Con una recente pronunzia (Cass. pen., Sez. III, n. 27473/2023) il giudice di legittimità interviene, una volta di più, sull’ormai divenuto classico tema del superamento del decisum assolutorio di cui alle prime cure a fronte dell’“obbligatoria” rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello: al di là del contenuto precettivo (su cui infra) dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. quanto precede potendo fondarsi, “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, in esclusiva su ciò (nessun giudizio accertativo di responsabilità sulle “carte”, altrimenti detto). Nella vicenda di specie gli imputati LM e LS, condannati dalla Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza di assoluzione emanata dal Tribunale di Siena, per avere violato l’art. 256, comma 2, (Attività di gestione di rifiuti non autorizzata), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante “Norme in materia ambientale”, nel dettaglio per avere “organizzato in modo non corretto lo smaltimento dei rifiuti pericolosi e non pericolosi provenienti dall’attività del maneggio e dai lavori edili realizzati nel locale in cui si svolge l’attività del maneggio, così permettendo colposamente il loro abbandono in un manufatto censito come bene di valore storico-culturale”, biasimavano l’operato del giudice del capoluogo toscano in quanto si era “illegittimamente omesso di procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in relazione alle prove dichiarative” pur pronunciandosi in riforma di una sentenza di assoluzione. A dire dei ricorrenti, infatti, “proprio sulla base delle dichiarazioni dei testimoni escussi a dibattimento … la sentenza di primo grado aveva ritenuto dimostrata la regolarità dell’ordinario ciclo di gestione dei rifiuti prodotti nell’attività del maneggio”. È gioco facile per la Corte di Cassazione sottoscrivere l’avanzata doglianza. Osservato che, “ai fini della rinnovazione dell’istruttoria in appello ex art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa devono intendersi non solo quelli concernenti l’attendibilità dei dichiaranti, ma, altresì, tutti quelli che implicano una diversa interpretazione delle risultanze delle prove dichiarative, posto che il loro contenuto – salvo non attenga ad un oggetto del tutto definito o ad un dato storico semplice e non opinabile – è frutto della percezione soggettiva del dichiarante, onde il giudice del merito è inevitabilmente chiamato a “depurare” il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante, in modo da pervenire ad una valutazione logica, razionale e completa, imposta dal canone dell’“oltre ogni ragionevole dubbio””, nell’evenienza de qua, benché le propalazioni rese dai testi escussi in primo grado convergessero in verso opposto (“i rifiuti “ordinari” erano smaltiti nei cassonetti posti a breve distanza dai locali nei quali insisteva il maneggio …, i vari collaboratori, come il maniscalco o il veterinario, o l’impresa edile, smaltivano in proprio i materiali di risulta delle loro attività, … eventuali, ulteriori residui erano immessi in un apposito cassone”), la sentenza impugnata epilogava per l’assenza di “un’organizzazione di smaltimento dei rifiuti e che, di questi, quelli pericolosi erano trattati senza alcun controllo”. Attribuendosi, laonde per cui, un diverso significato al contenuto delle esternazioni de quibus il “ribaltamento” dell’esito assolutorio di cui al giudizio di prime cure avrebbe potuto ottenersi solo ri-esaminando gli, in temporibus già sentiti, dichiaranti: il che, nel caso di specie, è ben lungi dall’essere intervenuto.
