La pronunzia di cui ad oggetto si fa carico di una vicenda in cui l’imputata, ritenuta responsabile ad esito di giudizio abbreviato, in prime ed in seconde cure, di una serie di furti aggravati, si doleva, fra l’altro, della ricezione acritica, ad opera del giudice di appello, delle conclusioni sottoscritte dal perito senza punto tenere in debita considerazione gli argomenti di cui al consulente tecnico di parte il quale, a differenza dell’esperto “officioso”, aveva finanche interloquito con l’autrice del reato (nel caso di specie si dibatteva sugli effetti che un’ipotetica cleptomania, riconducibile a quest’ultima, manifestasse sulla capacità di intendere e di volere). Sul presupposto che la cleptomania non identifica una malattia mentale bensì solo un disturbo del comportamento, il perito epilogava nel verso che quella poteva “impattare” sull’imputabilità in esclusiva laddove si riuscisse a dimostrare che il reato era stato mandato ad effetto giusta un impulso improvviso e non controllabile; muovendo a contrario il consulente tecnico di parte assumeva che, “a causa della diagnosticata cleptomania, la B. potesse essere anche per un tempo prolungato in condizioni psichiche di totale infermità per un crollo della volontà di natura psicopatologica”.

Facile, per il giudice di legittimità, “cassare” il motivo di ricorso. 1) Fu l’imputata, non mostrandosi collaborativa, a ripetutamente sottrarsi alla programmata visita adducendo un impedimento che, pur rendendo più difficoltoso recarsi in loco, di certo non rendeva impossibile “assolvere” quell’onere; 2) quand’anche l’esame clinico si fosse condotto, ciò non avrebbe potuto modificare “il quadro diagnostico emergente dalla copiosa documentazione medica acquisita”; 3) in sovrappiù le concrete modalità di realizzazione del factum sceleris (la prevenuta disponeva di un paio di forbici con le quali aveva provveduto a rimuovere gli strumenti anti-taccheggio; ella si era appropriata di capi di vestiario di notevole valore economico, onde soddisfare propri bisogni voluttuari, stante condotte “antagoniste” con una vis cui resisti non potest) deponevano per una “preordinazione incompatibile con un impulso incontrollato” tratto distintivo, quest’ultimo, della diagnosi di cleptomania. Venendone allora che la parte motiva della sentenza impugnata “è completa, non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità, tiene conto delle opposte tesi scientifiche e rende conto delle ragioni della decisione. Riconosce infatti che la B. è affetta da cleptomania, ma esclude che, nel caso concreto, tale patologia abbia influito sulla capacità di intendere e di volere, come è richiesto invece perché gli artt. 88 e 89 cod. pen. possano trovare applicazione”.

Al di là delle risultanze di cui all’illustrata tranche de vie e della loro accettabilità, quanto conclamato nella pronunzia di specie dissimula una vexata quaestio di cui al diritto processuale penale ovverosia il margine valutativo rimesso all’organo di jus dicere alla luce del “sapere esperto” acquisito a giudizio; altrimenti detto il “paradosso” giusta cui, attesa la necessità di specifiche competenze tecniche scientifiche o artistiche, il giudice, che non ne dispone (e laddove ne disponesse non se ne potrebbe nondimeno avvalere stante il divieto di “scienza privata”), venga ad “imporsi” quale cosiddetto peritus peritorum.

A grandi linee, dunque, ecco le coordinate disciplinari in questione. Le conoscenze scientifiche trovano ingresso nel rito penale per mezzo della perizia. Quest’ultima, in una alla consulenza tecnica, si inserisce nel più diffuso contesto della prova scientifica che si contraddistingue per tecniche, per metodi e per nozioni che esulano dal patrimonio conoscitivo dell’uomo medio, in un dato momento storico e in un dato contesto sociale. È bene ricordare che, sia anche l’organo di jus dicere in possesso di tali competenze specialistiche, esse non potranno essere utilizzate ai fini della decisione in virtù, come supra anticipato, del divieto di utilizzazione della scienza privata. La ratio di tale divieto «si armonizza senza difficoltà con quello che Alessandro Giuliani definisce l’ordine isonomico del processo, dove il contraddittorio delle parti ha carattere costitutivo del sapere del giudice, il cui ruolo, anche in termini etici, è quello del garante delle regole di dibattito

