In una recente pronunzia del giugno scorso (Students for Fair Admissions, Inc. v. President and Fellows of Harvard College), oggetto di copertura mediatica finanche alle nostre latitudini, la Corte Suprema federale statunitense è ritornata, sembrerebbe giusta una prospettiva draconianamente risolutiva, sull’annosa, e controversa, vicenda della legittimità delle cosiddette affirmative actions (“azioni positive”) all’obiettivo di implementare the educational benefits that flow from a racially diverse student body. In una opinion redatta dal Chief Justice John G. Roberts, e sottoscritta dai Brethern Alito, Barrett, Gorsuch, Kavanaugh e Thomas (gli ultimi tre, a loro volta, autori di proprie concurring opinions), la maggioranza conservatrice dell’alto consesso stipula difatti che i programmi di ammissione alle coorti universitarie di Harvard e del North Carolina (d’ora in innanzi quest’ultima, per acronimo, rappresentabile come UNC) violino la Equal Protection Clause (principio di uguaglianza) di cui al XIV° Emendamento, Sezione Ia (All persons born or naturalized in the United States, and subject to the jurisdiction thereof, are citizens of the United States and of the State where in they reside. No State shall make or enforce any law which shall abridge the privileges or immunities of citizens of the United States; nor shall any State deprive any person of life, liberty, or property, without due process of law; nor deny to any person within its jurisdiction the equal protection of the laws – la sottolineatura è nostra) della Costituzione USA; e ciò in quanto, nel predisporre quelle compagini di discenti, le due Almae Matres valorizzerebbero un parametro discretivo odioso ovvero l’appartenenza razziale dei proponendi l’application form. Di avviso opposto, espresso in dettagliate e taglienti dissenting opinions, delle giudici Sotomayor e Jackson – quest’ultima con riguardo esclusivo ad oggetto la vicenda UNC -, opinions reciprocamente sottoscritte in una a Justice Kagan, per le quali essere neri o bianchi rileva, soddisfatte certe condizioni (ne vedremo nel prosieguo i tratti), non fosse altro per bilanciare le discriminazioni che “mirati” gruppi etno-razziali, in primis afro-americani e latino-americani, hanno sofferto in un passato neppure troppo remoto (race doesn’t matter per i sei giudici vittoriosi laddove race matters, eccome, per la minoranza della Corte, al tirar delle somme).
È ben noto che il “germe” razziale ha infettato (e continua ad infettare) l’esistenza e, prima ancora, la sopravvivenza del We, the People (la nazione americana) – a livello macro-storico la bestiale guerra civile (1861-1865) fra Stati unionisti del Nord e Stati confederati del Sud, combattuta all’insegna dell’affrancamento dalla schiavitù per cospicue “fette” della popolazione afro-americana (quantomeno così ci viene narrato dalla vulgata ufficiale), abolizionisti i primi “ritenzionisti” i secondi, ne identifica la più eloquente, ed atroce, testimonianza. Pur tuttavia, ai limitati orizzonti di questo commento, pare maggiormente costruttivo appuntare il focus sui condizionamenti che quell’indicatore – la razza – ha determinato sul comparto dell’istruzione, nello specifico sui più alti organi e gradi di studio (le istituzioni universitarie, altrimenti detto). Per quasi due secoli a muovere dalla dichiarazione di indipendenza i rapporti fra colored men e white men sono stati governati dal riprovevole canone separate but equal: di tal che identiche opportunità identiche facilitazioni identici servizi venivano offerti ai due gruppi etnici de quibus a patto che essi non giungessero a “mischiarsi” (di anti-miscegination laws, non per nulla, si discorre liberamente, con specifico riguardo, tanto per esemplificare, a quei provvedimenti che interdicevano i matrimoni misti o i loro equivalenti funzionali). L’assioma di interesse ha trovato legittimazione finanche nei giudici supremi, nella modalità più puntuale nell’esecrabile caso Plessy v. Ferguson del 1896. In esso, ad oggetto l’occupazione, da parte di un non white, di un posto riservato ai bianchi in una carrozza ferroviaria (la separate but equal doctrine trovava il “benvenuto” in ogni contesto dell’ordinato vivere sociale), una Corte quasi unanime (lone dissenter il primo Justice Harlan – altresì il nipote di quest’ultimo, dall’identità sovrapponibile, assurgerà all’ufficio di Associate Justice all’incirca un’ottantina di anni dopo), parlando per il filtro del giudice Brown, supponeva la compatibilità dell’essere separati ma uguali con l’Equal Protection Clause di cui al XIV° Emendamento. “L’obiettivo sotteso all’Emendamento volgeva senza dubbio alcuno a confermare l’assoluta uguaglianza delle due razze dinnanzi alla legge ma, stante l’ordo naturalis, esso non può intendersi come tale da avere abolito ogni distinguo fondato sul colore della pelle o come tale dall’avere rafforzato l’eguaglianza sociale come distinta da quella politica o, ancora, come tale da avere garantito una “mescolanza” delle due razze su presupposti insoddisfacenti per entrambe. Le leggi che permettono, o che addirittura obbligano, la separazione in contesti dove, con buona probabilità, bianchi e neri entrerebbero a contatto non determinano, in sé e per sé, l’inferiorità di una razza rispetto all’altra … Riteniamo fallace l’argomentazione addotta dal ricorrente” (Plessy: n.d.a.) “giusta la quale la separazione forzosa tra le due razze “marca” the colored race con uno stigma di inferiorità. Pur anche così fosse ciò non verrebbe a determinarsi stante quanto contemplato dal provvedimento normativo sub judice quanto piuttosto in esclusiva dal fatto che è la colored race a ritenere in quel modo … Si reputa inoltre” (sempre da Plessy: n.d.a.) “che l’uguaglianza dei diritti non può assicurata al negro se non attraverso un’obbligata inter-relazione fra le due razze. Ciò non è accettabile. Se le due razze si debbono confrontare in termini di eguaglianza sociale questo deve essere il prodotto di affinità naturali, di un mutuo apprezzamento dei reciproci meriti e di un consenso volontario degli interessati”.
