, poi eletto “regolarmente” 45° Presidente degli Stati Uniti). In secundis ci si interroga, con preoccupazione, sulla sorte da assegnarsi a decisioni contigue a Roe ed a Casey ovverossia a decisioni che si sono fondate su di un apparato motivazionale similare che ha fatto leva sul concetto di ordered liberty onde riconoscere not enumerated rights, di natura eminenentemente privatistico/intimistica, alla generalità dei consociati. Tanto per riassumere: a1) il diritto a sposare una persona di diversa etnia – Loving v. Virginia, 388 U.S. 1 (1967); b1) il diritto a sposarsi mentre ristretto nella libertà personale – Turner v. Safley, 482 U.S. 78 (1987); c1) il diritto a ricorrere a contraccettivi – Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965); Eisenstadt v. Baird, 405 U.S. 438 (1972); Carey v. Population Services Int’l, 431 U.S. 678 (1977); d1) il diritto di convivere con i propri parenti – Moore v. East Cleveland, 431 U.S. 494 (1977); e1) il diritto a rendere decisioni ad oggetto l’educazione dei figli – Pierce v. Society of Sisters, 268 U.S. 510 (1925); Meyer v. Nebraska, 262 U.S. 390 (1923); f1) il diritto a non essere sterilizzati senza avere prestato valido consenso – Skinner v. Oklahoma ex rel. Williamson, 316 U.S. 535 (1942); g1) il diritto a non essere destinatario, in specifiche circostanze, di attività invasive della propria libertà personale (putacaso, interventi chirurgici non acconsentiti) – Rochin v. California, 342 U.S. 165; Winston v. Lee, 470 U.S. 753 (1985); Washington v. Harper, 494 U.S. 210 (1990) -, gli antesignani, nonché a2) il diritto ad intrattenere rapporti sessuali consensuali, in privato, con persone del medesimo sesso – Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558 (2003); b2) il diritto a sposare una persona del medesimo sesso – Obergefell v. Hodges, 576 U.S. 644 (2015) -, la progenie. La Corte si affretta a rassicurare … pur non trasmettendo fiducia ai commentatori. Da un lato il “molosso” giudice Thomas sta già “affilando le lame”: nella sua concurring opinion egli, difatti, muovendo dall’assunto, con difficoltà contestabile, che quelle prerogative individuali si fondano su di un referente mobile ovvero la substantive process clause anch’essa evincibile dal XIV° Emendamento alla Costituzione federale (che, nevvero, stipula expressis verbis una Due Process Clause a natura eminentemente processuale), assume che nulla osta all’overruling di quei diritti; ciò che trattiene il Justice afro-americano dal mandare ad effetto i propri propositi sta nel fatto che quei leading cases (rectius, il loro superamento) non erano all’ordine del giorno in Dobbs venendone che non mancheranno occasioni per rivedere il tutto. La majority opinion, dal canto suo, sembrerebbe, di primo acchito, esonerare dal proprio “piccone dorato” solo le decisioni citate esplicitamente in Roe ed in Casey (ciò che si è venuto a qualificare come ‘antesignani’, altrimenti detto); in un secondo passaggio, invece, forse fattisi edotti del compiuto passo falso, Justices Alito, Coney Barrett, Gorsuch, Kavanaugh e Thomas, in una sorta di obiter dictum, tranquillizzano sul fatto che sotto la “cappa protettiva” del non intervento ablativo stanno tutti quei precedenti che non concernono l’aborto (finanche la così qualificata ‘progenie’, dunque) giacché il right to choice adombrato al proposito, risolvendosi in un atto terminativo di una vita (rectius, di una vita potenziale), si evidenzia per la sua unicità – esso è inerentemente diverso dalla intimità sessuale, dal matrimonio ed equivalenti semantici e dalla procreazione. Ma al di là di queste schermaglie lessicali è l’identico modus procedendi della Corte Suprema a mettere in guardia: se per revocare in dubbio diritti ritenuti già prima facie inconcussi sufficit un mero omissis in Costituzione (e che delle Roe-type warranties non emerga traccia nel dettato fondamentale – e non può che essere così e per ragioni storiche e per ragioni, per così dire, antropologiche – alla maggioranza attuale dei Brethren pare non importare un “ette”) il destino di quelle posizioni di tutela pare già segnato. Basta per vero che, nel contesto decisorio di specie, si formi un indirizzo “proclive” ad un’esegesi iper-testualista of the supreme law of the United States of America perché si addivenga ad una “resa dei conti” ormai non più procrastinabile. Ciò mostra una Federazione vieppiù slabbrata e divisiva – e il tentativo di riallocazione dei poteri fra ‘centro’ (giustappunto l’ordinamento federale) e ‘periferia’ (i singoli Stati) con maggiore leeway riconosciuto a questi ultimi ne è plastica espressione: cfr. le tre sentenze di cui all’October Term 2021 evocate nelle presenti notule – (a livello storico-cronachistico come dimenticare l’assalto a Capitol Hill, invece): né l’avvicendamento fra gli Associate Justices Stephen Breyer e Ketanji Brown Jackson sembra vaticinare, quantomeno nel breve periodo, nuovi equilibri all’interno di quell’augusto consesso. Times they are a-changin’, the line it is drawn … ma il futuro resta drammaticamente un’ipotesi.
Mario Deganello, “Cinquant’anni spesi invano”: diritto all’aborto, Corte Suprema Federale USA e (dis)United States of America
[ovvero l’overruling (superamento) di Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973) nonché di Planned Parenthood of Southeaster Pa. v. Casey, 505 U.S. 833 (1992): n.d.a.] “per una ragione e per una ragione sola: in quanto è mutata la composizione dell’organo giudicante” (del resto trattasi delle medesime ragioni per cui, nel 1973, una maggioranza qualificata della Corte – sette vs. due – riconosceva un right to choice alle donne in tema di aborto e per cui, nel 1992, una plurality opinion di cui si è debitori a Justices O’Connor, Kennedy e Souter ne confermava il nucleo fondativo). Al di là di ogni infingimento trattasi di decisioni politiche: tratto vieppiù qualificante la suprema magistratura federale a stelle e strisce e significativamente accentuatosi alla luce del fil rouge conservativo che lega i tre giudici supremi nominati all’“alto soglio” durante la controversa Presidenza di Donald Trump [in ordine di apparizione: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett, non per nulla facenti parte della “risicata” (daremo conto a breve di questo aggettivo) maggioranza che ha decretato la neutralità, rectius, l’indifferenza costituzionale giusta il divisivo profilo di interesse – pro choice vs. pro life in materia di opzioni abortive].