L’apparente linearità del sunteggiato corpo motivazionale nondimeno dissimula esiti conclamati all’incrocio di una “formidabile” (così qualificata da una significativa pronunzia, di cui a breve, della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 2022) convergenza della giurisprudenza nazionale con quella europea dei diritti umani e di una affannosa rincorsa, ad opera del patrio legislatore, al descrivendo jus praetorium. Stando così le cose giova riflettere sugli antecedenti che hanno determinato l’innesto nel corpo dell’art. 603 c.p.p. dell’alinea da ultimo fatto presente (l’avverbio numerale bis è per vero indice di un’interpolazione successiva all’entrata in vigore del codice di rito penale del 1988/1989, dovuta alla l. 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, la cosiddetta ‘riforma Orlando’, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della giustizia) – nel mentre cautelando il lettore che si tratterà di una verifica ostica stante, come del resto già avvertito, l’intreccio “frenetico” di pronunzie giurisprudenziali e di aggiustamenti normativi non sempre meditatamente governati nel loro succedersi. Tutto muove, more solito verrebbe da soggiungere, da un ormai risalente “arresto” del giudice dei diritti umani – Dan v. Moldova (n. 1), terza Sezione Corte EDU, 5 luglio 2011 – in cui si ingiungeva, alla Repubblica ex-sovietica de qua, laddove si mirasse a condannare e, di riflesso, ad applicare una pena in grado di appello, con ciò dichiarando l’overturning dell’assoluzione resa in prime cure, di mandare ad effetto l’enunciato di cui all’art. 6 §1 CEDU (Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali) giusta il tenore del quale “
Rebus sic stantibus ci si sarebbe dunque atteso un, se non fulmineo, quantomeno prossimo restyling ad opera del legislatore. L’usuale inerzia al proposito manifestata da quest’ultimo determinava l’“investitura supplente” del comparto giurisprudenziale che, nella sua massima espressione (Cass., Sezioni Unite, 5 ottobre 2016, n. 27620/2016), enucleava le linee-guida per la rinnovazione dell’istruttoria in appello: “a) il valore di parametri esegetici da riconoscere ai precetti della Convenzione europea dei diritti umani, come interpretati dalla Corte di Strasburgo; b) l’obbligo del giudice d’appello, per ribaltare il proscioglimento in condanna, di rinnovare, anche d’ufficio, l’esame delle fonti di prova dichiarative ritenute decisive in primo grado; c) la configurazione della prima condanna in appello, in assenza di rinnovazione istruttoria, quale vizio di motivazione censurabile di fronte alla Corte di legittimità, in ragione del mancato rispetto del canone decisorio del superamento di ogni dubbio ragionevole, indipendentemente dal richiamo alla violazione della Convenzione europea” [in questo punto le Sezioni Unite sembrando discostarsi dall’insegnamento Dan giacché, valorizzando il profilo del “superamento di ogni dubbio ragionevole” (v. art. 533, comma 1, c.p.p.), paiono volgersi a tutelare la presunzione di innocenza ex art. 6 §2 CEDU – per il Nostro assetto cfr. la formula, non del tutto equivalente, di cui all’art. 27, comma 2, Cost. – in luogo del richiamo al fair trial ex art. 6 §1, da leggersi in combinato disposto con l’art. 6 §3, lett. d), seme della Convenzione europea, emblema del diffusamente riconosciuto right to confrontation – di modo che il contraddittorio per la prova, da indeclinabile principio ispiratore dell’ordinamento, verrebbe depotenziato a metodo di formazione di quella]. Comunque sia detto indirizzo appare ribadito, a “stretto giro di posta”, da un ulteriore intervento delle Sezioni Unite (Cass., Sezioni Unite, 19 gennaio 2017, n. 18620/2017), in relazione ad un appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento emessa ad esito di giudizio abbreviato.
È ormai tempo che si intervenga; ed il legislatore ciò fa, quasi “fuori tempo massimo” verrebbe impietosamente da chiosare, stante la l. 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” (in un “gioco pendolare invertito” stante cui la legge generale ed astratta “segue” il concreto ordito giurisprudenziale e non come usualmente accade, rectius dovrebbe accadere, viceversa), cosiddetta ‘riforma Orlando’ dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro per la Giustizia. Di tal che il giudice ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale qualora il pubblico ministero appelli una sentenza di proscioglimento “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” Ecco uno dei nodi esegetici da “sciogliere. Per vero i due decisa a Sezioni Unite testé evidenziati, giusta una lettura convenzionalmente orientata dell’art. 603 c.p.p., valorizzavano, all’obiettivo del capovolgimento della sentenza di assoluzione di cui al giudizio di prime cure, in esclusiva ed apertis verbis, una diversa “stima” della prova dichiarativa ritenuta ‘decisiva’ dal giudice di primo grado; l’interpolato comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p., nella sua dimensione ipertrofica, non pone limite veruno al riguardo legittimando l’appello del titolare la pretesa punitiva giustappunto “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” e non per un richiesto, alternativo, vaglio ad oggetto una prova “scardinante” ovvero decisiva nel senso usualmente contrassegnato per tale attributo. Inoltre l’“arresto” del 2016 (cosiddetta sentenza Dasgupta, dalle generalità del ricorrente) si era fatto carico di segnalare momenti in