di Simone Ferrari ed Elisa Vernagallo
1) GUP Roma, 16 maggio 2017 (S.F.)
Un imputato è stato tratto a giudizio per il delitto di omicidio stradale e lesioni stradali plurime, per avere guidato un’autovettura in stato di ebbrezza e tamponato un autocarro, in tal modo provocando la morte di uno dei soggetti trasportati su quest’ultimo mezzo, nonché il ferimento di altro trasportato e del guidatore dello stesso.
Dagli atti emergono diversi elementi che potrebbero, all’esito del giudizio abbreviato, comportare l’attribuzione di responsabilità concorrenti con quelle dell’imputato: il guidatore dell’autocarro tamponato era a sua volta sotto l’effetto di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, sicché anche la sua condotta di guida potrebbe avere risentito di tale stato contribuendo al sinistro; il trasportato deceduto non indossava la cintura di sicurezza; il tratto di strada su cui è avvenuto il sinistro presentava illuminazione non funzionante.
L’accertamento di una o più di queste circostanze di fatto come concause del sinistro comporterebbe l’applicazione, in misura da valutare, della circostanza attenuante prevista dall’art. 589 bis, comma 7, con conseguente diminuzione della pena fino alla metà.
Tale diminuente, tuttavia, potrebbe operare solo sulla quantità di pena determinata ai sensi delle circostanze aggravanti previste dall’art. 589 bis, poiché l’art. 590 quater c.p. impedisce il bilanciamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti per il reato di omicidio stradale.
Nel caso in esame, sono state contestate nel capo di imputazione due circostanze aggravanti: l’aggravante di avere guidato in stato di ebbrezza (art. 589 bis, secondo comma) e quella di avere provocato la morte di una persona e lesioni personali ad altre due (art. 589 bis, ottavo comma).
In caso di condanna, qualora il giudice dovesse riconoscere sia la diminuente del concorso di colpa che una o più delle circostanze aggravanti contestate, dovrebbero essere applicati prima gli aumenti di pena previsti per le aggravanti e – solo dopo – la diminuzione di pena, stante il predetto divieto di bilanciamento delle circostanze.
È stato in questo modo esteso ai delitti di omicidio stradale e lesioni stradali il meccanismo di limitazione della discrezionalità del giudice penale nella valutazione degli aumenti e diminuzioni di pena, già introdotto nel nostro sistema penale in diverse occasioni negli ultimi anni.
Ora, l’art. 589 bis, settimo comma, prevede che “qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole, la pena è diminuita fino alla metà”.
Il legislatore ritiene dunque che l’autore della condotta che ha provocato l’evento morte debba essere assoggettato ad una pena diminuita, avendo altro conducente (sia egli il soggetto rimasto ucciso o un terzo) contribuito causalmente alla commissione dell’evento, perché a sua volta colpevole di violazione di norme generiche o specifiche.
Si tratta di una diminuente ad effetto speciale che può essere applicata in tutti i casi – che statisticamente si riscontrano nella maggior parte dei sinistri stradali – in cui entrambi i soggetti coinvolti abbiano violato norme generali o speciali e siano dunque “in colpa”, anche se in misura sensibilmente differente tra di loro.
Nel caso di concorso di colpa, la pena è diminuita “fino alla metà”, proprio per consentire al giudice di adeguare la sanzione al grado effettivo di colpa dell’imputato rispetto al fatto contestato.
Conseguentemente, la pena prevista dall’art. 589 bis, primo comma (da 2 a 7 anni), diventa punibile con una pena minima di un anno, quella del secondo comma (8-12 anni) con una pena minima di 4 anni e quella del quarto comma (5-10 anni) con una pena minima di due anni e sei mesi.
Ma, operando anche l’aumento delle circostanze aggravanti, tale diminuzione non potrà avere effetto se non partendo dalla fattispecie aggravata, stante il divieto di bilanciamento delle circostanze.
Ne deriva che il riconoscimento da parte del giudice della circostanza aggravante prevista dall’art. 589 bis, secondo comma, comporta una pena edittale minima di otto anni di reclusione, diminuita ai sensi dell’art. 589 bis, settimo comma, in caso di riconoscimento di concorso di colpa, a quattro anni di reclusione.
Laddove invece non operasse tale divieto e si potesse procedere al bilanciamento delle circostanze secondo la regola generale prevista dall’art. 69 c.p., in caso di prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 589 bis, settimo comma, c.p., il giudice dovrebbe operare la diminuzione “fino alla metà” sulla pena prevista per il delitto-base dall’art. 589 bis, primo comma, c.p. e dunque dal minimo edittale di due anni di reclusione si scenderebbe ad un anno di reclusione.
Per effetto della norma in discussione (590 quater), l’imputato subisce un aumento della cornice edittale pari al quadruplo, senza contare l’eventuale ulteriore aumento di pena per l’altra aggravante contestata (pluralità di eventi lesivi), che può comportare un ulteriore aumento di pena “fino al triplo”: in ipotesi, dagli otto anni si passerebbe ad un minimo edittale di ventiquattro anni, da diminuire per effetto dell’attenuante a dodici anni di reclusione come pena minima, pari al sestuplo della pena minima applicabile se non esistesse il divieto di bilanciamento delle circostanze che si assume illegittimo.