Al di là delle opinabili assicurazioni del giudice supremo con Plessy la magistratura federale di vertice giungeva ad avallare una politica segregazionista, de jure e de facto, che imponeva a badge of inferiority sugli appartenenti alla razza nera, per emanciparsi dalla quale si dovrà attendere la metà degli anni ’50 del XX° secolo a fronte delle cardinali pronunzie Brown v. Board of Education of Topeka n. 1, del 1954, e Brown v. Board of Education n. 2, dell’anno immediatamente a seguire con cui la Corte suprema federale USA si motivava per il superamento (overruling) dei contenuti disciplinari di cui al precedente del 1896. L’antefatto (da cui è dato evincere un ulteriore momento di rilevanza del case attenendo esso alla dimensione scolastico/educativa – “occhiale” primario delle nostre riflessioni): Linda Brown si era vista rifiutare l’iscrizione ad una scuola elementare nelle vicinanze del proprio luogo di residenza vedendosi costretta, di necessità, a fare riguardo ad un istituto distante più di un chilometro da quell’ultimo. Valesse la separate but equal doctrine si mostrerebbe funzionale a rigettare le censure avanzate la dimostrazione che i due plessi godevano di sostanziale eguaglianza facendosi riguardo agli edifici, ai servizi ed alla qualità dell’insegnamento proposto: e così si affrettarono ad ingiungere i giudici di primo grado. Nondimeno il “consolidamento” della vicenda con ulteriori situazioni in cui la reclamata eguaglianza era solo di facciata facilitò l’approdo innanzi alla Supreme Court. Dopo qualche iniziale difficoltà la Corte, all’unanimità, per bocca dell’allora suo Chief Justice Earl Warren, ritenne, in Brown I, incompatibile con la clausola testé menzionata la separate but equal doctrine argomentando che la denunciata segregazione razziale etichettava quali inferiori gli appartenenti alla razza nera con ciò venendosi a comportare uno spropositato (ed incontrollabile) effetto penalizzante sulla crescita, personale ed educativa, dei bambini afro-americani; e ciò sul presupposto, morale prima ancora che giuridico, che tutti sono creati uguali, e tali sono, davanti alla legge. Se dopo secoli si poneva fine, quantomeno de jure, a quelle politiche “esclusive” che tanto avevano agevolato la marginalizzazione dei not whites dalla vita sociale della U.S. Federation si badi bene, pur tuttavia: i giudici supremi erano in toto consapevoli che enunciati così dirompenti avrebbero ottenuto un’accoglienza stentata, tanto più se si fosse fatto riguardo a puntuali aree geo-statuali della Nazione. Onde quindi impedire che quella declaratoria di incostituzionalità si trasformasse in un mero lip-homage all’Equal Protection Clause a “stretto giro di posta”, nel 1955, la Corte, sempre all’unanimità e sempre eleggendo a portavoce della sua holding il Chief Justice Warren, in Brown II, conveniva che le resistenze di cui all’accettazione di Brown I esigevano soluzioni differenziate a livello locale. Nello specifico i provveditorati agli studi, nonché le corti che originariamente si erano occupate dei segregation cases, erano investiti della “missione” di (rectius: erano obbligati ad) implementare i principi che erano stati forgiati dalla prima Brown decision: quanto precede doveva, inoltre mandarsi ad effetto giusta la richiesta ponderazione dei tempi necessari (with all deliberate speed). La combinata lettura di queste due cornerstones della giurisprudenza federale statunitense sancisce allora, in via definitiva, il “banno” di ogni approccio discriminatorio nei confronti della black population (detta sottolineatura è fondamentale come, a breve, avremo modo di osservare), sia de jure che de facto. A contraltare, nondimeno, i giudici supremi rimettevano alle autorità locali l’esplorazione dei mezzi funzionali ad assecondare l’effettiva uguaglianza di opportunità. Dal che un fiorire di iniziative multiformi: dalla ri-mappatura dei distretti scolastici all’istituzione di nuove linee di trasporto pubblico oltre che al rafforzamento di quelle preesistenti; da borse di studio per capaci e meritevoli disadvantaged (e razzialmente ed economicamente o ambedue le qualifiche) fino a, last but not least, azioni “benigne” volte ad includere, nei contesti di riferimento, gruppi etno-sociali che, sino a quel frangente, erano stati deprivati dell’accesso di specie (le cosiddette affirmative actions su cui, nell’immediato, appunteremo il nostro sguardo) o riservando ai già esclusi un numero, od una quota, di accessi oppure tenendo conto, in qualche modo, della razza nel determinare la compagine studentesca per quell’anno accademico.
