di Simone Ferrari

Il GUP di Arezzo dichiarava non luogo a procedere nei confronti di T.L., P.A., MA.Ch., N.B. e S.G., imputati, il primo, di falso ideologico in atto pubblico e di omessa denuncia, gli altri, di violenza privata in concorso fra loro e, la sola P., anche di falso per soppressione.

I fatti contestati si riferiscono allo svolgimento, presso un istituto scolastico, di un periodo di osservazione clinica degli alunni della seconda elementare da parte della psicologa dell’istituto, dott.ssa Ma., venendo la stessa incaricata di esaminare, durante le lezioni, per un periodo complessivo di circa due mesi e con cadenza di due ore settimanali, il comportamento dei minori.

Tale attività era stata richiesta da due insegnanti della classe, N. e S., ed autorizzata dal Dirigente scolastico di allora, P.A., senza dare alcuna comunicazione alle famiglie e senza il preventivo consenso dei genitori degli alunni. All’esito dell’osservazione, la dr.ssa Ma. aveva stilato una relazione clinica, dedicando una parte specifica a L.C., in quanto alunno con problematiche comportamentali, ed esprimendo peraltro la necessità di segnalare la situazione ai genitori del bambino. La relazione era stata consegnata agli insegnanti N. e S. e alla DS P., la quale aveva omesso di protocollarla e, all’insediamento del nuovo Dirigente, T.L., gliela aveva consegnata.

I genitori del minore erano venuti a conoscenza della relazione solo a fine anno scolastico, durante un colloquio con la N. e, a seguito di molteplici richieste di accesso a tutta la documentazione scolastica relativa al figlio mai evase, avevano ricevuto una lettera di risposta in cui il nuovo DS T. comunicava di aver inviato tutti i documenti e che altri atti, eventualmente esistenti, in quanto non protocollati erano da ritenersi nulli o irrilevanti. La relazione era stata infine consegnata dal T. solo a seguito di decreto di esibizione della Procura della Repubblica.

Venivano, quindi, contestati ai soggetti interessati i seguenti capi d’imputazione: al T., in qualità di Dirigente scolastico, il reato ex art. 479 c.p. per aver attestato il falso nella lettera, nonché l’art. 361 c.p., per aver omesso di denunciare il reato di occultamento compiuto dall’ex DS; alla P., anch’essa quale DS, il delitto ex art. 490 c.p. per aver occultato la relazione senza protocollarla; a P., Ma., N. e S. l’art. 610 c.p. per aver sottoposto i minori ad osservazione psicologica senza il consenso dei genitori.

Ad avviso del GUP non è configurabile il delitto di violenza privata, da un lato, in quanto l’attività svolta dalla dr.ssa Ma., ossia l’osservazione dei minori durante le ore di lezione, non si sarebbe sostanziata in atti impositivi riconducibili alla fattispecie tipica della violenza privata, dall’altro, in quanto il mancato consenso dei genitori non può essere equiparato al dissenso richiesto dalla norma incriminatrice.

Proponevano ricorso le parti civili, L.G. e M.S., sia in proprio sia quali esercenti la patria potestà sul figlio minore L.C.

Al riguardo, la Corte Suprema ha spiegato che nel delitto di violenza privata è tutelata la libertà psichica dell’individuo e la fattispecie criminosa ha carattere generico e sussidiario rispetto ad altre figure criminose in cui la violenza alle persone sia elemento costitutivo del reato, sicché reprime genericamente fatti di coercizione non espressamente considerati da altre norme di legge.

Il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione della parte offesa (v. Cass. pen., Sez. V, n. 11522/2009, che ha definito la nozione di libertà morale nel senso che debba intendersi come libertà di determinarsi spontaneamente secondo motivi propri, sicché alla libertà morale va ricondotta sia la facoltà di formare liberamente la propria volontà, sia quella di orientare i propri comportamenti in conformità delle determinazioni liberamente prese).

Tale principio trova rispondenza in altre pronunce della Cassazione, secondo cui l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (v. Cass. pen., Sez. V, n. 4284/2016).

Nella sentenza del GUP di Arezzo si fa riferimento alla pronuncia della Cassazione che ha così affermato: «integra il reato di violenza privata la condotta di chi, abusando della sua qualità di insegnante di sostegno ed approfittando dello stato di soggezione e di incapacità di un minore portatore di handicap, costringa questi, senza autorizzazione del genitore, a subire un taglio di capelli» (Cass. pen., Sez. V, n. 13538/2015).

Si è sostenuto, in tale pronuncia, che la violenza è consistita nell’approfittamento dello stato di soggezione e di incapacità e nell’aver voluto ignorare l’implicito dissenso della madre del bambino, la quale si era riservata di attuare o far effettuare tale operazione nel momento più propizio e con gli accorgimenti più opportuni, per non turbare il delicato equilibrio psichico del minore.

Si può dunque affermare che l’assenza di un esplicito consenso da parte di chi sia legittimato a prestarlo, nel nostro caso i genitori del minore, integri una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.

Va, altresì, ricordata la pronuncia che ha ritenuto la configurabilità del reato in discorso in un caso in cui era stata introdotta una telecamera sotto la porta di un bagno, situato in una piscina pubblica, in posizione tale da poter riprendere le persone che ivi si recavano, rilevando che «la condotta dell’agente è stata consapevolmente e deliberatamente posta in essere contro il dissenso ragionevolmente prevedibile e solo successivamente manifestato dalla persona offesa» (Cass. pen., Sez. V, n. 28174/2015).

In sostanza, il mancato consenso espresso dai genitori dei minori sottoposti ad osservazione, mai informati dell’attività che sarebbe stata posta in essere riguardo ai loro figli, avrebbe potuto essere interpretato come dissenso.

Sotto altro profilo, v’è da chiedersi se l’attività di osservazione psicologica effettuata dalla dr.ssa Ma. nei confronti dei minori abbia avuto carattere impositivo o, in qualche modo, incisivo della sfera materiale e psichica dei bambini.

Il GUP afferma che l’attività della psicologa consisteva in un’osservazione dei comportamenti tenuti dai bambini durante le ore di lezione al fine di suggerire un indirizzo pedagogico ai docenti, mentre, al contrario, la difesa sostiene che oggetto dell’osservazione erano le condotte di alcuni bambini, che presentavano particolari problematicità, al fine di suggerire interventi mirati.

Se nella prima ipotesi, in cui la psicologa avrebbe avuto il ruolo di “consulente” della maestra per suggerirle indirizzi didattici, non involgendo, quindi, in alcun modo i comportamenti degli alunni, si potrebbe escludere che l’attività di osservazione potesse interferire nella sfera personale degli alunni e di conseguenza necessitare del preventivo consenso dei genitori, non altrettanto può dirsi se oggetto dell’osservazione erano proprio i comportamenti degli alunni, e ancor di più di alcuni degli alunni ritenuti portatori di problematiche.

In questo secondo caso, a prescindere dal fatto che siano stati o meno somministrati test o che le lezioni siano state specificamente modulate, non vi è dubbio che l’osservazione delle condotte in classe, al fine di trarne elementi per formare una valutazione degli alunni sotto il profilo comportamentale e prendere ulteriori provvedimenti, rappresentava un’invasione delle sfere personali degli alunni che, come tale, necessitava del preventivo consenso.

Pertanto, la Corte Suprema ha annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame.