Commento a Cass. pen., Sez. V, n. 40302/2022 e Cass. pen., Sez. III, n. 39087/2022
Le pronunzie “attenzionate” (rispettivamente Cass. pen., Sez. V, n. 40302/2022 e Cass. pen., Sez. III, n. 39087/2022 – d’ora innanzi, per convenzione linguistica, la prima verrà a qualificarsi come sentenza ‘screenshots’ e la seconda come sentenza ‘GoogleEarth’), al di là dei puncta juris oggetto dei ricorsi avanzati, sottendono, l’una implicitamente l’altra expressis verbis, alcune considerazioni di non breve momento riguardo la prova “per documenti” nel processo penale italiano, come disciplinata negli artt. 234 e ss. del codice di rito svelandone, a tratti, la vera, benché non sottoscrivibile, natura giusta l’intendimento dei pratici.
Rapidamente le vicende espressione degli interventi del giudice di legittimità. Nella sentenza ‘screenshots’ il ricorrente, condannato sia in primo grado che in seconde cure (benché, in questa istanza, ad una pena ridotta rispetto al prius), a fronte della commissione del reato di ‘Atti persecutori’ (cfr. art. 612-bis, co. 1 e 2, c.p.), si doleva, tra l’altro, del fatto che i giudici del merito avessero tenuto conto, onde affermarne la responsabilità penale, finanche degli screenshots (vocabolo, prescindendo dal letterale ‘immagine dello schermo’, approssimativamente traducibile con ‘fermoimmagine’) dei messaggi di cui al cellulare della vittima, estrapolati in violazione delle “linee-guida” declinate dalla l. 18 marzo 2008, n. 48, recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno”.
Riconducendosi ad un indirizzo ormai stabile, la Corte di Cassazione ha pur tuttavia buon gioco nel replicare che “l’estrazione di dati archiviati in un supporto informatico, quale è la memoria di un telefono, non costituisce accertamento tecnico irripetibile” “e ciò neppure dopo l’entrata in vigore della l. 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l’obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici recepiti a quelli originali, con la conseguenza che né la mancata adozione di tali modalità, né, a monte, la mancata interlocuzione delle parti al riguardo comportano l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti ferma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti. Dunque, solo in caso di mancato rispetto dei protocolli tecnici di comportamento, possono derivare effetti sull’attendibilità della prova in conseguenza dell’accertamento male eseguito”. Per inciso: nella sentenza ‘screeenshots’ non veniamo resi edotti su che cosa questi identifichino, probatoriamente discorrendo. Va nondimeno soggiunto, pur tuttavia, che, in precedenti “arresti”, il giudice di legittimità aveva manifestato ben altra decisione: cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 gennaio 2018, in cui, con fermezza, si assumeva che “
Con la sentenza ‘GoogleEarth’, invece, entriamo nell’“universo” delle misure cautelari reali. Nel dettaglio il ricorrente lamentava che il sequestro preventivo del secondo piano di un manufatto era avvenuto, fra l’altro, valorizzando le immagini ottenute stante il programma Google Earth Pro (applicativo decisamente migliore di Google Earth stante funzionalità aggiuntive quali prestazioni migliori, risoluzioni più nitide, possibilità di aggiungere poligoni e percorsi, capacità di importazione di fogli di calcolo e, soprattutto, il supporto tecnico di Google) che, ad una determinata data, non rilevava l’innalzamento abusivo dell’unità abitativa originaria laddove ciò veniva a constatarsi, sempre avvalendosi dell’identico “mappario”, in un frangente successivo – il che si biasimava, a prescindere dalle schermaglie sulle date di consumazione dell’illecito, comunque di interesse alla luce di un’eventuale declaratoria di estinzione del reato per avvenuta prescrizione, in virtù del fatto che quei rilevamenti non avrebbero potuto apprezzarsi quali “documenti idonei allo scopo” (id est, la responsabilità penale del C.) giacché “non paragonabili ai rilievi aerofotogrammetrici” (ovverosia la fotografia aerea intesa sub specie di attività tecnica utile al rilevamento delle caratteristiche del terreno, non facilmente percepibili al livello del suolo, per mezzo di fotogrammi scattati a distanza). Qui l’organo di nomofilachia replica, apertis verbis, che, invece, “i fotogrammi scaricati dal sito internet “Google Earth” costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili ai sensi dell’art. 234, co. 1, c.p.p. o 189 c.p.p., in quanto rappresentano fatti, persone o cose, essendo ben diversa, ovviamente, la questione relativa alla valutazione del loro contenuto e alla corrispondenza al vero di quanto in essi rappresentato, questione che, invero, non è stata esplicitamente eccepita in modo diretto dal ricorrente”.