[…]: cosicchè non solo l’utilizzazione da parte sua di informazioni derivate da forme diverse (salvi sempre il notorio e le regole di esperienza, la cui cognizione è indispensabile ed ineliminabile), ma anche qualsiasi suo intervento attivo nell’indagine sul fatto equivalrebbe ad una intollerabile perversio ordinis». La nomina del perito è disciplinata dall’art. 221, comma 1, c.p.p., ivi prevedendosi che il giudice nomini l’esperto «scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina […]». Nello specifico il perito incaricato dal giudice come suo “consulente” deve risultare tra gli iscritti al dedicato albo e, solo in via strettamente sussidiaria, può essere liberamente individuato, motivando tale scelta, fra gli specialisti extra albo di peculiare competenza in materia. L’organo di jus dicere può cionondimeno affidare «l’espletamento della perizia a più persone quando le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero richiedono distinte conoscenze in differenti discipline» (cfr. art. 221, comma 2, c.p.p.).

Nell’ordinanza che dispone perizia viene indicata la data dell’udienza durante la quale, ex art. 226 c.p.p., accertate le generalità del perito e l’assenza di cause di incapacità e di incompatibilità nonché di astensione e di ricusazione come previste dagli artt. 222 e 223 c.p.p., l’esperto, dopo essere stato avvertito dal giudice degli «obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale […] [viene] invita[to] a rendere la seguente dichiarazione: «consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell’incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazione peritali». Ciò premesso quest’ultimo formula dunque i quesiti. In ottemperanza all’art. 227 c.p.p. laddove l’esperto, valutata la complessità della questione, ritenga di non potervi fornire immediata risposta può richiedere al giudice di stabilire un termine entro il quale concludere le proprie verifiche.

Il giudice può decidere circa la concessione o meno di un tale termine. Qualora dovesse esprimere parere contrario si dovrà provvedere alla sostituzione del perito; diversamente verrà fissata la data, non oltre i novanta giorni, nella quale il perito dovrà rispondere ai quesiti disponendo inoltre che essa venga comunicata alle parti e agli eventuali consulenti tecnici, a pena di nullità di ordine generale a regime intermedio, da dedursi prima della deliberazione della sentenza di primo grado. Il pubblico ministero, così come del resto l’imputato, può nominare consulenti tecnici in numero non superiore a quello dei periti. Nel caso di nomina del consulente tecnico in occasione di accertamenti peritali i consulenti delle parti possono assistere allo svolgimento delle operazioni peritali, proporre al perito di effettuare indagini specifiche,  formulare osservazioni e richieste. È utile ricordare che le parti possono nominare propri consulenti anche al di fuori di casi di perizia purchè ciò non comporti un ritardo nelle e delle attività processuali. Ove risultino necessari accertamenti particolarmente complessi il giudice, ricevuta istanza motivata del perito, può prorogare il termine per la risposta ai quesiti anche più volte, per periodi non superiori a trenta giorni, purché non venga superato il “tetto” massimo di sei mesi. Oltrepassata la data ultima, ai sensi dell’art. 231, comma 1, c.p.p., «il perito può essere sostituito se non fornisce il proprio parere […] o se la richiesta di proroga non è accolta ovvero se svolge negligentemente l’incarico affidatogli».

