Commento a Cass., Sez. I Penale, 8 settembre 2022, n. 33117
La vicenda oggetto di accertamento è di particolare efferatezza: una donna anziana, sola e con evidenti problemi di salute, viene barbaramente assassinata al fine di impossessarsi di pochi, “miseri”, denari. Le indagini si orientano, già a poche ore dalla commissione del fatto, verso un nipote della suddetta, del quale ella diffidava, nondimeno nullafacente che vive di espedienti e dedito al consumo, finanche in esclusiva saltuario, di sostanze stupefacenti. Ma, come quasi sempre accade, non v’è nulla che colleghi, in via diretta, lo S. all’omicidio della zia (nessun testimone oculare del fatto; nessuna “documentazione” giusta video-riprese di quanto accaduto); pur tuttavia una serie di elementi indiretti, provvisti di sintomatica “carica” dimostrativa, riconducono, al di là del ragionevole dubbio, l’accadimento alla responsabilità del prevenuto. Il giudice di legittimità, investito di tre motivi di ricorso, variamente articolati, “cassa” in quota-parte la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Assise di Appello di Torino ove quella aveva ri-qualificato l’atto appropriativo di cui all’imputato sub specie di ‘rapina propria’ (violenza omicidiaria esercitata per “mandare ad effetto” il reato contro il patrimonio) in luogo di “rapina impropria” (violenza omicidiaria esercitata per assicurarsi l’impunità per il “connesso” reato) come al tempo evidenziato dal giudice di primo grado: venendone che, così opinando, si finirebbe per incriminare due volte “il finalismo dell’azione (violenza per assicurarsi l’impunità) …, la prima quale elemento costitutivo della rapina impropria, la seconda come elemento che caratterizza l’aggravante del delitto di omicidio”
Al di là di ciò, e senza punto deprezzare l’importanza di tale actio finium regundorum, per “deformazione professionale” di processualpenalista l’occhio “cade” pur tuttavia su quei tratti della sentenza in cui la Corte, con opera meritoria, riassume le “condizioni d’uso” della cosiddetta ‘prova indiziaria’ (v. art. 192, co. 2, c.p.p.) giungendo, ad epilogo di detta verifica, a dichiarare inammissibile, in parte qua, il motivo di ricorso avanzato. Ma muoviamo con ordine, invero dai concetti, quantunque, more solito, il legislatore si esoneri dal provvedere al riguardo. Giusta un’etimologia colta con il vocabolo ‘indizio’ si allude al cosiddetto meccanismo indiziario, ovverossia al procedimento mediante il quale, per tramite di un’operazione logico-abduttiva (nel microcosmo giuridico “risalire” dall’effetto alla causa), si va dal fatto noto (factum probans) al fatto ignoto (factum probandum). Espresso in altri termini, secondo il grado di accettazione fra i consociati della massima di esperienza (reiterabilità, suscettibile di generalizzazione stante l’id quod plerumque accidit, di una condotta umana o di una legge scientifica) che funge da premessa maggiore del sillogismo giudiziario, risulterà decrementata, oppure incrementata, la prossimità al vero del factum probandum. Cedendo il “palcoscenico” al giudice di legittimità “è definibile quale prova … indiziaria ogni contributo conoscitivo che, pur non rappresentando in via diretta il fatto da provare, consenta – sulla base di una operazione di raccordo intellettivo e logico tra più circostanze – di contribuire al suo disvelamento (dal fatto noto, l’indizio, si perviene alla conoscenza di quello ignoto). L’indizio, pertanto, ha una sua autonoma capacità rappresentativa, che tuttavia per la sua parzialità – e per rappresentare una circostanza diversa (pur se logicamente collegata) rispetto al fatto da provare – consente esclusivamente di attivare, nella mente del soggetto chiamato ad operare la ricostruzione, un meccanismo di inferenza logica, capace di condurre ad un accettabile risultato di conoscenza di ciò che rileva ai fini del giudizio sulla responsabilità dell’accusato”.