cui la “doverosità” del rinnovo dell’istruzione dibattimentale poteva eccepirsi. Da un canto si poneva mente all’evenienza in cui il già escusso non fosse più esaminabile in appello (per morte per infermità o per irreperibilità): quantunque si riaffermasse l’impossibilità di una prima condanna ex actis in grado di appello, a fronte di un gravame del pubblico ministero per le ragioni summenzionate, si mitigava la perentorietà dell’assunto rassegnando che restava fermo il dovere del giudice di “accertare sia l’effettiva sussistenza della causa preclusiva della nuova audizione sia che la sottrazione all’esame non dipenda dalla volontà di favorire l’imputato o da condotte illecite poste in essere da terzi, essendo il giudice in tal caso legittimato a fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni”; idem dicasi laddove la fonte dichiarativa si “traducesse” in una persona vulnerabile (per la definizione di siffatta figura cfr. art. 90-quater c.p.p.) nel qual caso é pur tuttavia rimessa al giudice “la valutazione circa l’indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell’impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria”. E sulla medesima lunghezza sembrerebbe disporsi un orientamento, benché minoritario, della Corte Europea dei Diritti Umani (d’ora in innanzi, per acronimo, Corte EDU) stante il quale il giudice alsaziano assicura che non si verifica inosservanza dell’art. 6, comma 1 (“Ogni persona ha diritto ad un’equa e ragionevole udienza entro un termine ragionevole, davanti a un giudice indipendente e imparziale, costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli viene rivolta …”), e comma 3, lett. d), della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani (d’ora in innanzi, per acronimo, CEDU) (“Ogni accusato ha segnatamente diritto a: … interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”) allorquando il giudice di appello, predisponendo l’overturning della decisione di primo grado, fornisca una motivazione particolarmente approfondita (la “motivazione rafforzata” di cui al titolo del presente commento e del cui “usbergo” ci si avvarrà per sviluppare ulteriori riflessioni sul ‘Considerato in diritto’ della pronunzia a numero d’ordine 27473/2023), che si faccia carico degli errori dal giudice di primo grado, motivazione nondimeno da sottoporre a controllo onde verificare il rispetto di un tale incombenza. Finanche qui, al postutto, nessuna deroga, nessun bilanciamento nel “tetragono” dettato dell’art. 603, comma 3-bis, del codice di rito penale venendone che allora, quantomeno prima facie, risulterebbe sempre interdetto condannare in seconda istanza, a fronte di un esito assolutorio in primo grado, nonostante l’interposto appello del pubblico ministero “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, laddove non si sia proceduto a ri-esaminare i già in temporibus ascoltati (e ciò giusta il rispetto del canone dell’oralità/contraddittorio nel momento di formazione della prova nonché della regola aurea della presunzione di non colpevolezza, o di innocenza, che dir si voglia, “incistata”, quest’ultima, nel limpido, ad una “scorsa” epidermica, disposto di cui all’art. 533, prima comma, primo periodo, c.p.p.: “[i]l giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”).
In un equilibrio ricercato, e a fatica ritrovato, a seguito dell’interpolazione di cui al comma 3-bis art. 603 c.p.p., l’incessante opera dei pratici ha contribuito a ri-stipulare il tratto definitorio del novum di riferimento sia giusta l’angolo visuale soggettivo che giusta l’angolo visuale oggettivo. Dal primo versante, allora, si è sottolineata la necessità della rinnovazione istruttoria finanche laddove si voglia ri-esaminare, in seconde cure, od un perito ed/od un consulente tecnico a patto che costoro siano già stati ascoltati in primo grado e che il loro “sapere esperto” sia ritenuto ‘decisivo’ onde riformare la sentenza impugnata nel verso di cui alla norma codicistica (Cass., Sezioni Unite, 28 gennaio 2019, n. 14426/2019) come, del resto, è giocoforza epilogare a proposito dell’annullamento, ai soli fini civili, della sentenza assolutoria (Cass., Sezioni Unite, 28 gennaio 2021, n. 22065/2021); non vale la “conversa”, invece, nel senso che non grava nessuno obbligo, sul giudice di appello, di rinnovare la “provvista” probatoria allorquando, a fronte di una condanna, si intenda optare per l’assoluzione (Cass., Sezioni Unite, 21 dicembre 2017, n. 14800/2017). Difatti, mentre la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non traduce, in formula decisoria, la certezza dell’innocenza bensì solo il dubbio sulla medesima (scil.: colpevolezza) (cfr. art. 530, comma 2, c.p.p.) venendone, di riflesso, che “l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l’assoluzione” (dal che é dato evincere, qualora ancora ve ne fosse urgenza di conferma, che le autentiche rationes decidendi a fondamento di tale manipolo giurisprudenziale stanno nella tutela della presunzione di innocenza e non nel pieno esplicarsi del right to confrontation). Comunque sia “il giudice di appello … è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado”. Quanto da ultimo precede, pur tuttavia, non esonera l’organo di secondo grado dal disporre la rinnovazione de qua: semplicemente ciò non rappresenterà una necessità bensì una opportunità da “coltivare” a mente del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 603 c.p.p. laddove il giudice così decida di motivarsi.