Venendone, ora, che sembrerebbe chiaro il focus di cui alle nostre riflessioni: il perimetro entro cui circoscrivere l’utilizzo della prova documentale ex art. 234 e ss. c.p.p. [altrimenti detto se la disciplina predisposta in merito dal legislatore identifichi un mezzo di prova dai tratti identitari ben pre-costituiti (ed il ricorso ad un tale vocabolo non può certo ritenersi estemporaneo) o, piuttosto, una catch all clause “buona per tutte le stagioni”] tanto più valutando che altresì gli screenshots di cui al decisum del 25 ottobre u.s. parrebbero, senza eccessive incertezze, altresì alla luce dei leading cases summenzionati, riconducibili alla macro-classe nozionale dei documenti. A tale proposito non agevola la formula omnicomprensiva con cui il legislatore provvede a definire questi ultimi al, più volte evocato, art. 234, co. 1, c.p.p.: “è consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”. Da ciò deriva, quasi per necessaria implicazione, che ogni quid che mostra o che rappresenta, che ogni cosa che serve alla rappresentazione di un fatto et similia, che è, giustappunto, ‘rappresentativo’, può qualificarsi “documento” (non per nulla il codificatore del 1988 enfatizza la clausola aperta ‘con qualsiasi mezzo’).
Né facilita la verifica risalire all’etimo del termine: documentum rinvia a docere ovvero ‘insegnare’ (imprimere un segno), ‘dimostrare’ (dare per provato) – più propriamente ciò che serve a mandare ad effetto quelle funzioni – ma è evidente, già ad una prima lettura, come ciò attenga al valore probatorio da riconoscere a tale strumento piuttosto che alla “perimetrazione” del concetto sotteso. Al punto che sono state avanzate definizioni più sofisticate giusta cui, con ‘documento’, dovrebbe intendersi qualsivoglia rappresentazione di un contenuto probatorio “incorporato” in un supporto finalizzato a tale obiettivo (la cosiddetta base materiale) fino, in una prospettiva dinamica, a ricondurvi ogni ulteriore mezzo che il progresso tecnologico renderà capace di “incorporare” informazioni – ma, anche così, non è chi non veda come la teoria dell’incorporazione non faccia altro che spostare l’“asse di osservazione” di cui all’interprete non promuovendo, a contrario, metodiche di scioglimento dell’alternativa da cui si è preso le mosse.
Proprio l’opacità del substrato esplicativo, vieppiù destinata ad accrescersi alla luce dell’inesorabile progredire del medium info-telematico, ha indotto settori qualificati della dottrina a frapporre limiti alla sfera applicativa dell’art. 234 c.p.p. (soprattutto avendosi riguardo al cosiddetto ‘documento a contenuto dichiarativo’). Così, in primis, si è ritenuto inutilizzabile, od utilizzabile in esclusiva onde dimostrare il fatto materiale dell’avvenuta dichiarazione ma non la veridicità/falsità del suo contenuto, il documento a trama narrativa ovvero recante esternazioni di natura testimoniale. E ancora: si legittima una funzione unicamente surrogatoria della prova orale in capo a quello nel verso che il decisum potrebbe fondarsi su contenuti narrativi “pre-costituiti” solo nella misura in cui fosse impossibile (putacaso difettando x, y, z …, n ipotetici dichiaranti) ottenere analoghe conoscenze mediante l’escussione di qualificati loquentes. E, d’altra parte, finanche chi ravvisa la non necessità di simili “interferenze” non può esimersi dal rassegnare che, a parità di fonti di conoscenza, l’una orale l’altra scritta (rectius, non orale viste le poliedriche forme di manifestazione di tale supporto dimostrativo), il documento dovrebbe caratterizzarsi per una minore attitudine persuasoria rispetto alle ipotizzabili, e concomitanti, narrazioni orali (al postutto, e nondimeno, la quaestio parrebbe essersi ridimensionata a fronte di Corte cost. n. 142/1992, in cui il giudice di legittimità delle leggi, benché “solo” in una sentenza interpretativa di rigetto, mostra di condividere l’opinione più largheggiante giacché “[l’] art. 234 del codice di procedura penale, nel consentire l’acquisizione nel processo come prove documentali “di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo” identifica e definisce il documento … “in ragione della sua attitudine a rappresentare”. E ciò senza discriminare tra i diversi mezzi di rappresentazione e le differenti realtà “rappresentate” e, in particolare, senza operare una distinzione … tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni”). Comunque sia le esegesi de quibus, raffinate o meno che siano, riconducono tutte al peso probatorio da attribuire al documento e non al tratto identitario di esso.
Ma perché tutta questa effervescenza? In primis in quanto la prova “per documenti” mal si concilierebbe con i connotati distintivi – oralità; contraddittorio; immediatezza – a cui mostra di guardare il metodo di accertamento delle responsabilità di cui al codice di rito penale del 1988 (modello “tendenzialmente” accusatorio): e questa incompatibilità – il documento è, a bene vedere, un elemento spurio a fronte dei principi fondanti il nuovo sistema – si è ulteriormente aggravata a fronte della costituzionalizzazione di taluni fra questi stante il nuovo testo dell’art. 111 Cost. (riforma del, cosiddetto, “giusto processo”: vedi l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, recante, giustappunto, “Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione”); in secundis giacché al documento, tradizionalmente, è sempre stato consegnato un ruolo subalterno (“ancillare”, per meglio dire) rispetto a quello assunto dalla narrazione orale di cui integrerebbe, finanche oggi, una vera e propria sottoclasse [di detta ultima species, qualificabile come ‘testimonianza scritta’, vi è traccia diretta – già nella Rubrica dell’articolo – nel codice di rito civile: cfr. art. 257-bis c.p.c., come introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile”, giusta il cui testo “Il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il giudice, con il provvedimento di cui al primo comma, dispone che la parte che ha richiesto l’assunzione predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al testimone.
Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione.
Il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice.
Quando il testimone si avvale della facoltà d’astensione di cui all’articolo 249, ha l’obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione.
Quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all’articolo 255, primo comma.
Quando la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al secondo comma.
Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato”, ed un richiamo, benché solo indiretto, nel contesto processuale penale all’art. 499, co. 5, c.p.p., di modo che “[i]l testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto alla memoria, documenti da lui redatti” (le sottolineature sono nostre)]; in tertiis, quand’anche ciò non venga impostato per esplicito, forse per porre riparo all’esuberante deriva anti-formalistica della giurisprudenza sottoscrivendo la quale, in estrema sintesi, si dovrebbe proclamare che “tutto quanto è rappresentativo di un quid funge da documento”.
Del resto è proprio la “liquidità” della formula normativa ex art. 234 c.p.p. a fare da “detonatore” al riscontrato atteggiamento dei pratici. E la sentenza ‘GoogleEarth’ ne offre testimonianza a chiare lettere: “in tema di prove i fotogrammi scaricati dal sito internet “Google Earth” costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili ai sensi dell’articolo 234, co. 1, c.p.p. o 189 c.p.p. in quanto rappresentano fatti, persone o cose, essendo ben diversa, ovviamente, la questione relativa alla valutazione del loro contenuto e alla corrispondenza al vero di quanto in essi rappresentato, questione che, invero, non è stata esplicitamente eccepita in modo diretto dal ricorrente”. Di tal che, oltre al passepartout classico di recupero al compendo probatorio di un quid non legislativamente predeterminato (ovvero l’art. 189 c.p.p. dalla significativa Rubrica normativa “Prove non disciplinate dalla legge” del cui uso disinvolto e/o arbitrario fanno fede i repertori giurisprudenziali), sembrerebbe legittimarsene un altro id est l’art. 234, co. 1, c.p.p., in merito al cui eventuale uso non “smodato” è lecito avanzare dubbi pro futuro. Tanto più considerando l’ormai vieppiù ingovernabile smaterializzazione delle forme di comunicazione del pensiero (a prescindere dal fatto che si rappresentino “fenomeni”, persone o cose) – si mediti, tanto per esemplificare, sul cosiddetto “documento informatico” la cui definizione usualmente proposta (“rappresentazione di un fatto incorporata in una base materiale mediante il metodo digitale”) non è altro che il deferente omaggio ad impostazioni obsolete. Ne viene di modo che, a doloroso epilogo, la sottoscrizione di quanto impresso da acuta dottrina ossia che la macro-classe nozionale della prova “per documenti”, in una alla prova non disciplinata dalla legge, identifica un costante polo attrattivo per le tendenze anti-formalistiche supra denunziate: “tutto ciò che rappresenta e incorpora dentro di sé un’utile informazione, e funge dunque da antidoto alla “dispersione” di un sapere rilevante per il processo, rischia d’essere prima o poi ricondotto nell’orbita dell’art. 234”. E né tranquillizza ritenere quanto esposto una criticità de minimis (di cui non curarsi, altrimenti detto) giacché il deficit indicato verrebbe a bilanciarsi giusta le precauzioni addotte (recte, da adottarsi) in sede di utilizzo di tale supporto documentativo.
La chiarezza, more solito, dovrebbe muovere dai concetti: e qui il legislatore non definisce o, meglio, articola un quadro sfuggente ai canoni identificativi di quella operazione elementare di discorso (la definizione è l’operazione che enuncia, di x, tutte le caratteristiche necessarie e sufficienti y1, y2, y3, … yn o, ancora, la definizione è la proposizione che enuncia, del significante ‘x’, il significato ‘y’): tentativo, ad ogni buon conto, fallito stante i numerosi “esperimenti” di reductio ad unum dell’art. 234 c.p.p. operati e in dottrina e in giurisprudenza. Eppure non si intravede traccia di ripensamenti in merito neppure in orditi “epocali” – la cosiddetta riforma Cartabia: v. d. lgs. 10 ottobre 2022, la cui entrata in vigore è ora “congelata” fino al 30 dicembre p.v., stante l’art. 6 d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, recante “Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali”, in attesa di conversione – che pure tanto hanno investito nell’evoluzione tecnologica (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla digitalizzazione dei fascicoli processuali ex art. 111-ter c.p.p.). L’ennesima occasione perduta? Quién sabe.