DETERMINAZIONI INERENTI ALL’ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE
Chiuse le indagini preliminari dinnanzi al pubblico ministero si apre un bivio in ordine alle determinazioni inerenti all’agire/non agire; laddove intenda disporsi per il primo “corno” opterà per il rinvio di giudizio; qualora, a contrario, opti per il non esercizio dell’azione penale si orienterà per l’archiviazione
Dulcis in fundo, o in cauda venenum, l’art. 415-ter c.p.p. stante il quale si intendono prevedere sistemi di controllo sulla tempestività dell’azione penale, sistemi compendiabili nelle locuzioni ‘deposito coatto’ e ‘discovery forzosa’. Giusta il primo profilo “se il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata in segreteria. Alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volere essere informata della conclusione delle indagini è altresì immediatamente notificato avviso dell’avvenuto deposito e della facoltà di esaminarla ed estrarne copia. L’avviso contiene altresì l’indicazione della facoltà di cui al comma 3. Copia dell’avviso è comunicata al procuratore generale presso la corte di appello” (art. 415-ter, comma 1, del codice di rito penale). Se il procuratore generale non riceve quest’ultima, dal titolare del fascicolo, entro dieci giorni dalla scadenza del tempo di riflessione di cui supra, se non ritiene di dovere disporre a sé l’avocazione delle indagini, ordina, con decreto motivato, di provvedere alla notifica dell’avviso entro un termine non superiore a venti giorni (comma 2 dell’articolo da ultimo evidenziato) – nessun margine di discrezionalità in capo al procuratore distrettuale, come è dato notare, ma del pari nessun termine, è bene ribadirlo, è presidiato con una sanzione nell’evenienza di sua inosservanza. La discovery forzosa, a sua volta, è normata stante il “macchinoso” comma 3 aprendosi, quindi, a garanzia delle parti interessate, una vera e propria finestra di giurisdizione. In estrema sintesi: 1) decorso un mese (tre mesi nel caso di reati particolarmente gravi) dalla notifica dell’avviso di deposito o, laddove tale “onere” non sia stato mandato ad effetto, dal decreto di cui al procuratore generale, se il pubblico ministero non si è determinato circa l’esercizio, o meno, dell’azione penale, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al GIP di ordinare di provvedere in merito; 2) il giudice decide nei venti giorni successivi nel caso di accoglimento giustappunto ordinando al pubblico ministero di determinarsi entro i venti giorni ancora successivi (nel rispetto degli ulteriori adempimenti de quibus). Ad parandum, ciononostante, onde evitare deposito coatto e discovery forzosa, laddove ne ricorrano i presupposti, il titolare dell’azione penale può chiedere il differimento della notifica dell’avviso (a condizione, ça va sans dire, che non si sia già “espresso” in quel verso a mente dell’art. 415, comma 5-bis, c.p.p.).
A disposizione di chiusura, infine, l’art. 412 c.p.p., come modificato dalla riforma, stante il quale il procuratore generale presso la corte di appello può disporre (trattasi indefettibilmente di una avocazione facoltativa, laonde per cui), con decreto motivato, “l’avocazione delle indagini preliminari, se il pubblico ministero non ha disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, oppure non ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407-bis, comma 2, 415-bis, comma 5-ter, 415-ter, comma 3”; idem dicasi alla luce delle comunicazioni di cui agli artt. 409, comma 3, e 415-bis, comma 5-quater, c.p.p. A seguire, poi, il procuratore generale, ad esito delle indagini effettuate, formula le sue richieste entro trenta giorni dal decreto di archiviazione (come ciò possa accadere, alla luce dei tempi dilatati di cui all’originario titolare dell’“incartamento” e degli usuali modi operandi di cui alla procura generale rimane un quid insondabile). Al postutto vi è da rimanere “abbacinati” da un meccanismo cotanto artificioso tanto più una volta osservato come le finestre di giurisdizione (finanche se aperte su richiesta di parte) e le soluzioni avocative non hanno, rebus sic stantibus, offerto buona prova di sé. Le “quarantene” denunziate (i famigerati ‘tempi morti’, altrimenti detto), piaccia o non piaccia, possono trovare rimedio, a nostro modo di vedere, solo laddove il riformatore si orientasse per un opportuno modulo sanzionatorio da azionare al loro verificarsi: ma ciò non descrive un’opzione che si intende coltivare, almeno nel breve periodo.