Una premessa prima di continuare. Le riflessioni a seguire si incentreranno sulle convergenze/divergenze fra azioni affermative, o positive, o “benigne”, che dir si voglia, e l’istituzione universitaria. E ciò non tanto, e non solo, perché la sentenza da cui si sono prese le mosse adduce a respondents le università di Harvard e del North Carolina quanto, piuttosto, per le specificità del mondo accademico (non per nulla, nel nostro ordinamento, è istituito, anche se non in costanza di esecutivi, un Ministero ad hoc per farsi carico delle esigenze di quest’ultimo) nonché, va detto con franchezza, per deformazione professionale di chi scrive. Ed un ulteriore, inevitabile, corollario: ça va sans dire che, in un gioco a somma zero come quello che presiede all’ammissione ai corsi universitari, all’inclusione di un candidato, putacaso appartenente ad un minority group, specularmente è dato osservare l’esclusione di un altro, putacaso appartenente al white dominant people: non dovrebbe quindi sorprendere se un White Anglosaxon Protestant (per acronimo WASP) censuri le modalità giusta cui gli admission committees delle Università procedono allo screening degli aspiranti studenti così “contaminando” la “purezza” della coorte che si intendeva formare. L’occasione per appianare la querelle viene rimessa alla Corte suprema federale all’incirca un quarto di secolo dopo Brown I alla luce della landmark decision Regents of the University of California v. Bakke del 1978. Quest’ultimo aveva, per due volte, fatto domanda per essere ammesso alla scuola di medicina presso l’Università della California – Davis riscontrando, in ambedue le evenienze, esito negativo. La scuola, ad ogni buon conto, riservava 16 posti – su di un totale di 100 – a minoranze qualificate ovvero a neri a chicanos (ora latino-americani) ad asiatici (sino- e nippo-americani) ed a nativi americani in uno sforzo teso a compensare la risalente, ingiustificata, esclusione dei not whites dalle professioni medico-sanitarie. I titoli posseduti da Bakke eccedevano quelli a disposizione di ogni esponente delle minoranze de quibus che erano stati accolti nell’utenza studentesca nei due anni in cui la sua application form era stata rigettata; venendone, giustamente dal suo angolo visuale, che egli era stato vittima di un’odiosa reverse discrimination. Decisione complessa, al punto tale che non è dato riscontrare una majority opinion (altrimenti detto Bakke vince e perde simultaneamente). Quattro giudici, ovvero gli Associate Rehnquist, Stevens, Stewart ed il Chief Justice Burger, reputarono che ogni politica di affirmative action, indipendentemente da come fosse stata mandata ad effetto dalla università californiana, violasse il Civil Rights Act del 1964 prima ancora della Equal Protection Clause di cui al XIV° Emendamento – a questi va aggiunto il voto di Justice Powell che, giusta la “resa operativa” dell’azione positiva come implementata dalla Medical School of the University of California at Davis, ingiungeva di ammettere Bakke a seguire quel percorso di studi giacché il rigido sistema di quote invalso si mostrava in antitesi con la clausola da ultimo richiamata; gli altri quattro giudici, ovvero gli Associate Blackmun, Brennan, Marshall e White, stipularono invece che valorizzare la razza quale criterio discretivo in admission decisions in higher education era compatibile con il dettato costituzionale – a ciò va affiancato, una volta di più, Justice Powell giusta il cui insegnamento l’utilizzo della razza era costituzionalmente legittimo nella misura in cui esso identificasse uno, e non l’esclusivo, parametro cui ancorare la predisposizione della futura utenza studentesca. Lo swing of pendulum è quindi rappresentato da Lewis F. Powell, emblematicamente assurto agli onori della cronaca giudiziaria come la “voce della moderazione”, di tal che è doveroso analizzarne i contenuti funditus tanto più una volta verificato che quell’opinion fungerà da bussola orientativa per le trame decisionali future.