I predetti aumenti appaiono irragionevoli ed arbitrari, e violano il criterio di proporzione tra le fattispecie previste dalla norma penale in esame.
Sottrarre al giudice la possibilità di valutare nel caso concreto la prevalenza della diminuente rispetto alle aggravanti potrebbe comportare infatti un aumento sproporzionato di pena anche nel caso di percentuale minima di colpa dell’imputato.
In sostanza, la pena da irrogare subisce un aumento esorbitante ed inevitabile solo per effetto dello stato di ebbrezza e non in relazione al contributo causale dato dall’evento: in tal modo, il legislatore mostra di dare allo stato di ebbrezza un valore che prescinde del tutto dall’effettiva incidenza di tale stato nella causazione della morte della vittima del sinistro.
Tale profilo di irragionevolezza sembra diretta conseguenza del fatto che la norma dell’art. 590 quater del codice penale è l’unica in cui sia previsto il divieto di bilanciamento di circostanze per delitti colposi.
Ulteriore profilo di irragionevolezza della norma in esame discende dalla comparazione fra l’omicidio stradale e l’omicidio colposo previsto dall’art. 589 del codice penale.
Fino all’emanazione della L. n. 41 del 2016, l’omicidio commesso con violazione delle regole del codice della strada era inserito come circostanza aggravante nel corpus dell’omicidio colposo.
Ciò dimostra che non vi è alcuna sostanziale differenza tra l’ipotesi “speciale” di omicidio colposo oggi disciplinata dall’art. 589 bis e le altre forme di omicidio colposo rimaste ancorate al parametro dell’art. 589 del codice penale.
Ed allora non appare rispondente a criteri di equità che per un’ipotesi di omicidio colposo non stradale aggravato (si pensi ad alcune allarmanti ipotesi di colpa medica o agli infortuni sul lavoro) si possa, attraverso il bilanciamento delle circostanze, scendere ad una pena minima di sei mesi di reclusione mentre per l’omicidio stradale aggravato debba partirsi dal minimo edittale di quattro anni di reclusione.
Contrasta cioè con i criteri di proporzione e uguaglianza della pena che il medesimo evento di reato subisca nelle due ipotesi un trattamento sanzionatorio così diversificato.
Ulteriori spunti in tal senso giungono da una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 236/2016) in tema di alterazione di stato (art. 567 del codice penale).
Secondo la sentenza in esame, una pena eccessiva lede il principio di rieducazione della pena, qualora non sia proporzionata al reale disvalore della condotta punita, ed è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.
Ricorda infatti la Corte che l’art. 3 della Costituzione esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalità, nel campo del diritto penale, conduce a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni (sentenze n. 341/1994 e n. 409/1989).
Nello stesso senso, l’art. 49, numero 3), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a tenore del quale “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”.
Laddove dunque – sottolinea ancora la Corte – la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68/2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa.
In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una violazione congiunta degli articoli 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 68/2012, che richiama le sentenze n. 341/1994 e n. 343/1993).
Pertanto, il GUP ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 590 quater c.p. in relazione agli articoli 3, 25 comma 2 e 27 della Costituzione, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza e/o equivalenza dell’attenuante speciale prevista dall’art. 589 bis, comma 7, del codice penale.
2) Il reato di omicidio stradale: un bisogno di giustizia e non di vendetta (E.V.)
Con Legge 23 marzo 2016 n. 41, è stato introdotto in Italia il reato di omicidio stradale. Fino ad allora, il cagionare per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale veniva punito ex art. 589 c.p. (omicidio colposo).
L’omicidio stradale è oggi un reato autonomo (speciale rispetto all’omicidio colposo) e non più una circostanza aggravante.
In particolare, il primo comma dell’art. 589 bis c.p. punisce con la reclusione da due a sette anni chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale.
Il secondo comma prevede poi un’aggravante per chi, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, cagioni per colpa la morte di una persona (reclusione da otto a dodici anni).
Siamo dunque in presenza di un reato colposo e, a tal proposito, è utile richiamare la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, rifacendoci alla recente Cass. pen., Sez. I, n. 18220/2015 (fattispecie in cui la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per omicidio doloso pronunciata in relazione alla condotta dell’imputato, il quale, in stato di ebbrezza, aveva viaggiato contro mano in autostrada, provocando così la collisione con altra auto e, per l’effetto, sia il ferimento del conducente sia il decesso immediato dei quattro trasportati, affinché la corte territoriale enucleasse, con maggiore precisione e valutandone analiticamente gli indicatori sintomatici, l’elemento soggettivo del reato).
In sostanza, in tema di elemento soggettivo, sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente, quando l’agente si sia rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento e si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente accettato, della propria azione, in modo tale che, sul piano del giudizio controfattuale, possa concludersi che egli non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento medesimo.
Più in dettaglio, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa, e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank) (Cass. pen., Sez. VI, n. 22065/2015).
Così è intervenuta la Legge n. 41 che, preso atto dell’orientamento giurisprudenziale predetto, ha inasprito le sanzioni penali e amministrative accessorie per gli omicidi stradali.