A ciò viene nondimeno a contrapporsi l’opinione di chi, sulla base di una presunta attenuata capacità dimostrativa, ne “sposa” la natura di probatio minus quam plena (elemento di ridotta attitudine probatoria). Così proponendosi, pur tuttavia, si mira a fissare un genere “identitario” del fenomeno analizzato che, però, non è riproponibile nel mondo reale: naturalisticamente parlando l’indizio, difatti, rappresenta un’entità sfuggente una volta osservato che altresì un contributo testimoniale nonché una risultanza documentale può fondarne il paradigma laddove acceda non al thema probandum bensì ad un fatto secondario. Lo dice benissimo, in un’ottica speculare, la Corte di Cassazione nella sentenza annotata: “la prova logica non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) posto che, fra l’altro, la stessa prova storica se da un lato ha il pregio di rappresentare il fatto in via diretta (ad es. la narrazione del teste che abbia assistito all’azione delittuosa o una videoripresa del delitto) dall’altro annida in sé rischi di errore (falsità della deposizione, errore percettivo del teste, alterazione del dato tecnologico …) tali da determinare la necessità di un dovuto approccio ‘critico’ da parte del giudice anche alle ipotetiche fonti dirette, nell’ambito di una ricostruzione che deve in ogni caso assicurare il massimo livello possibile di corrispondenza della decisione ai fatti”. Con il che “il legislatore all’art. 192 non ha inteso introdurre alcuna «gerarchia di valore» nell’ambito delle diverse acquisizioni probatorie, ma ha unicamente indicato il criterio argomentativo” (il corsivo è nostro) “che va applicato nella operazione ricostruttiva”. Strutturalmente, dunque, prova critico-indiziaria e prova storico-rappresentativa sono diverse ma, funzionalmente, “cospirano” ad assicurare un medesimo risultato ovvero la sussumibilità di un fatto di cui al mondo naturalistico ad una fattispecie legale nonché la sua attribuibilità ad un soggetto determinato.
Ça va sans dire, alla luce di quanto precede, che l’indizio non è un’“istantanea” del fatto storico: altrimenti detto, esso non “impressiona” nitidamente ciò che è oggetto del/i capo/i di imputazione a differenza della prova diretta (o storico-rappresentativa, che dir si voglia). Stando così le cose, il legislatore ne ha condizionato l’efficacia ai fini dell’accertamento di responsabilità (per l’esonero da quest’ultima si potrebbe discutere, invero …) alla co-presenza di tre attributi qualificativi: la gravità; la precisione; la concordanza. Con ‘gravità’ si fa riguardo alla capacità dimostrativa ovvero alla pertinenza del dato rispetto al thema probandum nel senso che gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni, e quindi attendibili e convincenti: la gravità, allora, allude alla pregnanza del dato rispetto all’oggetto dell’accertamento secondo la logica del probabile di modo che tanto più sicura si paleserà l’inferenza indiziaria quanto più l’indicazione ricavata appaia conferente al thema probandum. Con ‘precisione’, invece, si stigmatizza la circostanza indiziante inidonea a prestarsi ad interpretazione diversa da quella della prova del fatto ignoto da dedurre ovvero trattasi degli indizi non generici e non suscettibili, ribadiamo, di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, quantomeno non equivoci (a contrario “predicare” l’univocità parrebbe invero, allo stato, viziata da radicalismo costringendo ad accedere allo specifico indirizzo che tende a diluire l’indizio preciso nel circuito di quello necessario significandosi, con il vocabolo di specie, l’implicanza necessitata e certa del fatto ignoto dal presupposto indiziante). Con ‘concordanza’, da ultimo, si precisa che la verifica in merito alla concludenza a certezza del fatto va saggiata non singolarmente, per ognuna circostanza indiziante che sia grave e precisa, ma simultaneamente nel senso che è necessario procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi che presentino singolarmente una positività parziale o, almeno, potenziale di efficacia probatoria; ergo deve trattarsi di indizi che non contrastano fra di loro e più ancora con altri dati o elementi certi ovvero tali da simboleggiare il confluire di più implicanze “plausibili” verso un medesimo risultato. Stando così le cose non potranno quindi che ritenersi gravi, precise e concordanti le inferenze desunte dal rapporto di implicazione fra antecedente noto e conseguente ignoto: “la prova indiziaria conduce, in tesi, alla scoperta dell’autore di un fatto di reato attraverso «significati intermedi», tali da attivare un fondato e rassicurante percorso logico di dipendenza tra più circostanze”.
