Commento a Cass., Sez. V Penale, 4 ottobre 2022, n. 37459
Con la sentenza che ci occupa, ad esito di una verifica complessa e non sempre limpida giusta il profilo della trasparenza comunicativa, in parte dichiarando inammissibili i ricorsi (nello specifico quello del G.) in parte rigettandone i contenuti (in ordine ai co-imputati, tutti appartenenti alle Forze dell’Ordine), il giudice di legittimità riteneva, per quel di interesse, confermata la responsabilità degli instanti per il delitto di cui all’art. 615-ter c.p. (Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico).
Molteplici le doglianze proposte, articolate in otto motivi di ricorso da parte del G., in cinque, in sei ed in tre motivi di ricorso, rispettivamente, ad opera dei tre co-protagonisti di detta aggrovigliata vicenda. Di peculiare interesse, stante l’“occhiale” del processualpenalista, si rivela il motivo comune avanzato dai co-imputati, non solo e non tanto perché esso impegna i giudici di Cassazione per la maggior parte del Ritenuto in diritto, bensì soprattutto perché esso consente, all’organo di nomofilachia, di ripercorrere i tratti disciplinari dell’istituto di cui al titolo di questo contributo giungendo ad epilogo ad impostare ulteriori caveat a fronte di una problematica actio finium regundorum. Nel dettaglio, laonde per cui, si deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al testo dell’art. 603, co. 3-bis, c.p.p., giusta il quale, “
Nondimeno, prima di indagare i percorsi motivazionali che hanno consigliato gli Ermellini alle precisazioni di cui alla sentenza G., giova riflettere sugli antecedenti che hanno determinato l’innesto nel corpo dell’art. 603 c.p.p. dell’alinea da ultimo fatto presente (l’avverbio numerale bis è per vero indice di un’interpolazione successiva all’entrata in vigore del codice di rito penale del 1988/1989, dovuta alla L. 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, la cosiddetta ‘riforma Orlando’, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia) – nel mentre cautelando il lettore che si tratterà di una verifica ostica stante l’intreccio affannato di pronunzie giurisprudenziali e di aggiustamenti normativi non sempre meditatamente governati nel loro succedersi.
Tutto muove, more solito verrebbe da soggiungere, da un ormai risalente “arresto” del giudice dei diritti umani – D. v. Moldova (n. 1), terza Sezione Corte EDU, 5 luglio 2011 – in cui si ingiungeva, alla Repubblica ex-sovietica de qua, laddove si mirasse a condannare e, di riflesso, ad applicare una pena in grado di appello, con ciò dichiarando l’overturning dell’assoluzione resa in prime cure, di mandare ad effetto l’enunciato di cui all’art. 6 §1 CEDU (Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali) giusta il tenore del quale “[i]n the determination of … any criminal charge against him, everyone is entitled to a fair … hearing … by an independent and impartial tribunal established by law.” E ciò in quanto, nel così orientarsi, la Corte di appello non può, se si vuole che il canone del “giusto processo” non resti lettera morta, esaminare la vicenda sottoposta al suo giudizio a prescindere da un vaglio diretto dei testi di accusa: “coloro a cui si assegna la responsabilità di decidere della (e sulla) colpevolezza/innocenza di un accusato dovrebbero, in linea di principio, essere posti in grado di sentire i testimoni onde attestarne la “fededegnità” tanto più considerando che ciò identifica un ‘onere’ complesso che non può essere soddisfatto dalla mera lettura di quanto detto in primo grado e, poi, raccolto a verbale”. Sono parole ormai “scolpite a lettere d’oro” in ogni Manuale di Diritto Processuale Penale nonché ribadite in numerose ulteriori pronunzie dalla Corte EDU (con riguardo allo Stato italiano, ad esempio, cfr. L. v. Italy, prima Sezione Corte EDU, 29 giugno 2017 – non inganni la data del decisum, sì posteriore all’entrata in campo della riforma Orlando ma ad oggetto una vicenda radicatasi ben prima di quell’innesto normativo).