Come di già adombrato Justice Powell non sottoscrive che evocare classificazioni su base razziale per le procedure di admission di cui sopra identifichi, in sé e per sé, un’offesa al XIV° Emendamento. Certo: residuano eventualità in cui ciò è innegabile ovvero nelle evenienze di quota system (riserva di posti, in entità numerica o percentuale, a gruppi minoritari) o di two-track system (sistema binario di accesso, differenziato/preferenziale per gli “under dog”, ordinario/standardizzato per la maggioranza bianca) – ed è questa la ragione per cui viene imposto alla medical school di ammettere Bakke (16 posti su 100 erano “appannaggio” esclusivo dei not whites). Nelle ulteriori ipotesi – la stragrande maggioranza, parrebbe – è doveroso verificare 1) gli obiettivi che si intendono perseguire ricorrendo a tassonomie prima facie “odiose” (razziali, etniche, sessuali, di genere e via seguitando) 2) nonché individuare il criterio sul cui fondamento misurarne la legittimità. A dire del giudice Powell sono suscettibili di considerazione in esclusiva quattro finalità (altrimenti detto le università non possono giustificare politiche apparentemente discriminatorie al di fuori di quel canovaccio): A) ridurre il tradizionale deficit di presenze “minoritarie” nelle scuole di medicina e nell’esercizio della professione; B) neutralizzare gli effetti della discriminazione sociale; C) incrementare il numero di operatori sanitari che praticano in contesti non a sufficienza garantiti (underserved) D) assicurarsi quei benefici che originano, di necessità, da un corpo studentesco multi-etnico. O troppo vago o di difficile implementazione quanto incluso da A) a C) solo l’obiettivo di cui a D) può trovare ricetto – non fosse altro perché esso prospetta, finanche se in termini “liquidi”, l’autonomia universitaria come espressione della libertà di insegnamento (è l’accademia, difatti, a stabilire chi insegna, a chi si insegna, che cosa si insegna e giusta quali modalità didattiche). Ciò appurato resta da vagliare il criterio discretivo di cui a 2). Ebbene: qui soccorre il principio di stretta necessità/proporzionalità (strict scrutiny) – le classificazioni razziali sono interdette a meno che non siano strettamente necessarie (recte: indispensabili) onde promuovere a compelling governmental interest. Laddove, a contraltare, siano esplorabili, ed usufruibili in concreto, alternative razzialmente neutre per mandare ad effetto l’obiettivo di cui a D) il vaglio di compatibilità con l’Equal Protection Clause non regge. Justice Powell, a sintesi finale, è equidistante dagli opposti massimalismi (le racial classifications sono sempre incostituzionali; le racial classifications non sono mai incostituzionali): egli individua una verifica, né teorica né astratta, da rendersi a proposito di ogni meccanismo di ammissione, di certo ammirevole alla luce del “governo” del buon ragionare giuridico ma, nei fatti, logorante e faticosa. E ciò è tanto più vero sol che ancor si rifletta che, in questo modello, l’“impatto” della razza opera non come fattore esclusivo bensì alla stregua di un plus to tip the balance a vantaggio dei già discriminati (un fattore da considerare in una con altri, del genere del rendimento scolastico, dell’esito dei test attitudinali, della provenienza geografica, delle performances atletiche, delle disponibilità finanziarie, dell’essere imparentato con precedenti alumni di quel college, etc.). Uno scenario olistico, quindi, in cui ogni tratto distintivo individuale dell’ammittendo deve risultare attentamente vagliato.
Si è ben lungi da un esito conclamato, pur tuttavia. Non sarà sfuggito all’osservatore più accorto che, in Bakke, i giudici supremi tutt’affatto conversero su di una majority opinion: Justice Powell parlava per se stesso rassegnando osservazioni articolate a cui, in quota parte, aderivano quattro Brethren mentre, per il residuo, egli era supportato dagli ulteriori Associate. Ci si interrogava, laonde per cui, se quanto così certosinamente impostato rappresentasse una mera plurality o se, invece, potesse fungere da precedente vincolante per le decisioni a venire. Si dovrà attendere un ulteriore quarto di secolo (vedremo immantinente la centralità, ai fini decisori del prodotto del 2023, del numero ‘25’) onde “sciogliere” il binomio (nel frattempo un turmoil giurisprudenziale fra le corti di primo e di secondo grado): in Grutter v. Bollinger, del 2003, la Corte suprema fornirà – finalmente, verrebbe da soggiungere – il suo autorevole imprinting ad una delle due opzioni prospettate. Anche qui un breve inquadramento fattuale. Barbara Grutter, bianca residente, presentava domanda di ammissione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali (Law School) dell’Università del Michigan. Una volta ottenuto riscontro negativo, ed appurato che la Law School conveniva di valorizzare la razza all’obiettivo di garantire diversity among its student body, Grutter avanzava ricorso, accolto in primo grado poiché la multietnicità non identificava a compelling governmental interest da perseguire per il tramite dell’utilizzo di classificazioni razziali ma