Una volta concluse le formalità proprie della fase di conferimento dell’incarico il perito, in conformità all’art. 227, comma 1, c.p.p., «procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale» e, quando ciò ritenga necessario, ex art. 227, comma 5, c.p.p., chiede autorizzazione al giudice di redigere in forma scritta la relazione de qua agitur. Per espletare la sua funzione è fondamentale che il perito possa “rendere” particolari operazioni ed esercitare una serie di poteri in quanto disciplinati dall’art. 228 c.p.p.: «1. Il perito procede alle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti. A tal fine può essere autorizzato dal giudice a prendere visione degli atti, dei documenti e delle cose prodotti dalle parti dei quali la legge prevede l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento. 2. Il perito può essere inoltre autorizzato ad assistere all’esame delle parti e all’assunzione di prove nonché a servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti apprezzamenti e valutazioni. 3. Qualora, ai fini dello svolgimento dell’incarico, il perito richieda notizie all’imputato, alla persona offesa o ad altre persone, gli elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell’accertamento peritale. 4. Quando le operazioni peritali si svolgono senza la presenza del giudice e sorgono questioni relative ai poteri del perito e ai limiti dell’incarico, la decisione è rimessa al giudice, senza che ciò importi sospensione delle operazioni stesse».

Il sapere scientifico utilizzato onde pervenire ad un giudizio circa la res iudicanda non dispone di una sua propria e specifica regolamentazione. Il codice di procedura penale, nondimeno, regola un istituto particolare, quello, giustappunto, della perizia, ammesso a processo ogniqualvolta occorra «svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche».

La perizia rappresenta una delle più importanti fonti di convincimento del giudice assumendo un ruolo di considerevole riguardo nello svolgersi del procedimento quale strumento funzionale a veicolare in ambito giudiziario le conoscenze specialistiche che esulano dall’ordinario sapere giuridico dei protagonisti del processo. L’organo di jus dicere può infatti richiedere l’ausilio di un esperto che, in virtù delle sue competenze tecniche, scientifiche o artistiche, può coadiuvare il giudice nell’acquisizione di elementi atti al raggiungimento di una decisione. Il legislatore, collocando la perizia nel “Libro terzo”, dedicato alle prove, al “titolo II”, relativo ai cosiddetti “mezzi di prova”, del codice di procedura penale, ha inteso riconoscere all’istituto di cui sopra una centrale funzione in riferimento al momento di formazione della prova pur presentando la perizia caratteristiche peculiari sia del “mezzo di prova” che di quello di “valutazione” dacché l’esperto rende un’indagine ad esito della quale esprime un giudizio scientifico, tecnico o artistico che configura la struttura di una prova critica, ossia una circostanza indiziaria, riferibile al fatto oggetto dell’imputazione.

Ai sensi dell’art. 220, comma 1, c.p.p.: «1. La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche». Dalla lettura del disposto risulta chiara l’intenzione di costringere la discrezionalità dell’autorità giudiziaria, nei limiti dell’accertamento di un presupposto puntualmente descritto, senza lasciarle, una volta effettuato tale accertamento, ulteriori margini di manovra: la formula verbale “è ammessa”, invero, suggerisce come, laddove, oltre alle generali condizioni per l’ammissibilità di ogni mezzo istruttorio (non illegittimità, non manifesta superfluità e non manifesta irrilevanza), entri in gioco la necessità dell’intervento  del “testimone esperto”, disporre la perizia sarà da considerarsi, per il giudice, un obbligo effettivo. L’istituto della perizia è topograficamente ravvisabile nell’impianto codicistico tra i mezzi di prova; sempre più frequentemente le parti del rito penale hanno necessità di ricorrere all’ausilio di strumenti e di pareri di carattere tecnico-scientifico. L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, almeno fino alla riforma dell’ordinamento penale del 1988, considerava la perizia quale mero strumento tecnico utile all’interpretazione ed alla risoluzione di profili che richiedevano particolari conoscenze in materie tecniche, scientifiche o artistiche. Si è nondimeno oggigiorno giunti al superamento della concezione di perizia intesa come strumento di valutazione di elementi di prova di fatto già acquisiti onde approdare al fatto che essa possa venire espletata per consentire l’acquisizione di nuovi dati conoscitivi con ciò qualificandola come “vero” e “proprio” mezzo di prova. Avvalendosi del “sapere” del professore Francesco Caprioli: «la vecchia concezione della perizia come strumento esclusivamente valutativo è superata e smentita dalla stessa lettera dell’art. 220, comma 1, c.p.p., che chiama in causa il perito non solo quando si tratti di compiere valutazioni, ma anche quando occorra “svolgere indagini” o “acquisire dati”». È dunque possibile identificare non solo il ruolo di perito «deducente», a cui è richiesto di interpretare dati cognitivi “provenienti” da operazioni probatorie precedentemente espletate, ma anche quello di esperto «percipiente» in quanto legittimato alla raccolta ed all’introduzione di nuovi elementi di prova. L’istituto costituisce, nevvero, un mezzo di prova “neutro”, non qualificabile né a carico né a discarico dell’imputato, e, pertanto, sottratto al potere dispositivo delle parti. Il giudice, inoltre, detiene sempre il potere-dovere di vagliare l’operato dell’esperto, come suggerito dal brocardo latino «iudex peritus peritorum», onde esaltare la necessità del controllo giudiziale sugli elementi di fatto posti a base della perizia così come sul metodo scientifico applicato e sulla coerenza logica delle conclusioni raggiunte.