Ciò premesso il giudice deve procedere in primo luogo all’esame parcellare di ciscuno di essi, definendolo nei suoi contorni, valutandone la precisione, che è inversamente proporzionale al numero dei collegamenti possibili col fatto da accertare e con ogni altra possibile ipotesi di fatto, nonché la gravità apprezzata con i medesimi criteri. L’apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un’univocità indicativa che dia la certezza logica dell’esistenza del fatto da provare, allora, costituisce un’operazione logica che presuppone la previa valutazione di ognuno fra di essi singolarmente onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquisita la valenza indicativa, sia pure di portata possibilistica e non univoca, di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell’esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ogni indizio si somma e si integra con gli altri di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto. Beninteso ed a scanso di ogni equivoco: l’insufficienza persuasiva eventualmente attribuibile ad una connessione abduttiva non viene “sanata” una volta in amalgama con ulteriori segni argomentativi; è la sinergia combinatoria del complesso indiziante che fonda l’attendibilità del risultato e non, viceversa, il singolo dato in sé e per sé equivoco che tale resta, pur anche unito ad altri. Estremizzando il tutto: se l’analisi critica su taluni indizi ha portato a risultati negativi il giudice non può certo utilizzarli a fini probatori senza smentire la definizione che dell’indizio (valido) si è fornita. E ciò basti.
Riconducendosi ancora al decisum S. “nella valutazione di una molteplicità di indizi è necessaria una preventiva valutazione di indicatività di ciascuno di essi – sia pur di portata possibilistica e non univoca – sulla base di regole collaudate di esperienza e di criteri logici e scientifici, e successivamente ne è doveroso e logicamente imprescindibile un esame globale e unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio possa risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri sì che il limite della valenza di ognuno risulta superato e l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella valutazione unitaria, in modo da conferire al complesso indiziario pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto”. D’altra parte non può sottacersi come il “singolo indizio, inteso pertanto come dato con contenuto informativo tale da ‘concorrere’ all’accrescimento della verità contenuta nell’ipotesi di partenza, va[da] sottoposto a verifica al fine di individuarne il «grado di persuasività» … fermo restando che non può pretendersi che il giudizio di ‘gravità’ (ossia il peso dimostrativo in rapporto al fatto da provare) sia uguale per ogni singolo dato indiziante, essendo del tutto usuale – nell’ambito della descritta valutazione unitaria richiesta dalla norma -” (id est, l’art. 192, co. 2, c.p.p.) “la concorrenza di elementi indizianti di maggiore o minore gravità, ferma restando la necessaria (al fine di raggiungere il risultato dimostrativo) precisione (intesa come direzione tendenzialmente univoca del contenuto informativo) e concordanza (il che implica, almeno sul piano tendenziale, la pluralità dei dati sottoposti a valutazione, la loro convergenza dimostrativa e, in ogni caso, l’assenza di dati antagonisti, o di smentita)”. Ad epilogo, laonde per cui, la considerazione che il “diverso «grado» di gravità del singolo indizio influisce dunque sulla valutazione complessiva, nel senso che …, in tema di prova indiziaria, il requisito della molteplicità, che consente una valutazione di concordanza, e quello della gravità sono tra loro collegati e si completano a vicenda, nel senso che, in presenza di indizi poco significativi, può assumere rilievo l’elevato numero degli stessi, quando una sola possibile è la ricostruzione comune a tutti, mentre, in presenza di indizi particolarmente gravi, può essere sufficiente un loro numero ridotto per il raggiungimento della prova del fatto”.
Inappuntabile l’apparato logico-metodologico: resta da verificare se il giudice di legittimità ne abbia fatto “buon governo” nella vicenda applicativa. Come già anticipato non v’è nulla che colleghi, in via diretta, il nipote alla defunta zia; e né, a succedaneo, rilevano i conflittuali, se non addirittura del tutto “guastati”, rapporti pregressi fra l’anziana e lo S. (in ordine a cui quella, in un biglietto in primis indirizzato a se stessa, eloquentemente chiosava “non dire che mio nipote mi frega i soldi”) – se ciò bastasse, con il senno del “prima”, tutte le “fosse”, poi, sarebbero inevitabilmente “piene” … Siamo piuttosto, come quasi sempre accade, del resto, al cospetto di un accertamento reso in esclusiva lungo l’“assiale” della prova indiziaria. Fra i vari elementi posti a disposizione dei susseguitisi organi di jus dicere chiamati a dirimere l’impasse, oltre a taluni, ulteriori, “indici di sintomaticità”, è dato valorizzare una triade, qui “ordinata” dal minore al maggiore “grado” di attitudine persuasoria con riguardo alla colpevolezza dell’accusato: 1) “segni di impronte di scarpa da ginnastica numero 42 che dal soggiorno andavano verso l’uscio”; 2) “una mazza da baseball … ad un metro di distanza dal corpo della donna, sotto un termosifone …”; 3) una video-registrazione che documentava come lo S. “si avvicinava alle ore 20:00 del 29 aprile al portone di ingresso dello stabile dove abitava la A.” (la vittima del reato) “(con direzione perpendicolare al muro dello stabile) e … ‘ricompariva’ nel medesimo punto di osservazione alle ore 20:20) sempre in corrispondenza del portone e in direzione inversa)” – intervallo temporale, quello indicato, compatibile, stante le ricostruzioni ultimate, con il supposto orario dell’episodio omicidiario. Curiosamente, lo si soggiunge incidenter tantum, non è dato identificare materiale biologico “compromettente” sulla scena criminis.