rigettato dinnanzi alla Corte d’Appello proprio in quanto la Powell opinion individuava un binding precedent. A highly fractured Court (5 giudici a favore della costituzionalità delle affirmative actions racially oriented Powell described, nel dettaglio Breyer, Ginsburg, O’Connor, Souter e Stevens i 4 restanti, ovvero il Chief Justice e gli Associate Kennedy, Scalia e Thomas decisamente contrari) faceva sue le “equilibristiche” riflessioni del giudice Powell le quali, di conseguenza, valevano, pro futuro, come precedente vincolante. I giudici di maggioranza determinarono che, alla luce del fatto che la Scuola di Specializzazione aveva effettuato una verifica opportunamente individualizzata di ogni posizione “applicativa”, non poteva assumersi che l’accettazione, o la reiezione, dei facenti domanda venisse a basarsi, per automatismo, su di una variabile del genere della razza; venendone che la procedura di cui ci si doleva invero garantiva che tutti i fattori che cospiravano ad assicurare l’eterogeneità degli specializzandi erano stati coscienziosamente vagliati (oltre che la razza). Justice O’Connor, autrice della majority opinion, così chiosò: “nel contesto del vaglio individualizzato di cui sopra in ordine ai possibili contributi che la diversa “estrazione” degli ammittendi alla Law School genera il modello di ammissione razzialmente consapevole testé descritto non lede, oltre soglia, gli applicants non riconducibili a minoranze”. La Powell doctrine è ormai Supreme Court doctrine, di tal che; una soluzione di compromesso che, a fronte di quella affilata e minuziosa verifica da essa imposta, ben può defluire in esiti opposti. Ciò si è immancabilmente realizzato – e per di più in una vicenda decisa lo stesso giorno di Grutter ovvero il 23 giugno 2003 (cfr. Gratz v. Bollinger). L’Università del Michigan valorizzava a referenti della propria procedura di ammissione un significativo numero di criteri discretivi (rammentiamo, oltre quelli su elencati, e a mero titolo di curiosità, la capacità di leaderaggio) tra i quali valeva finanche l’appartenenza razziale; anzi quest’ultima “pesava” vieppiù dacché, a muovere dal 1998, per il solo fatto di ricondursi, nell’application form, ad una underrepresented minority si ottenevano 20 punti di bonus. Jennifer Gratz e Patrick Hamacher, entrambi bianchi, nel 1995 avanzavano domanda di immatricolazione presso il College of Literature, Science and the Arts di cui a quell’Ateneo subendo, a replica, un fermo niet poiché, pur essendo ambedue qualificati, non si mostravano a sufficienza “competitivi” laddove paragonati con gli ammittendi riconducibili a gruppi minoritari. La district court (giudice di primo grado) investita del ricorso, pur valutando che la procedura sub judice si uniformasse agli obiettivi dichiarati, e da perseguire, giusta la Bakke doctrine (to obtain the educational benefits that flow from an ethnically diverse student body), nondimeno assumeva che sopravanzassero profili di criticità con riguardo agli anni fra il 1995 ed il 1998 in quanto, in quell’arco temporale, venivano, di default, ad accantonarsi posti per gruppi, ora, “preferenziati” (holding seats). Il sincronismo con il caso Grutter legittimava di bypassare l’investitura dell’organo di seconde cure rappresentando le istanze de quibus direttamente dinnanzi alla Corte suprema. Quest’ultima, alla luce di rationes decidendi speculari al “tracciato” di cui a Grutter (lo swinging vote riconduce a Justice O’Connor che biasima come la policy adottata non mandi ad effetto lo strict scrutiny test preteso da Bakke), delucidava come quei meccanismi, stante il fatto che non garantissero la considerazione individualizzata di ogni richiesta quanto piuttosto volgessero alla sottoscrizione, quasi automatica, dell’application form di esponenti di gruppi sotto-rappresentati, non trovassero riscontro in ciò che Justice Powell aveva in allora illustrato e che la Corte aveva fatto proprio, quello stesso giorno, in Grutter (it was not narrowly tailored in the manner required by previous jurisprudence on the issue) – così il Chief Justice Rehnquist, relatore della majority opinion in Gratz e, non per nulla, dissenziente in Grutter).
Non sono mancate ulteriori occasioni onde rivedere i “fondamentali” di cui alla Bakke-Grutter line of cases (sarà agevole verificare come, in Students for Fair Admissions, Inc., la suprema magistratura federale si orienti per la soluzione estrema neutralizzando gli effetti di quei precedenti giusta il loro overruling tacito; ma di ciò a breve), in primis avendo a mente la, dilazionata nel tempo (cfr. Fisher v.University of Texas n. 1 del 2013 e Fisher v. University of Texas n. 2 del 2016), vicenda che nomina a protagonista Abigail Fisher. Lo Stato di residenza della nostra, il Texas, nel 1997 emanava una legge che imponeva all’Università ivi radicata, di accettare ex officio, quali neo-matricole, tutti quegli studenti che si collocassero nella top ten percent ad esito dei percorsi curricolari delle rispettive scuole medie superiori; nondimeno, constatando che tale paradigma non garantiva la multi-etnicità dell’utenza, l’Università