Lo scenario de quo, già alquanto intricato, si compone poi di tasselli aggiuntivi. Ante omnia un ulteriore “arresto” della Corte EDU: la vicenda è curiosa giacché, in un moto circolare inatteso, essa riconduce al signor Dan il quale, con il suo ricorso al giudice dei diritti umani, aveva innestato la riflessione che ci sta occupando. Egli, preside di scuola media superiore, assolto in primo grado dall’accusa di avere ricevuto una tangente finalizzata all’immatricolazione “facilitata” di un ragazzo in quel plesso scolastico, veniva condannato in secondo grado, ad esito di una sola udienza, a prescindere dal riesame dei testimoni di accusa (un mero processo “sulle carte”, altrimenti detto). Forte del judgment con cui la Corte di Strasburgo condannava lo Stato moldavo per violazione dell’art. 6, §1 il Dan chiedeva la riapertura del processo ad epilogo del quale, nondimeno, veniva una volta di più ritenuto responsabile dell’addebito. La vicenda ha un sequel, laonde per cui – giustappunto, Dan v. Moldova (n. 2), seconda Sezione Corte EDU, 10 novembre 2020 -, ancora una volta ad esito non “gradito” dallo Stato convenuto nuovamente condannato per inosservanza del dettato convenzionale testé menzionato. Quasi agendo impropriamente da giudice di “quarta istanza” l’organo di jus dicere di specie – ma ciò, qui, non rileva – effettua una verifica dettagliatissima sull’operato dei giudici nazionali censurandone la superficialità giacché non avevano posto in essere tutte le “misure positive necessarie” onde assicurare la presenza dei dichiaranti in giudizio volgendo, in luogo, alla mera lettura del pre-formato. Più nello specifico Dan n. 2 biasima l’operato dello Stato convenuto dacché il giudice moldavo aveva sottoscritto la responsabilità dell’imputato alla luce del recupero “arbitrario” del pre-formato (erano stati invero ri-escussi, dinnanzi al giudice di appello, solo tre fra i sette testimoni del fatto-reato); ancor più in merita causae il concusso era deceduto nelle more del processo di secondo grado divenendone così impossibile la “reitera” del sapere. Ebbene: la Corte EDU qui ha censurato la decisione di cui alla Corte di appello di Chisinau nella misura in cui si era statuito il “ribaltamento” del previo giudizio non tanto per il mero utilizzo delle pregresse dichiarazioni quanto, piuttosto, una volta osservato che fare riguardo su quelle ultime non era stato accompagnato da opportune garanzie (l’avvisaglia della ‘motivazione rafforzata’ di cui a breve). Da ciò due corollari significativi: 1) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello non é un vuoto esercizio di stile, una mockery of justice, di tal che le seconde cure identificano un processo a tutti gli effetti, caratterizzato da oralità ed immediatezza nell’assunzione della prova; 2) venendone, rebus sic stantibus, la rinnovazione dibattimentale non potrà limitarsi ad una richiesta di conferma, o di disconoscimento, dei precedenti assunti dovendosi invero procedere a ri-sentire gli io-narranti de quibus. Last but not leastl’immancabile, “onnivora”, riforma Cartabia (dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro guardasigilli) ovvero il d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a Rubrica “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. Intervenendo sul testo del comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p. ora si scrive che è d’uopo disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale “nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5” – fermo restando che ciò interviene in esclusiva “[n]el caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”. Ad unica certezza il fatto che il novum esclude la rinnovazione “obbligatoria” nelle evenienze di giudizio abbreviato non condizionato all’assunzione della prova (il cosiddetto abbreviato secco ex art. 438, comma 1, c.p.p., tanto per intendersi): per il resto appare palese che il novum è stato dettato in aderenza formale all’insegnamento Dasgupta e progenie nonché per ribadire, in ossequio a quanto ripetutamente conferito dalla Corte EDU (un vero e proprio lip homage, a bene vedere), che la ratio ispiratrice di quella necessità di rinnovo tende a salvaguardare il compiuto esplicarsi del right to confrontation e non valori indeclinabili quali la presunzione di innocenza o di non colpevolezza, che dir si voglia – metodi e non princìpi, in estrema sintesi (con buona plausibilità per neutralizzare derive interpretative di cui, comunque, si trova diffuso spazio nei repertori giurisprudenziali).