Per quel che concerne i criteri di ammissibilità della perizia la dottrina è divisa in due principali orientamenti. Giusta il primo la perizia sarebbe destinataria della regola generale di cui all’art. 190, comma 1, c.p.p. («Le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti») a cui si assommerebbe poi il presupposto ad oggetto la «specificità delle competenze» necessarie all’acquisizione ed alla valutazione dei dati, come disciplinato dall’art. 220, comma 1, c.p.p., il che implica che l’accertamento tecnico si prospetti come “utile” ed “opportuno”. Il secondo orientamento, per converso, prevede che, in luogo dei criteri dettati dall’art. 190 c.p.p., si applichino direttamente quelli dell’art. 220, comma 1, identico codice di rito («La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche»), imperniato sulla finalità dell’accertamento tecnico il quale deve risultare utile a quest’ultimo (id est, al processo). Per il primo e prevalente indirizzo il giudice, applicati i criteri ex art. 190, comma 1, c.p.p. e verificata la necessità di ricorrere a specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, sarebbe “votato” ad ammettere la perizia prevedendo l’art. 220 c.p.p. un vero e proprio obbligo. Si assume, invero, che il dato testuale «quando occorre» sia da leggersi come «tutte le volte che si tratti di» e che l’ammissibilità della perizia sia da escludersi solo laddove l’accertamento risulti superfluo od irrilevante. Indi il dovere di disporre perizia è da ritenersi escluso qualora siano già stati raggiunti, per il “filtro” di mezzi di prova diversi, quali precedenti pareri tecnici e/o documenti medici ad esempio, i risultati a cui sarebbe potuta addivenire la perizia.

La valutazione delle considerazioni relative agli esiti peritali è rimessa al giudice ed al suo libero convincimento. Il giudice, dunque, in qualità di “peritus peritorum” ed in virtù del libero convincimento, non risulta con nettezza vincolato alle conclusioni a cui è giunto l’esperto. Ciononostante, qualora dovesse decidere di “allontanarsi” dalla risposta del suo consulente, egli è tenuto a motivare tale dissenso. Idem dicasi nell’evenienza di tesi contrapposte. In virtù di ciò il giudice di legittimità sarà al postutto chiamato a valutare se le motivazioni fornite nei precedenti gradi di giudizio siano sindacabili con riguardo non tanto all’esattezza o alla preferibilità dell’una o dell’altra tesi scientifica quanto alla intrinseca attendibilità logica dei presupposti, dei principi, delle massime di esperienza, della congruenza tra le premesse fattuali e le conclusioni che ne vengono tratte. Per consentire al giudice “tecnico del diritto” di vagliare la validità dell’operato del consulente sono stati elaborati schemi concettuali intesi a scrutinare la validità delle leggi scientifiche e delle tecnologie usate dall’esperto e la loro corretta applicazione, schemi e criteri che risultano di fondamentale importanza, anche e soprattutto, nell’evenienza di utilizzo di una “nuova prova scientifica”. L’ingresso a processo della cosiddetta “scienza nuova” è, non per nulla, ragione di controversie in dottrina.