del Texas emendava le sue admisison policies, fino a quel momento razzialmente neutre, significando che race mattered. Fisher, bianca, non facendo parte di quelle eccellenze, “gareggiava” in una con gli altri non-top ten percent in-State applicants (bianchi, neri, latino-americani, sino- e nippo-americani, nativi americani e via dicendo) riscontrando esito negativo per l’ammissione alla corrispondente freshman class (“coorte” del primo anno di studi). Inevitabile dolersene per l’ormai usuale, come rivendicata, violazione dell’Equal Protection Clause di cui al XIV° Emendamento; pur tuttavia né la corte di primo grado né quella di appello diedero soddisfazione incondizionata a Fisher. La Corte suprema, a sua volta, si arrestò in limine litis non scendendo in merita causae: essa, difatti, ritenne che, nel valutare la legittimità dell’evidenziato meccanismo selettivo, la Circuit Court (giudice di secondo grado) non avesse fatto riguardo, come avrebbe dovuto essere, allo strict scrutiny test bensì a verifiche meno esigenti (del genere, tanto per esemplificare, dell’intermediate scrutiny test di cui ci si avvale, a tacer d’altro, quando si muove a vagliare la fondatezza di classificazioni che discriminino sulla base del sesso, o del rational basis test, “operativo” in difetto di una qualsiasi suspect classification): in mancanza di detto vaglio di stretta necessità/proporzionalità non è dato assumere che le politiche revocate in dubbio da Fisher siano tali, laddove perfettamente commisurate, da soddisfare un interesse fondamentale dell’ordinamento (nella fattispecie la “pluri-dimensionalità” dei discenti) – così la majority opinion del giudice Anthony M. Kennedy. Significative le concurring opinions degli Associate Scalia e Thomas: il primo, ricordato che la Costituzione interdice qualsiasi classificazione discriminatoria fondata sulla razza (“benigna” o “maligna” che quella fosse), nondimeno rassegnava che, non avendo chiesto Abigail Fisher il superamento dei precedenti summenzionati, era giocoforza aderire alla holding di maggioranza; il secondo, oltre ad adeguarsi alla line of reasoning di cui a Justice Kennedy, nondimeno cautelava sul fatto che l’obiettivo di perseguire a diverse body of student in higher education non identificasse per nulla un interesse “necessario” (argomento pur tuttavia in egli già risalente a Grutter ed a Gratz). In esclusiva Justice Ginsburg, solitaria dissenziente, considerava significativo enfatizzare tout court l’appartenenza razziale, purché non rappresentasse un quid unicum di accesso privilegiato, tanto più laddove si meditasse come una politica overly inclusive fosse di certo meno “farisaica” di una che ne offuscasse l’impatto. Consequenziale l’annullamento con rinvio, per vizio procedurale, innanzi alla Corte di Appello (quella per il quinto Circuito, per amore della precisione) che, una volta di più, riconoscendo autonomia didattico/organizzativa alle strutture universitarie, attestava che l’utilizzo della razza era, nella vicenda oggetto di giudizio, strettamente commisurato all’obiettivo del perseguimento dell’interesse fondamentale più volte segnalato (la multi-etnicità del corpo discente). Nuovamente investita della quaestio da Abigail Fisher una Corte sempre più arroccata su “linee di displuvio” ormai consolidate (i cosiddetti liberal, nel dettaglio i giudici Breyer, Ginsburg e Sotomayor, questa volta maggioranza, da un lato; i conservatori, nella specie il Chief Justice Roberts e gli Associate Alito e Thomas dall’altro; in mezzo, ad elemento stabilizzante, il giudice Kennedy al quale, non per nulla, veniva rimessa la stesura della majority opinion. Per inciso va evidenziato che l’alto consesso decideva su base 7 e non su base 9 giacché Justice Kagan non aveva partecipato né alla discussione né alla risoluzione del caso laddove, in aggiunta, non si era ancora insediato il successore del giudice Scalia, inopinatamente defunto nel febbraio 2016). Nel giugno di quel medesimo anno, pertanto, la Corte “fratturata” di cui sopra chiosava che, rebus sic stantibus, l’Università del Texas aveva portato alla luce, con adeguata puntualità, una serie di obiettivi concreti in una alla ragionata giustificazione del farvi ricorso (altrimenti detto prefiggersi an ethnically diverse student body, nonché i benefici di riflesso ottenibili da ciò, figurava quale interesse “primario”) tanto più una volta notato che non era dato evincere alternative praticabili, e meno “costose”, onde raggiungere quel fine. Nella sua dissenting opinion Justice Thomas avvalorava il refrain stante cui l’Equal Protection Clause interdiceva categoricamente il ricorso a classificazioni a fondamento la razza nei processi ammissivi più volte descritti; Justice Alito, invece, oltre a ribadire cose ormai note, biasimava, e questo è un argomento nuovo ed intrigante, che la maggioranza, nella parte motiva del suo decisum, aveva prestato eccessiva condiscendenza alla volontà dell’ente universitario laddove quest’ultimo aveva ritenuto osservato, disponendosi in quel verso (tenere in debito conto la componente razziale), lo strict scrutiny test.