I “pratici”, ciononostante, ritengono di potere superare l’impasse valorizzando il profilo della, finora a più riprese solo adombrata, ‘motivazione rafforzata’. Premesso che quest’ultima è concorrente, e non alternativa, all’obbligo di procedere al rinnovo dell’istruttoria in appello la Corte di Cassazione, nella sentenza qui annotata, procede ad una verifica “strenua” della conformità della decisione impugnata “con quanto emerso in ordine alla indisponibilità di mezzi per trasportare i rifiuti a grande distanza, alla riconducibilità di un ridotto quantitativo di quelli rinvenuti alle ditte dei due imputati, alla possibilità di smaltimento degli scarti nei vicinissimi cassonetti, e a quanto dichiarato … relativamente allo smaltimento dei rifiuti edili” onde assumere che “la sentenza impugnata non si è confrontata compiutamente con i risultati cui era pervenuta la sentenza di primo grado”. Detto modus procedendi trova autorevole riscontro in un ulteriore intervento della “compagine massima” dell’organo nomofilattico (Cass., Sezioni Unite, 30 marzo 2022, 11586/2022), non addotto a “referto” nella vicenda che ci occupa forse perché l’esito conclamato di quell’accertamento, a differenza di ciò che è intervenuto qui, ha legittimato l’overturning della sentenza assolutoria nonostante la mancata ri-escussione del dichiarante “principe” in seconde cure e, con buona plausibilità, in quanto si esige di più dell’“orto concluso” di cui alla sentenza n. 27473/23. Le Sezioni Unite erano chiamate a verificare “se, in caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive, l’impossibilità di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa a causa del decesso del soggetto da esaminare precluda, di per sé sola, il ribaltamento del suddetto giudizio”. Palese, qui, che non si possa ri-sentire l’io narrante (a meno di “liceitare” all’obiettivo sedute spiritiche od amenità equivalenti …): nondimeno, per giustificare il principio di diritto colà espresso, id est che “[l]a riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso del dichiarante”, il giudice di legittimità chiarisce che, innanzitutto, “rafforzata deve essere la motivazione che deve colmare il deficit del mancato riascolto … In questo caso il “rafforzamento” delle argomentazioni motivazionali deve essere particolarmente incisivo e, in primo luogo, avere ad oggetto la dichiarazione “decisiva”, resa in primo grado e non potuta replicare, attraverso un esame e una valutazione di tutti gli elementi riguardanti la credibilità del soggetto e l’attendibilità del suo narrato, per poi procedere alla falsificazione della stessa prova dichiarativa per verificarne le disarmonie logiche e argomentative, nonché per evidenziare il fondamento erroneo dei fatti e rapporti valorizzati dal primo giudice sulla base di un eventuale travisamento probatorio. Ma, soprattutto, il rafforzamento deve avvenire non solo su basi argomentative, bensì sulla base di ulteriori elementi che siano idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, elementi che il giudice ha l’onere di ricercare e acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. In questa opera di riqualificazione del quadro probatorio devono essere cercati e verificati gli elementi di riscontro in grado di corroborare la prova dichiarativa non “ripetibile” per ragioni oggettive, elementi di riscontro con sicura valenza confermativa, in modo da riconoscere alla dichiarazione stessa una capacità conoscitiva tale da giustificare il ribaltamento; ove necessario possono essere disposte d’ufficio dal giudice, attivando i poteri ex art. 603, comma 3, cit., prove in origine ritenute superflue che, invece, nella situazione particolare che si è determinata, si rivelino ora necessarie … . Insomma, il deficit probatorio che si verifica per effetto della impossibilità di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa “decisiva” e in presenza di una sentenza assolutoria di primo grado determina la necessità di prevedere tutte quelle garanzie procedimentali in grado di reintegrare il quadro probatorio, al fine di dimostrare la illogicità della originaria valutazione che di quelle prove ha fatto il primo giudice”.