Nihil sub sole novum, di modo che, la sentenza B. essendosi uniformata allo “stato dell’arte” dottrinale e giurisprudenziale, con tutte le perplessità e con tutte le criticità che un tale “affresco” potrebbe ingenerare. Innovativo, d’altro canto, un ulteriore profilo, sollevato dinnanzi a sé ex officio dal giudice di legittimità, non fosse altro giacché attiene a “parte” della disciplina introdotta con d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. Nel dettaglio un insieme di reati, fra cui quelli attribuiti alla ricorrente (cfr. art. 624, comma 3, c.p.), sono ora procedibili, nella loro forma non circostanziata, a querela di parte in luogo della antecedente procedibilità ex officio: a tale riguardo la disposizione transitoria ad hoc, come già “impressa” ex art. 85, comma 1, d. lgs. 150/2022, assume che “Per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima dell’entrata in vigore dello stesso,” (ora posticipata al 30 dicembre 2022: n.d.a.) “il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato”. Qui, astrattamente parlando, si dovrebbe allora verificare se la persona offesa, entro i termini stabiliti (tre mesi dalla data di entrata in vigore della riforma), abbia interposto querela e, nel caso di mancata proposizione della medesima, fare riguardo al limpido enunciato di cui all’art. 129, comma 1, c.p.p. venendone che, “[i]n ogni stato e grado del processo”, ove, fra l’altro, difetti una condizione di procedibilità, il giudice ciò evidenzi “di ufficio con sentenza”. Pur tuttavia questa lineare consequenzialità deve fare i conti con un sedimentato ordinamento giurisprudenziale giusta cui “l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che presuppone il pieno esercizio della giurisdizione. Non riveste, cioè, per quanto qui interessa, una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione” (così Cass. S.U., 21 giugno 2018, S.). In altri termini, se non si è formato un valido rapporto di impugnazione (precluso dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso come avvenuto nella vicenda che ci occupa), non è dato “scendere” in merita causae.

Ora, al di là delle situazioni di diritto intertemporale, la “sanzione processuale penale” dell’inammissibilità assume funzione di “asso pigliatutto”, “fenomeno” che vieppiù si espande nell’organigramma della riforma; e ciò sia a livello di dettato normativo che di “interpretazione pretoria”. Si mediti, ad esempio, sulle novità di cui ai commi 1-bis, 1-ter e 1-quater dell’art. 581 c.p.p. (1-bis. L’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione. 1-ter. Con l’atto d’impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena d’inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. 1-quater. Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore è depositato, a pena d’inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai  fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio) stante cui sono state moltiplicate ultra necessitatem evenienze “speciali” di inammissibilità, in primis avendosi riguardo al grado di appello, oppure sulle “tortuose” interlocuzioni fra quest’ultima e la controversa figura dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione come regolata ex art. 344-bis del codice di rito penale. Ed ancora, a livello giurisprudenziale, su questa recente massima: “È inammissibile l’appello correttamente depositato telematicamente (la sottolineatura è nostra) “le cui caratteristiche strutturali violino i requisiti di cui al provvedimento del Direttore Generale Sistemi Informatici e Automatizzati del 9 novembre 2020 poiché l’atto di impugnazione redatto nelle forme del documento analogico e solo successivamente trasformato per scansione in documento informatico, anche se munito di sottoscrizione digitale, perverrà nella cancelleria del Giudice solo come fotoriproduzione del contenuto e mai come originale che, al contrario, rimarrà nelle mani del soggetto che l’ha trasmesso” (Cass. pen., Sez. IV, 15 luglio 2022, P.G. in c. A.S.). Corrisponderà sì al vero, beninteso, assumere che l’ipertrofia riscontrata possa fungere da argine (da ‘controlimite’, rectius) a disinvolture semantiche come la vera e propria “evaporazione” del processo di cui all’art. 344-bis c.p.p.; cionondimeno “l’inammissibilità, come sempre, la soluzione” non tranquillizza sul rispetto dei postulati del giusto processo, e convenzionalmente (art. 6 CEDU) e costituzionalmente (art. 111 Cost.) fissati, come, invece, la pronunzia che ci occupa si premura di assicurare.