Ora, prima di giungere a Students for Fair Admissions, Inc. v. President and Fellows of Harvard College), è doveroso liberarsi da quanto supra rimasto in quiescenza ovvero l’incognita del numero ‘25’. Ad epilogo della majority opinion in Grutter Justice O’Connor scriveva (i marcatori enfatici sono nostri): “
Come già visto la Corte suprema non indugia più di tanto giacché, in data 29 giugno 2023, con Students for Fair Admissions, Inc. v. President and Fellows of Harvard College, viene ritenuto che le admission policies della Harvard University e della UNC violino l’Equal Protection Clause di cui al XIV° Emendamento alla Costituzione federale – trattasi di una decisione che, è facile pronosticarlo, identificherà una delle “pietre angolari” dei repertori giurisprudenziali USA (già le 237 pagine in cui essa si sviluppa, fra majority, concurring e dissenting opinions, ne è riprova tangibile). Ripercorriamone, di modo che, l’hardcore argomentativo, fra brevità di intenti ma doverosità di approfondimento. 1) Le Università non hanno a sufficienza impostato i propri programmi di ammissione fondati, tra l’altro, su racial classifications in modo da garantirne la “misurabilità”, ad opera delle corti, giusta il principio di stretta necessità/proporzionalità. Primo gli interessi che vengono elevati al novero di fondamentali non appaiono suscettibili di meaningful judicial review; deinde i plans di riferimento omettono di articolare un nesso di inter-relazione significativo fra mezzi impiegati e fini perseguiti. Onde assicurare la multi-etnicità più volte pretesa Harvard e North Carolina esaltano classi razziali od overinclusive od underinclusive – anche qui contenuti difficilmente misurabili onde perseguire l’obiettivo dichiarato. Nel controbattere questi rilievi le Università sembrano limitarsi a reclamare quell’accondiscendenza alle linee di conduzione della propria mission a cui sopra si è fatto cenno (“dovete fidarvi di Noi”): il che, se non può essere revocato in dubbio, deve nondimeno armonizzarsi con i principi costituzionali che qui rilevano (vedremo a breve che cosa il Chief Justice intenda con ciò); 2) il modus procedendi di Harvard e di North Carolina oppugna con due postulati evincibili da una meditata lettura del dettato costituzionale ovvero che l’utilizzo della razza, per quanto “benevolo” per un gruppo definito, non può che tradursi in una “malevolenza” per uno ulteriore (e ciò non è per nulla sottoscrivibile) e che, laddove e per quanto permissibile, la classificazione di specie non deve, pur tuttavia, imporsi quale stereotipo (mancata individualizzazione dei proponendi e loro de-umanizzazione alla luce dell’appartenenza a gruppi razziali omogenei – non sono DeShaun ma sono un afro-americano; non sono José ma sono un latino-americano; non sono Black Eagle bensì un nativo-americano, etc.); entrambi i vizi, a detta della Corte, si ravvisano nelle admission policies censurate; 3) queste ultime, infine, non soddisfano l’esigenza avvertita in Grutter di fissare un end point, quanto bene definito non è dato sapere ci si consenta di aggiungere, all’utilizzo della classificazione razziale. Gli atenei interessati, per vero, rispondono al suscitato interrogativo comunicando che si darà termine a quel meccanismo non appena gli obiettivi perseguiti (the educational benefits that flow from a racially diverse student body) si saranno, di fatto, realizzati a post scriptum assicurando che revisioni periodiche sull’utilità/necessità della classificazione razziale potranno ovviare alla mancata individuazione di una data precisa ad esaurimento – catch all clause che, ben difficilmente, si mostra in grado di tranquillizzare la Corte. Nihil novi sub sole, finora … ma, e qui si annida il salto di qualità, in cauda venenum (o dulcis in fundo), a seconda delle “latitudini” che si desiderano sottoscrivere. Sia quanto previsto da Harvard sia quanto apprestato dalla UNC difetta di ciò che or ora è stato illustrato ma “del pari, nulla, in questa opinione, dovrebbe essere costruito in modo tale da precludere ad ogni singolo ammittendo di discutere dell’impatto che la razza ha avuto sul suo modus vivendi, sia che essa sia stata motivo di discriminazione, fonte di ispirazione o quant’altro ancora … Nondimeno … le università non possono sponte sua dare inizio, mediante test di ingresso od equivalenti funzionali, ad un modulo del genere di ciò che, oggi, qualifichiamo illegale … Riconoscere un vantaggio ad uno studente che ha combattuto la discriminazione razziale, ad esempio, deve essere interlacciato al suo coraggio ed alla sua determinazione. E ancora: riconoscere un beneficio ad uno studente il cui tratto ereditario o la cui cultura ha motivato ad assumere il ruolo di leader o a conseguire un determinato obiettivo deve essere interlacciato alla sua abilità nel fornire margini di miglioramento alla realtà universitaria di frequentazione. Altrimenti detto, lo studente deve essere trattato per quello che è come individuo e non sulla base della sua appartenenza razziale. Molte università hanno, per troppo a lungo, agito nel verso opposto. E così motivandosi hanno concluso, erroneamente, che il quid proprium di ogni individuo non sta nelle avversità superate nel talento allenato o nelle lezioni imparate bensì nel colore della pelle. La nostra storia costituzionale non può tollerare un’opzione di tal fatta”. A bene assumere, quindi, le admission policies di Harvard e della UNC, e, più in generale, le affirmative actions vengono ostracizzate non tanto perché non esaudiscono la macchinosa, va riconosciuto, verifica di cui alla Bakke doctrine quanto piuttosto perché è la “nostra” (degli Stati Uniti d’America) Costituzione a ciò intimare. Sottotraccia, di riflesso ed inevitabilmente, l’overruling, a cui si allude ma che non si dichiara claris verbis, di Bakke di Grutter di Fisher (ecco forse perché, solo rapsodicamente ed in via diretta in una dissenting opinion, quella di Justice Sotomayor, si facciano così pochi accenni alla dinamica dello stare decisis ovvero al rispetto per il precedente vincolante).