CONTROLLI SULLE DETERMINAZIONI INERENTI ALL’ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE
Come già suggerito en passant le determinazioni dell’organo requirente non possono che essere sindacate: qualora infatti il pubblico ministero si disponesse per l’archiviazione ciò potrebbe rivelarsi improvvido e/o affrettato mentre, a contraltare, se “virasse” per l’esercizio dell’azione penale ciò potrebbe rappresentare un azzardo eccessivo (un processo disutile ed una sofferenza ultra necessitate per i suoi partecipanti). L’autoreferenzialità, consequenzialmente, è da bandire di tal che in esclusiva un controllo giurisdizionale (non certo la “via gerarchica” dei procuratori generali) può fungere da contro-limite al riguardo. Venendone allora che, a focus della nostra indagine, sta individuare il criterio discretivo, regola di condotta per il pubblico ministero e regola di giudizio per GIP e per GUP, giusta cui optare fra azione ed inazione. Sul punto viene ad evidenziarsi una delle più dirompenti novità di cui al d.lgs. 150/2022 ovvero l’abbandono del previo canone di cui all’inidoneità probatoria (“il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio” ex, ora abrogato, art. 125 n. att. c.p.p. – formula poi resa operativa altresì onde emanare la sentenza di non luogo a procedere giusta le integrazioni apportate, all’art. 425, comma 3, c.p.p., dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479) e la sua sostituzione con la, altamente, problematica clausola della ‘ragionevole previsione di condanna’ (ciò, oltre a valere per la richiesta di archiviazione – “Quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione”: così l’art. 408, comma 1, primo periodo, c.p.p. – e per accedere alla sentenza di non luogo a procedere – “Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”: cfr. art. 425, comma 3, c.p.p. – ha conseguenze finanche avuto riguardo ad una delle più inedite novità di cui alla riforma ovvero ad esito dell’udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta a giudizio nel procedimento dinnanzi al tribunale in composizione monocratica – difatti, a mente dell’art. 554-ter, comma 1, secondo periodo, anche qui il giudice “pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”). Al di là del fatto che detta clausola opererebbe in contesti differenziati (il provvedimento di archiviazione e la sentenza di non luogo espressa dal GUP intervengono a “margine” di fasi che possono essere suscettibili di supplementi di indagine o, rispettivamente, di integrazione probatoria mentre lo stesso non è dato predicare per l’udienza predibattimentale di cui ad ultimo) si fa prima a dire che cosa il novum non è che a declinarne, affermativamente, le coordinate. Di certo essa traccia una soluzione di continuo se parametrata alla regola di cui all’abrogato art. 125 n. att. c.p.p. (una cosa è l’inidoneità probatoria/insostenibilità dell’accusa in giudizio un’altra, e ben diversa, la prevedibilità, qualificata o meno che sia, di una condanna) non fosse altro perché, in temporibus, si andava a processo laddove quest’ultimo si dimostrasse utile mentre, quest’oggi, si dovrebbe accedervi una volta verificatane la necessarietà; ma, del pari, essa non è in toto sovrapponibile, come invece si sente conferire, alla vecchia formula di cui all’art. 115 n. att. prog. prel. c.p.p. stante la quale “il pubblico ministero presenta[va] al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene che gli elementi di prova acquisiti nelle indagini non sarebbero sufficienti al fine della condanna dell’imputato” (il che, sia detto per inciso, avrebbe sine dubio traghettato il “centro” del processo alle fasi preliminari). Ciò era evincibile, quantunque sottotraccia, leggendo la Relazione finale elaborata dalla cosiddetta ‘Commissione Lattanzi’ – dalle generalità del suo Presidente -, incaricata di avanzare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello: “Con particolare riguardo al parametro per le determinazioni sull’esercizio dell’azione penale, la Commissione ritiene che, alla luce dell’evoluzione della fase preliminare, vada superato il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale; a seguito di indagini che – in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale – devono risultare tendenzialmente complete (e possono avere una durata significativa), il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino –sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali da poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento. Al contrario, laddove il quadro cognitivo si connoti per la mancanza di elementi capaci di sorreggere una pronuncia di condanna, il pubblico ministero dovrà optare per l’inazione. In tal modo viene valorizzata l’istanza di efficienza processuale propria dell’istituto dell’archiviazione, senza intaccare il canone di obbligatorietà dell’azione penale, che viene tutelato, per un verso, dal controllo del giudice sulla completezza delle indagini e, per l’altro, dalla possibilità di una loro riapertura”. Il ricorso al “mirabile” ossimoro ‘diagnosi prognostica’ emblematizza plasticamente l’impossibilità di accedere ad una nozione condivisa laddove, a corollario, evocare la regola BARD (beyond any and all reasonable doubt) dovrebbe fare suonare qualche campanello d’allarme.
Trattasi della vexata quaestio del filtro avverso le imputazioni azzardate rimesso all’udienza preliminare, emergenza ciclicamente tentata di risolvere con seriali modifiche normative ma, ad oggi, non “bonificata” al punto che settori qualificati della dottrina ne hanno finanche caldeggiato l’abrogazione. Nell’impianto originario del codice la formula sottoscritta condizionava l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere a quando risultasse evidente “che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non imputabile o non punibile per qualsiasi altra causa”. Il sunnominato requisito dell’evidente infondatezza del fatto consentiva di prosciogliere l’imputato solo in presenza della prova della totale innocenza cui veniva equiparata l’ipotesi in cui mancasse del tutto la prova della colpevolezza venendone che la specifica disposizione de qua rendeva il ruolo dell’udienza preliminare in buona sostanza azzerato mostrandosi non poco rarefatte le evenienze in cui, già in quel contesto, si appalesasse la non colpevolezza dell’imputato. Maglie assai slabbrate, di tal che, e filtro in pratica inesistente. Additato a principale responsabile dell’impasse il qualificativo ‘evidente’ è stato poi espunto dal testo dell’art. 425, comma 1, c.p.p. l. 8 aprile 1993, n. 105, recante, giustappunto, “Modifica all’articolo 425 del codice di procedura penale, in materia di sentenza di non luogo a procedere”: ma anche qui le speranze si sono rivelate vane giacché, nonostante le interpretazioni correttive di cui al giudice di legittimità, il nuovo testo dell’articolo da ultimo censito non si occupava, apertis verbis, delle situazioni di insufficienza e/o di contraddittorietà degli elementi raccolti. Paradossalmente, e addirittura, il medesimo procedimento poteva venire archiviato dal giudice per le indagini preliminari anche per insufficienza probatoria (inidoneità della “provvista” confezionata al riguardo) circa la colpevolezza dell’indagato (cfr. art. 125 n. att. c.p.p.), ma, in caso di esercizio dell’azione penale ad opera del pubblico ministero, esso doveva proseguire in dibattimento a causa della rigidità dello standard di giudizio, quand’anche mutato, dell’udienza preliminare. Nihil sub sole novum, quindi, altresì a seguito di questa interpolazione: le maglie del filtro restavano eccessivamente “lasche”, laonde per cui. Fu infine la già menzionata l. n. 479/1999, a provvedere a dissipare i lamentati deficit assumendo, nel testo in vigore prima della riforma, che “Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (art. 425, comma 3, c.p.p., pre 31 dicembre 2022). Per l’effetto la modifica più rilevante ha riguardato la regola di giudizio alla stregua della quale il giudice dell’udienza preliminare deve valutare la posizione processuale dell’imputato. In particolare, a mente del succitato art. 425, 3° comma, c.p.p., il concetto di “insufficienza” si riferisce ad una lacuna quantitativa del quadro probatorio addotto dal pubblico ministero a sostegno dell’accusa; il concetto di “contraddittorietà” si riferisce al contrasto interno al compendio probatorio tra elementi di prova raccolti; infine, il concetto di “inidoneità”, poiché preceduta dall’avverbio “comunque”, ricomprende la due ipotesi che la precedono, oltre a tutti gli altri casi in cui il quadro probatorio risultante in udienza preliminare, ancorché sufficiente e non contraddittorio, non risulti adeguato a sostenere l’accusa in giudizio per motivi diversi. Giusta tale modifica si ratifica, normativamente parlando, il doloroso equivoco che orienta l’udienza preliminare verso uno stato di “eterna” inattitudine a filtrare l’azzardo qualificando il vaglio ivi compiuto come vero e proprio accertamento di, e sul, merito dell’imputazione e non, come invece dovrebbe essere, di natura prettamente processuale (ovvero finalizzato a stabilire se si debba, o meno, andare a giudizio). Certo ciò equivale a certificare l’ovvio: è self-evident che l’udienza preliminare sia, ormai, il “cuore pulsante” del processo [ve ne sono molteplici tracce – solo a livello grafico-espressivo si mediti sulla disciplina del procedimento in absentia (su cui v. infra), descritta in ogni più remoto profilo agli artt. 420-bis – 420-sexies c.p.p. e, solo per rinvio, applicabile in sede di giudizi, ordinari od alternativi che siano, ex art. 484, comma 2-bis, c.p.p.) ma questo non risponde affatto agli intendimenti dei conditores del 1988. Nondimeno siffatta “mutazione genetica” trova prestigioso riscontro nel giudice costituzionale: “i contenuti delle decisioni che concludono l’udienza preliminare hanno assunto […] una diversa e maggiore pregnanza. Il giudice infatti non è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, ovvero se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, tenendo conto, se del caso, delle circostanze attenuanti e applicando l’art. 69 del codice penale (art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen.). Il giudice deve considerare inoltre se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, se no, a disporre il non luogo a procedere; se sì, a disporre il giudizio. Il nuovo art. 425 del codice, in questo modo, chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale” (così Corte cost., sent. 8 – 12 luglio 2002, n. 335). La nuova regola – la ragionevole previsione di condanna’ -, di condotta per il pubblico ministero e di giudizio per i giudici preliminari, “costringe” il giudice ad una valutazione molto più approfondita sugli elementi acquisiti per verificare poi se questi siano idonei, se confermati in dibattimento – e quindi in una prospettiva prognostica -, a provare la colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio e non più solo a sostenere l’accusa in giudizio. In caso di compendi probatori dubbi il giudice dovrà ponderare in maniera significativamente attenta la propria decisione. Elementi di prova incerti non possono fare ritenere raggiungibile la prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio ma non è detto che l’istruttoria dibattimentale non riesca a fare luce sui punti d’ombra. Sarà … ma ribadiamo, con fermezza, che lo “spettro” del BARD genera inquietudine (finanche perché autorevolmente sottoscritto: così il Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sul d.d.l. A.C. 2435, delibera del 29 luglio 2021, secondo cui “rispetto alla più generica formula della “ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio” usata originariamente dal legislatore del D.d.l., il criterio della “ragionevole previsione di condanna” sembra assimilare la soglia probatoria cui il pubblico ministero deve improntare la propria valutazione prognostica a quella del giudice che può pronunciare una sentenza di condanna solo se l’imputato risulti colpevole del reato contestatogli “oltre ogni ragionevole dubbio” (art. 533, co. 1, c.p.p.)”. Al di là di tutto, in quei contesti, l’indagato/imputato non ha ancora compiutamente sviluppato la propria linea difensiva ma, et ante omnia, egli verrebbe ad essere “depositario” di un pre-giudizio, e in senso etimologico ed in senso tecnico-giuridico, anticipatore della successiva, ed inesorabile, condanna. Ed inoltre, ammesso e non concesso, che quanto precede abbia un senso corre ancora l’obbligo di indicare il quid proprium della ‘condanna probabile’ una volta osservato che essa non traduce, in linguaggio “moderno”, la regula juris di cui all’art. 115 n. att. prog. prel. c.p.p. e che il novellatore del 2022 non gratifica l’interprete di nessuna “bussola orientativa” al proposito. La prevedibilità si basa usualmente sullo studio delle serie storiche giusta cui ciò che è successo in passato potrebbe ripetersi in futuro. A tale obiettivo possono essere usati il modello induttivo o quello deduttivo. Il primo si basa principalmente sui precedenti giurisprudenziali: ad esempio se 10 sentenze su 100 dicono che, se x allora si applica y, in futuro si manifesterà il 10% di possibilità che il giudice, nel caso x, applicherà y. Tuttavia il modello induttivo non può essere valorizzato per una serie di ragioni. La prima attiene al fatto che il giudice chiamato ad operare in un sistema di civil law non è obbligato a conformarsi al precedente giurisprudenziale; in secondo luogo tale modello può essere utilizzato solo per questioni su cui siano presenti un numero considerevole di precedenti ma, anche se così fosse, nulla vieta che i precedenti rappresentino errori ed un errore, ancorché ripetuto più volte, rimane sempre tale; infine una sentenza non si fonda sul numero dei precedenti a favore dell’una o dell’altra ipotesi di partenza bensì sulla qualità dei percorsi logico-giuridici adottati. Il modello deduttivo, di contro, si basa principalmente sull’applicazione della legge ed è quindi più conforme al sistema processuale italiano secondo cui il giudice è soggetto in esclusiva alla legge medesima (art. 101, co. 2, Cost.). Si farà riferimento quindi alle regole dettate dagli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale (le cosiddette preleggi). In buona sostanza lo standard da applicare riconduce alla cosiddetta probabilità cruciale, ossia il criterio del “più probabile che non” secondo la formula P(c) > 50% (probabilità P di condanna C maggiore del 50%). Il giudice deve prevedere, ossia effettuare una prognosi, sul canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio (e non accertare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio); la prognosi relativa al principio BARD deve tradursi in uno standard superiore al 50% rispetto all’ipotesi contrastante giacché una previsione de qua non può non essere superiore al 50%. Di riflesso previsioni che si collochino al di sotto di tale soglia dovranno “esitare” in una pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere o, prima ancora, nell’archiviazione del procedimento.
A compendio finale, e provocatoriamente, è poi ancora tutto da dimostrare che la cura somministrata trasformi l’udienza preliminare da malato cronico, reale od immaginario che sia, in convalescente. È pur sempre la sentenza di non luogo a procedere, altrimenti dal decreto che dispone il giudizio, a necessitare di una parte motiva: chi assicura, ordunque, che, a fronte di un caso dubbio, il GUP non opti ugualmente per il rinvio a giudizio stante il minore impegno richiesto per “confezionarlo” (argomentare è, di sé, di maggiore complessità rispetto all’enunziare)? “Tutto cambia perché nulla cambi” come, in quel maestoso affresco che descrive la transizione dalla società borbonica all’Italia unita che è il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si attribuisce a Tancredi, nipote del principe di Salina (in realtà egli dice ben altro: “se vogliamo che rimanga tutto com’è bisogna che tutto cambi”), Frase illuminante, quella tra parentesi tonde: se tutto cambia solo esteriormente tutto rimane com’è; se tutto rimane com’è tutto può cambiare interiormente. Non è sufficiente, allora, un mero succedersi di paradigmi (dalla sostenibilità dell’accusa in giudizio alla ragionevole previsione di condanna): è necessario, in luogo, un diverso atteggiamento, culturale prima ancora che giuridico, acciocché perlomeno ‘qualcosa’ cambi. Saranno solo i pratici ad illuminarci in merito finanche se il novum orienta, prima facie, verso un pre-giudizio di merito.