Non per nulla il giudice dei diritti umani nella vicenda Lorefice, che ha funto da trait d’union fra lo Stato italiano e le problematiche connesse alla rinnovazione istruttoria in grado di appello, alla luce di quanto assumeva il Governo nazionale nelle proprie osservazioni ovvero che “la corte di appello non si [era] limitata a riesaminare l’attendibilità dei testimoni procedendo ad una semplice lettura del contenuto delle loro dichiarazioni, ma [aveva] effettuato un esame critico e approfondito della struttura della motivazione della sentenza resa dal tribunale …”, la Corte EDU, al paragrafo 45, chiosa con fermezza che “non vede in che modo tale circostanza” (id est, il controllo approfondito della motivazione) “potesse dispensare il giudice di appello dal suo obbligo di sentire personalmente i testimoni le cui dichiarazioni, che si apprestava a interpretare in maniera sfavorevole per l’imputato e completamente diversa rispetto a quella del giudice di primo grado, costituivano il principale elemento a carico”. Ora, al di là della notazione che il giudice dei diritti umani è giudice del fatto (perlomeno così esso assicura), di modo che queste enunciazioni di principio si stemperano alla luce delle risultanze del caso concreto, è qui che si annida, e continua ad annidarsi Cartabia non obstante, la “frizione” fra giudici nazionali e giudici sovranazionali: la Corte di Strasburgo esige un quid pluris rispetto a ciò che la nostra Corte di cassazione è disposta ad accordare, in filigrana emergendo il vero nervo scoperto rappresentato dalle “torsioni interpretative” in ordine al significato da attribuire all’opaca formula “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” di cui all’art. 603, comma 3-bis, c.p.p.
Al postutto va accreditato quanto sostenuto in un precedente commento: l’effettivo punctum dolens, ovvero la sufficienza di un mero redde rationem “rafforzato” onde giustificare il “capovolgimento” di prospettiva in appello, “per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, finanche laddove ivi non si sia provveduto alla “ri-valutazione fisica” del/i dichiarante/i, “vaga” ancora alla ricerca di un Autore [Dan v. Moldova (n. 2) non ottiene ascolto, inopportunamente]. Non lo è stato il Legislatore; era facile profezia, in allora, immaginare che il quid venisse rimesso una volta di più all’elaborazione giurisprudenziale … con buona pace della certezza del diritto e dei valori “primi” dell’ordinamento processualpenalistico. Anche perché, e sono le medesime Sezioni Unite del 2022 a ricordarcelo, clamorosamente inficiando il postulato ad esordio delle proprie riflessioni (“Occorre ribadire che l’istituto dell’appello, come delineato anche a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 103 del 2017, resta un mezzo di controllo della decisione assunta in primo grado”), “[n]el caso di rinnovazione istruttoria, soprattutto quando particolarmente estesa in funzione della necessità di ricomporre il quadro probatorio, il giudizio di appello fatalmente si avvicina ad una forma di novum iudicium: quanto più vasta è l’istruttoria dibattimentale in appello, tanto maggiore è la trasfigurazione del giudizio d’appello in novum iudicium, che trova la sua ragione di essere nella necessità di dover superare la mancanza del contraddittorio insieme alla presunzione rafforzata di innocenza per effetto della preesistente pronuncia assolutoria”. Seconde cure sempre meno revisio prioris instantiae sempre più novum iudicium (quantunque il d. lgs. 150/2022 sia ben lungi dal mostrarsi assertivo al riguardo – cfr., ad esempio, il nuovo comma 1-bis dell’art. 581 c.p.p., votato alla specificità dei motivi di appello), dunque: di sicuro altresì le “costruzioni dogmatiche” meriterebbero altro rispetto.