Rebus sic stantibus ci si sarebbe dunque atteso un, se non fulmineo, quantomeno prossimo restyling ad opera del legislatore. L’usuale inerzia al proposito manifestata da quest’ultimo determinava l’“investitura supplente” del comparto giurisprudenziale che, nella sua massima espressione (Cass. Sezioni Unite, 5 ottobre 2016, D.), enucleava le linee-guida per la rinnovazione dell’istruttoria in appello: “a) il valore di parametri esegetici da riconoscere ai precetti della Convenzione europea dei diritti umani, come interpretati dalla Corte di Strasburgo; b) l’obbligo del giudice d’appello, per ribaltare il proscioglimento in condanna, di rinnovare, anche d’ufficio, l’esame delle fonti di prova dichiarative ritenute decisive in primo grado; c) la configurazione della prima condanna in appello, in assenza di rinnovazione istruttoria, quale vizio di motivazione censurabile di fronte alla Corte di legittimità, in ragione del mancato rispetto del canone decisorio del superamento di ogni dubbio ragionevole, indipendentemente dal richiamo alla violazione della Convenzione europea” [in questo punto le Sezioni Unite sembrando discostarsi dall’insegnamento D. giacché, valorizzando il profilo del “superamento di ogni dubbio ragionevole” (v. art. 533, co. 1, c.p.p.), paiono volgersi a tutelare la presunzione di innocenza ex art. 6 §2 CEDU – per il nostro assetto cfr. la formula, non del tutto equivalente, di cui all’art. 27, co. 2, Cost. – in luogo del richiamo al fair trial ex art. 6 §1, da leggersi in combinato disposto con l’art. 6 §3, lett. d), emblema del diffusamente riconosciuto right to confrontation – di modo che il contraddittorio per la prova, da indeclinabile principio ispiratore dell’ordinamento, verrebbe depotenziato a metodo di formazione di quella]. Comunque sia detto indirizzo appare ribadito, a “stretto giro di posta”, da un ulteriore intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sezioni Unite, 19 gennaio 2017, P.), in relazione ad un appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento emessa ad esito di giudizio abbreviato.
È ormai tempo che si intervenga; ed il legislatore ciò fa, quasi “fuori tempo massimo” verrebbe impietosamente da chiosare, stante la L. 103/2017 summenzionata (in un “gioco pendolare invertito” stante cui la legge generale ed astratta “segue” il concreto ordito giurisprudenziale e non come usualmente accade, rectius dovrebbe accadere, viceversa). Di tal che il giudice ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale qualora il pubblico ministero appelli una sentenza di proscioglimento “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” (ecco uno dei nodi esegetici da “sciogliere”). In un equilibrio ritrovato, a seguito dell’interpolazione di cui al co. 3-bis dell’art. 603 c.p.p., l’incessante opera dei pratici ha contribuito a ri-stipulare il tratto definitorio del novum di riferimento sia giusta l’angolo visuale soggettivo che giusta l’angolo visuale oggettivo.
Dal primo versante, allora, si è sottolineata la necessità della rinnovazione istruttoria finanche laddove si voglia ri-esaminare, in seconde cure, o un perito e/o un consulente tecnico a patto che costoro siano già stati ascoltati in primo grado e che il loro “sapere esperto” sia ritenuto ‘decisivo’ onde riformare la sentenza impugnata nel verso di cui alla norma codicistica (Cass. Sezioni Unite, 28 gennaio 2019); non vale la “conversa”, invece, nel senso che non grava nessun obbligo, sul giudice di appello, di rinnovare la “provvista” probatoria allorquando, a seguito di una condanna, si intenda optare per l’assoluzione (Cass. Sezioni Unite, 21 dicembre 2017, P.G. in c. T.). Difatti, mentre la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non traduce, in formula decisoria, la certezza dell’innocenza bensì solo il dubbio sulla medesima (scil.: colpevolezza) (cfr. art. 530, co. 2, c.p.p.) venendone, di riflesso, che “l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l’assoluzione” (dal che è dato evincere, qualora ancora ve ne fosse urgenza di conferma, che le autentiche rationes decidendi a fondamento di tale manipolo giurisprudenziale stanno nella tutela della presunzione di innocenza e non nel pieno esplicarsi del right to confrontation). Comunque sia “il giudice di appello … è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado”. Quanto da ultimo precede, pur tuttavia, non esonera l’organo di secondo grado dal disporre la rinnovazione de qua: semplicemente ciò non rappresenterà una necessità bensì una opportunità da “coltivare” a mente del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 603 c.p.p. laddove il giudice così decida di motivarsi.
Sempre eleggendo a focus il così qualificato momento oggettivo, la riflessione di cui alla suprema Corte di legittimità ha delimitato la necessità della rinnovazione istruttoria facendo cenno alle sole ‘prove decisive’ ovvero a quelle prove atte a “scardinare” l’esito conclamato di cui al giudizio di primo grado (nell’evenienza di specie la pronunzia assolutoria) – altrimenti detto, per così dire, ‘prove determinanti’ che sotto-ordinano un nuovo epilogo decisorio. Nella trama così abbozzata si insinua prepotentemente l’“arresto” del giugno 2022 qui oggetto di commento puntualizzando una volta di più il significato da assegnare a quanto supra virgolettato in corsivo (“per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”). Invero, “l’espressione utilizzata dal legislatore nella nuova disposizione di cui al comma 3 bis, secondo cui il giudice deve procedere, nell’ipotesi considerata, alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, non equivale … alla introduzione di un obbligo di rinnovazione integrale dell’attività istruttoria – che risulterebbe palesemente in contrasto con l’esigenza di evitare un’automatica ed irragionevole dilatazione dei tempi processuali – ma semplicemente alla previsione di una nuova, mirata,” (la sottolineatura è nostra) “assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice d’appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilità …”. Quindi è d’uopo ritenere che il giudice di appello “sia obbligato ad assumere nuovamente non tutte le prove dichiarative, ma solo quelle che, secondo le ragioni puntualmente e specificamente prospettate nell’atto di impugnazione del pubblico ministero, siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e vengano considerate decisive ai fini dello scioglimento dell’alternativa “proscioglimento-condanna” (i corsivi sono nostri) – in altri termini non v’è obbligo veruno di disporre una rinnovazione generale ed incontrollata quest’ultima dovendosi concentrare in esclusiva sulla/e fonte/i le cui esternazioni siano oggetto di specifica doglianza ad opera del pubblico ministero. A tale rilevante barriera conoscitiva – ed ecco dove sta la “specifica” G. – “si associa quella … che limita l’obbligo di rinnovazione ai casi in cui si invochi la rivalutazione della attendibilità intrinseca delle testimonianze decisive, senza estenderlo alle prove dichiarative i cui contenuti sono incontestati, sebbene l’appellante chieda una diversa valutazione dei dati di contesto”. Con il che “non sussiste l’obbligo di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa per la riforma in appello dell’assoluzione, quando l’attendibilità della deposizione è valutata in maniera del tutto identica dal giudice di appello, il quale si limita a procedere ad un diverso apprezzamento del complessivo compendio probatorio ovvero ad una diversa interpretazione della fattispecie incriminatrice”.
Nella vicenda che ci occupa è avvenuto proprio ciò: a fronte della incontestabilità della “fededegnità” delle prove testimoniali, sia in primo grado che in appello, l’esercente la domanda di giustizia invocava, nel suo atto di gravame, una diversa interpretazione del tenore delle intercettazioni telefoniche e del combinarsi di esse con ulteriori dati di natura oggettiva avuto riguardo ai rapporti intrattenuti fra G. ed i co-imputati appartenenti alle Forze dell’Ordine. Nel dettaglio si controverteva della (e sulla) responsabilità, ex art. 615-ter c.p., dei tre operativi della Polizia di Stato, negata in primo grado per difetto dell’elemento soggettivo e, invece, affermata in seconde cure, per avere costoro acceduto contra legem alla banca dati S.D.I. (Sistema di Indagine istituito presso il C.E.D. del Ministero dell’Interno) onde verificare la fondatezza di una richiesta proveniente dal G. – costui, messo sul “chi va là” dalla presenza sospetta di una autovettura parcheggiata nelle vicinanze del suo deposito di carburanti, per vero insistentemente domandava di accertarne la disponibilità nel timore che si trattasse di un’auto-civetta in dotazione alla Polizia di Stato ivi collocata onde indagare su sue diffuse attività illecite (l’imprenditore mistificava la realtà “adulterando” i fatti suggerendo che la sua richiesta, comunque “fuori luogo”, fosse invece motivata dall’imminenza di un atto criminoso – in concreto, una rapina – presso il suo sito commerciale). Ebbene: posto che l’accesso allo S.D.I. può avvenire in esclusiva a fronte “della necessità di soddisfare esigenze di ordine pubblico o di sicurezza pubblica ovvero di prevenzione e repressione della criminalità”, e ciò nella vicenda di specie non era punto accaduto, la prova dell’elemento soggettivo del reato, nondimeno, “può desumersi dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intelletiva e volitiva del soggetto, in modo da evidenziarne la cosciente volontà e rappresentazione degli elementi oggettivi del reato”. “Poziore” all’obiettivo di tale dimostrazione si rivelava, pur tuttavia, il flusso delle comunicazioni intercorrenti fra i “sospettati” come oggetto di summenzionata intercettazione: “vero è che la corte territoriale ha valorizzato anche il contenuto delle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio di garanzia dagli imputati, ritenendole maggiormente attendibili rispetto a quelle rese in dibattimento, con cui il D., il C. ed il M.” (i tre co-imputati a cui, a più riprese, si è fatto velato accenno) “avevano ritrattato quanto dichiarato nella fase delle indagini preliminari”; ma, “nonostante la valutazione della corte territoriale in questo caso attenga alla attendibilità di prove dichiarative, non si è in presenza di una violazione del principio fissato dall’art. 603 co. 3 bis, c.p.p., perché non si tratta di prove decisive, in quanto tali dichiarazioni attengono a profili (l’accesso allo S.D.I. da parte degli imputati; i loro contatti con il G.) già ampiamente dimostrati anche senza il contributo conoscitivo da tali prove fornite”. Espresso in altri termini il vaglio in chiave unitaria della costellazione indiziaria rimessa alla “provvista” dell’organo di jus dicere testimoniava di un ruolo tutto sommato marginale da riconoscersi alle previe prove dichiarative dal che il loro qualificarsi come ‘non decisive’ ai fini dell’accertamento di responsabilità.
Tout c’est bien, sembrerebbe, ma una conferma ed un distinguo necessitano di imporsi. Al di là dell’esito conclamato – ribadiamo: la ‘non decisività delle esternazioni dei tre poliziotti da cui l’inapplicabilità dell’art. 603, co. 3-ter c.p.p. – la sentenza G. merita apprezzamento per l’incisività della verifica effettuata. Alla luce di ciò appare pur tuttavia singolare che l’organo di nomofilachia non abbia enfatizzato, nel “pacchetto” di decisioni segnalate a corredo del proprio modus procedendi, un recente “arresto” della Corte EDU che ben autorevolmente ne avrebbe supportato il metodo. La vicenda è curiosa giacché, in un moto circolare inatteso, essa riconduce al signor D. il quale, con il suo ricorso al giudice dei diritti umani, aveva innestato la riflessione che ci sta occupando. Egli, preside di scuola media superiore, assolto in primo grado dall’accusa di avere ricevuto una tangente finalizzata all’immatricolazione facilitata di un ragazzo in quel plesso scolastico, veniva condannato in secondo grado, ad esito di una sola udienza, a prescindere dal riesame dei testimoni di accusa (un mero processo “sulle carte”, altrimenti detto). “Forte” del judgment con cui la Corte di Strasburgo condannava lo Stato moldavo per violazione dell’art. 6 §1, il D. chiedeva la riapertura del processo ad epilogo del quale, nondimeno, veniva una volta di più ritenuto responsabile dell’addebito. La vicenda ha un sequel, laonde per cui – giustappunto, D. v. Moldova (n. 2), seconda Sezione Corte EDU, 10 novembre 2020 -, ancora una volta ad esito non “gradito” dallo Stato convenuto nuovamente condannato per inosservanza del dettato convenzionale testé menzionato. Quasi agendo impropriamente da giudice di “quarta istanza” l’organo di jus dicere di specie – ma ciò, qui, non rileva – effettua una verifica dettagliatissima sull’operato dei giudici nazionali censurandone la superficialità giacché non avevano posto in essere tutte le “misure positive necessarie” onde assicurare la presenza dei dichiaranti in giudizio volgendo, in luogo, alla mera lettura del pre-formato. Da ciò due corollari significativi: 1) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello non è un vuoto esercizio di stile, una mockery of justice, di tal che le seconde cure identificano un processo a tutti gli effetti, caratterizzato da oralità ed immediatezza nell’assunzione della prova; 2) di tal che, rebus sic stantibus, la rinnovazione dibattimentale non potrà limitarsi ad una richiesta di conferma, o di disconoscimento, dei precedenti assunti dovendosi invero procedere a ri-sentire gli io-narranti de quibus. Ed in detto indirizzo sembrerebbe potersi annoverare finanche la sentenza G. grosso nodo della ‘non decisività’ della prova non obstante.
Giusta un profilo contiguo la pronunzia annotata esalta, forse ultra necessitate una volta evocati i limiti di cui alle razionalizzazioni ex post (in fondo ogni apparato motivazionale ciò esprime), il valore “taumaturgico” della cosiddetta motivazione rafforzata ad opera del giudice di appello, motivazione “che si confronti con gli argomenti posti a sostegno della sentenza di assoluzione”; “questo perché la motivazione, sovrapponendosi a quella della sentenza riformata, deve dare compiuta ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati”. Ciononostante, nella vicenda L., che ha funto da trait d’union fra lo Stato italiano e le problematiche connesse alla rinnovazione istruttoria in grado di appello, a fronte di quanto assumeva il Governo nazionale nelle proprie osservazioni ovvero che “la corte di appello non si [era] limitata a riesaminare l’attendibilità dei testimoni procedendo ad una semplice lettura del contenuto delle loro dichiarazioni, ma [aveva] effettuato un esame critico e approfondito della struttura della motivazione della sentenza resa dal tribunale …”, la Corte EDU, al paragrafo 45, chiosa con fermezza che “non vede in che modo tale circostanza” (id est, il controllo approfondito della motivazione) “potesse dispensare il giudice di appello dal suo obbligo di sentire personalmente i testimoni le cui dichiarazioni, che si apprestava a interpretare in maniera sfavorevole per l’imputato e completamente diversa rispetto a quella del giudice di primo grado, costituivano il principale elemento a carico”.
Ora, al di là del fatto che il giudice dei diritti umani è giudice del fatto (perlomeno così esso assicura), di modo che queste enunciazioni di principio si stemperano alla luce delle risultanze del caso concreto, è qui che si annida la “frizione” fra giudici nazionali e giudici sovranazionali: la Corte di Strasburgo esige un quid pluris rispetto a ciò che la nostra Corte di Cassazione è disposta ad accordare, in filigrana emergendo il vero nervo scoperto rappresentato dalle “torsioni interpretative” in ordine al significato da attribuire all’opaca formula “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” di cui all’art. 603, co. 3-bis, c.p.p. Un’occasione importante per appianare il riscontrato “dis-allineamento”, a lungo andare foriero, forse, di esiziali screzi fra giurisdizioni, avrebbe potuto vedersi nel D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a rubrica “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” (la cosiddetta ‘riforma Cartabia’, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro guardasigilli) – entrata in vigore, in parte qua, l’ormai prossimo 1° novembre 2022. L’art. 34, co. 1, lett. i), n. 1) di quell’articolato, intervenendo ciononostante sul testo dell’art. 603, co. 3-bis, c.p.p., soggiunge, restandone invariato il “tessuto” originario, che è d’uopo disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale “nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, co. 5, e 441, co. 5”: e ciò basti per quel che ci occupa. Ora appare palese che il novum sia stato dettato in aderenza formale all’insegnamento D. e progenie nonché per ribadire, in ossequio a quanto ripetutamente conferito dalla Corte EDU, che la ratio ispiratrice di quella necessità di rinnovo tende a salvaguardare il compiuto esplicarsi del right to confrontation e non valori indeclinabili quali la presunzione di innocenza o di non colpevolezza, che dir si voglia – metodi e non princìpi, in estrema sintesi (con buona plausibilità per neutralizzare derive interpretative di cui, comunque, si trova diffuso spazio nei repertori giurisprudenziali).
Al postutto il vero punto dolente ovvero la sufficienza di un mero redde rationem “rafforzato” onde giustificare il “capovolgimento” di prospettiva in appello, “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, finanche laddove ivi non si sia provveduto alla “ri-valutazione fisica” del/i dichiarante/i, “vaga” ancora alla ricerca di un autore [D. v. Moldova (n. 2) non ottiene ascolto, inopportunamente]: non lo è stato il Legislatore; facile profezia, allora, immaginare che il quid si rimetta una volta di più all’elaborazione giurisprudenziale … con buona pace della certezza del diritto e dei valori “primi” dell’ordinamento processualpenalistico.