Ma si è proprio sicuri che la “nostra storia costituzionale” (non la nostra Costituzione, si badi bene … la proverbiale cautela espressiva di Chief Justice Roberts) obblighi a quell’esito? Un esempio concreto, e drammatico, avvalora come race matters, eccome. Si mediti, a tale proposito, sulla machinery of death stante la quale gli USA provvedono a giustiziare coloro che possono intendersi come the worst amongst the worst, i non più riscattabili, ovvero coloro che si sono “macchiati” dei crimini più efferati e letali. I dati statistici insegnano che, dal 1977 [data di ripresa delle esecuzioni dopo la moratoria de jure del ricorso alla pena di morte di cui alla sentenza Furman v. Georgia e companion cases (1972) della Corte Suprema] ad oggi, sono stati privati, “legalmente”, della vita ben 1576 individui. Ammesso e non concesso che il fondamento penologico dell’extrema sanctio vada a ravvisarsi nella retribuzione ad ogni vita contra legem soppressa a ciò deve uniformarsi quanto ora detto: “occhio per occhio dente per dente” – logica cinica ma ineccepibile. Una lettura superficiale degli elenchi de quibus testimonia del fatto che i colored men ed i white men sono esecutati in percentuale pressoché sovrapponibile; pur tuttavia, ad una disamina più avveduta – se un bianco sottrae la vita di un nero “retributivamente”, per ogni evenienza di specie, si dovrebbe “compensare” giustiziando un equivalente razziale -, il dato statistico dovrebbe avvalorare l’equilibrio/omogeneità testé contrassegnato. Invece il risultato è sbalorditivo: in una prospettiva cross-sectional (campionamento trasversale) mentre i neri che uccidono bianchi che passano per le “camere della morte” sono 297 (di questi ben 110 si debbono alla “contabilità” texana) salvo errori ed/od omissioni i bianchi che uccidono neri, e che poi vengono uccisi a loro volta, assommano ‘solo’, si fa per dire, a 21 (un poco più di quattordici volte in meno). Di tal che delle due l’una: o i bianchi si tolgono la vita solo fra di loro – evenienza un poco difficile da accettare – oppure i death men walking si commisurano lungo odiose coordinate etno-razziali. Così fosse la “loro” storia costituzionale (John G. Roberts op. cit.) non solo tollera ma soprattutto giustifica che della razza si tenga debito conto; e “malignamente”, verrebbe da annotare. A fondamento dell’impostazione per cui race doesn’t matter si cela nondimeno un equivoco che risale al primo leading case che abbiamo indicato in questo contributo (gli usuali moti circolari …) ovverossia Plessy v. Ferguson. In quel frangente, nella sua nobile ed isolata dissenting opinion, il primo giudice Harlan così si esprimeva (le sottolineature sono nostre): “La razza bianca si ritiene dominante … E così è: con riguardo al prestigio, ai risultati, all’educazione, alla salute e nel potere; e così sarà ancora per molto tempo” [nella realtà di tutti i giorni] “… ma, stante il dettato costituzionale ed agli occhi della legge, in questa nazione non è dato ravvisare nessuna classe di cittadini o superiore o dominante. Non ci sono caste qui. La nostra Costituzione è color-blind ed essa, in nessuna sua particola, riconosce o tollera un sistema del genere. A proposito dei diritti civili tutti sono uguali dinnanzi alla legge. Il più umile vale come il più potente. La legge tratta l’uomo in quanto tale e non considera affatto le sue origini o il suo colore della pelle allorquando i diritti civili, come sanciti dalla legge fondamentale, id est la Costituzione, vengano ad essere oggetto di verifica …”. È lampante: Justice Harlan condanna vibratamente la discriminazione razziale ma da nessun rigo della sua “allocuzione” è dato evincere che egli deplori che si valorizzi la razza quale correttivo di una past, o di una actual, discrimination o che, nientemeno, laddove ciò accadesse, si versasse in un’ipotesi di reverse discrimination nei confronti della white population. La Costituzione degli USA, a bene riflettere, non è né color–blind né color–conscious ma tutte e due le cose a seconda delle occasioni: lo dice mirabilmente, certo in un contesto storico ben altro (siamo nel 1966: United States v. Jefferson County Board of Education – ancora una vicenda che inerisce al “sapere” latamente inteso, viene agevole registrare), un oscuro giudice di Circuit Court – per il quale giammai nome fu più appropriato, Judge Wisdom (per chi non lo sapesse in inglese ‘wisdom’ sta per ‘saggezza’). “La Costituzione è sia color–blind sia color–conscious. Onde evitare il contrasto con il principio di uguaglianza una classificazione che nega un beneficio, che provoca un danno o che impone un onere non deve fondarsi sull’impronta razziale. In questo senso la Costituzione è refrattaria alla razza (color–blind). A contrariis la Costituzione è permeabile alla razza (color–conscious) allorché volga ad impedire che le discriminazioni continuino a perpetuarsi o allorché volga a rimediare agli errori del passato”. Monito, purtroppo, oggi destinato a rimanere inascoltato; fatto più allarmante ancora, una volta censito che color–blindness, a livello simbolico, designa non tanto il ‘non vedere’ quanto, in luogo, il ‘non volere vedere’ (atteggiamento che la Corte suprema dell’oggi sembra ben propensa a favorire). Dispiace, al postutto, constatare come l’alta magistratura federale, al cui interno, tra l’altro, siede un giudice che ha osato qualificarsi come a perfect affirmative action baby (Sonia Sotomayor, non per nulla autrice di una corposa dissenting opinion di 69 pagine in Students for Fair Admissions, Inc.), abbia smarrito quel prezioso “filo di Arianna”.