Ora il primo indizio è “debole”, già prima facie: trattasi di un numero di calzatura non poco comune (pour parler, anche chi scrive lo indossa …) e, inoltre, ad esito del sequestro di un paio di scarpe appartenenti allo S., se ne riscontrava l’estraneità alla dinamica del crimine giacché esse, pur se di “taglia analoga”, si caratterizzavano per un “profilo di suola diverso rispetto alla traccia rinvenuta” (sic!) “sul luogo del delitto”. Il secondo ha indubbio maggior peso: al di là del fatto che, con buona plausibilità, quello strumento rappresenta l’arma impropria con cui è stato commesso il delitto, sul nastro adesivo che rivestiva l’impugnatura della mazza predetta è dato riscontrarsi una “impronta palmare” della mano sinistra dell’imputato – punto rilevando che costui fosse destrimane (complicato, giusta quel frangente, ipotizzare un “accostamento” con la mazza per mere ragioni “ludiche” od equivalenti). Ma il vero “piatto forte” è offerto dal terzo indizio in quanto, escusso con veemenza onde giustificare la sua presenza nei pressi dell’abitazione della zia in quella specifica fascia oraria, lo S. adduceva motivazioni inverosimili (nel dettaglio egli narrava di “essersi recato a casa della zia e, non avendo ricevuto risposta al citofono, di essersi recato prima a comprare dell’hashish, pagando con i 20 euro elargitigli dal padre, e poi di essersi appartato per circa un quarto d’ora con una prostituta, pagando con i 15 euro che solo in un secondo momento dice di aver sempre avuto nel portafoglio”). Inesplicabile, poi, il racconto alla luce dell’ulteriore considerazione che, nello spazio orario di cui sopra (più precisamente alle ore 20:14), un vicino di casa dell’A., preoccupato per urla ripetute ad origine nell’appartamento della defunta, telefonava alla badante di quest’ultima onde avere cognizione di quanto stesse ivi accadendo [telefonata che, fra l’altro, identifica l’unico dato non soggettivo ai fini della ricostruzione del fatto “il che conferisce … dovuta certezza alla collocazione temporale dell’aggressione nel range di presenza dello S. (secondo l’analisi delle videoriprese) nello stabile”].
Rebus sic stantibus, ed al postutto, è allora evidente che, con riguardo ai primi due scorci indizianti (la verifica sulla scarpa da ginnastica, above all), “si tratta di elementi che – senza il supporto ulteriore rappresentato dalla prova di un ingresso dello S. nello stabile in periodo comprendente il ‘trambusto’ nell’appartamento ascoltato dal teste K.” (il vicino di casa) – avrebbero una valenza dimostrativa meno intensa (e magari non decisiva)” (la sottolineatura è nostra), ma la necessaria valutazione congiunta ne esalta, al contrario, la rilevanza dimostrativa”. Il punctum dolens sta proprio in ciò che è stato evidenziato dacché … “non c’è ma che tenga”: nessun singolo “atomo”, se privo di “forza” dimostrativa, può, per così dire, sanarsi giusta la costellazione indiziaria che viene a seguire a determinarsi (poi, certo, vi sono gli ulteriori dati di riferimento, provvisti di minore o maggiore attitudine probatoria, ma ciò non toglie che la locuzione invalsa – ‘e magari non decisiva’ – fornisca adito, a nostro modo di vedere, ad incertezze evitabili. Non vorremmo, altrimenti detto, che questo “scivolone” liberasse un ormai remoto orientamento giurisprudenziale (cfr., a mero titolo esemplificativo, Cass. pen., Sez. III, 3 ottobre 1996, E.; Cass. pen., Sez. VI, 3 luglio 1996, A.; Cass. pen., sez. II, 20 settembre 1995, S.) a mente di cui, valorizzando un’esegesi peculiare del brocardo quae singula non probant simul unita probant, si avvalori l’impressione che, a fronte di una molteplicità di insufficienze persuasive, la loro sommatoria possa ciò nondimeno generare una certezza decisoria.
Un infortunio solo all’apparenza veniale (auspicabilmente qualificabile come obiter dictum) in un prodotto, per ogni altro verso, meritevole di considerazione.