Il tempo scorre in maniera inesorabile e costante, avvengono fatti strani, apparentemente di semplice risoluzione ma spesso lasciati dormienti, irrisolti o travisati. Sui social network e sulle pagine si leggono dichiarazioni aberranti, anche la stampa spesso si lascia trasportare dalla foga di fare audience e pur di guadagnare un click tende a far trapelare verosimiglianze o parziali verità, figlie di una generazione distratta dalle apparenze di una rete spesso inopportuna e infame.

L’Italia ha vissuto e vive ancora momenti di anomalia dettati probabilmente da corporazioni interne, da retaggi del passato o da parvenze di legalità, e dietro tutto questo c’è un popolo che soffre, e vuole capire ciò che è vero e ciò che è costruito, c’è un popolo che si unisce e vuole risorgere nella legalità per osannare la libertà, la giustizia e per creare un mondo libero da vincoli di potere e di oscurantismo che creano soprusi e disagio sociale.
La soluzione del problema risiede in ognuno di noi, nella legge morale che si pone a fondamento di ogni uomo e che rappresenta l’unica ancora di correttezza per una giusta esaltazione del bene comune.

Oggi vorrei analizzare brevemente una storia iniziata il 22 ottobre 2009 e non ancora terminata. Parliamo di Stefano Cucchi, un uomo, una persona, un cittadino italiano che dal giorno della sua morte non trova giustizia, pace e verità. Sono passati 9 anni da quel brutto giorno e tanti processi a carico dei protagonisti di questa vicenda, ma ancora oggi non ci sono certezze sulla causa che ha provocato la morte del giovane romano.

Stefano Cucchi venne arrestato il 15 ottobre 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportarono in caserma con loro e lo rinchiusero in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, all’udienza del processo per direttissima, Stefano aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti arrossamenti simili ad ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice convalidò l’arresto e fissò una nuova udienza per la trattazione nel merito. Nell’attesa, Stefano Cucchi venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, luogo in cui le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17 ottobre, venne trasportato all’Ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto era chiaro: “lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale“. Venne chiesto il ricovero, ma Stefano rifiutò insistentemente e venne rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’Ospedale Sandro Pertini, luogo in cui morì il 22 ottobre 2009. Al momento del decesso il corpo pesava meno di 40 chili e presentava evidenti segni di percosse. Da quel punto presero il via le indagini per comprendere la vera storia di questo ragazzo. Ad oggi, gli unici imputati definitivamente assolti sono gli agenti della polizia penitenziaria.

Tra i numerosissimi scritti realizzati su questo caso risulta molto interessante l’opinione della dott.ssa Maria Porciello (giovane criminologa) la quale, lavorando sulla documentazione del caso, attraverso un’attività di indagine si è soffermata sui diversi aspetti processuali, contestando le risultanze probatorie acquisite al processo già celebrato e divenuto ormai definitivo. In particolare, la dottoressa si è soffermata sulla relazione del pool guidato dal Prof. Arbarello e, avallando la tesi del Prof. Masciocchi, è giunta alla conclusione che la terza vertebra lombare di Stefano era stata esclusa dagli esami e dalle valutazioni del collegio dei periti nominati dalla Corte d’assise (l’accertamento era stato eseguito su un reperto costituito dalla porzione più bassa di L3 e dalla quarta e quinta vertebra lombare in connessione anatomica, mentre non è stato esteso alla porzione prossimale, quella più alta, della vertebra, dove era presente la frattura), affermando perciò che sarebbe potuto sussistere un nesso causale tra le lesioni provocate e la morte di Stefano; perché è impossibile negare la presenza delle lesioni e quindi di un danno fisico che deriva da un’azione altrui. Tale conclusione risulta molto interessante alla luce delle ultime vicissitudini legate al caso in analisi, anche se non è stata considerata all’interno del processo ormai divenuto definitivo, posto che tutti gli imputati ne sono usciti assolti, ma ha un valore importante in relazione all’instaurato processo penale bis che sta prendendo, come detto, le mosse in questo periodo.

Nel primo processo i giudici hanno ritenuto gli agenti di polizia penitenziaria non responsabili del violento pestaggio subito da Cucchi, sostenendo l’esigenza di ricercare la verità altrove. È importante sottolineare, dunque, che con l’assoluzione degli agenti di polizia penitenziaria non può che collocarsi il pestaggio di Cucchi nel periodo di permanenza sotto la custodia dei medici e infermieri o dei carabinieri finiti nell’inchiesta bis, accusati di lesioni personali e abuso di autorità, e di falsa testimonianza finalizzata a coprire le presunte responsabilità di colleghi; ma prima di trarre conclusioni affrettate sarà opportuno attendere l’esito dei processi in atto.
Nei mesi scorsi ha avuto luogo l’incidente probatorio in relazione all’inchiesta bis, da cui è emersa – e ormai commentata su tutte le riviste – la nuova perizia sulla morte di Stefano Cucchi.

I periti di questa seconda inchiesta avevano il compito di stabilire “la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi“. La perizia conferma che ci sono state fratture e che l’epilessia potrebbe essere stata la conseguenza delle lesioni, elemento che per la prima volta viene evidenziato nell’impianto probatorio e che risuona in questa vicenda in maniera prorompente.

Nelle conclusioni della perizia si evidenziano due ipotesi: la prima legata ad un attacco epilettico probabilmente indotto dalle lesioni e la seconda che il decesso sia avvenuto a causa della “documentata abnorme dilatazione di una vescica neurogenica atonica, secondaria alla frattura traversa di S4 (vertebra sacrale)”. Al tempo stesso i periti ritengono “che se il soggetto fosse stato adeguatamente sorvegliato e sottoposto a monitoraggio infermieristico, con controllo della diuresi, la dilatazione vescicale, del tutto attendibile, non si sarebbe verificata”.

Tali risultanze sono sconvolgenti! I periti sostengono che questa dilatazione abnorme della vescica, che avrebbe potuto portare a “morte improvvisa e inaspettata” non si sarebbe verificata se il paziente fosse stato correttamente sottoposto a interventi medici. Così facendo si ritorna a discutere della responsabilità degli infermieri e dei medici che hanno avuto in cura Stefano, di cui è già partito un nuovo processo dinnanzi la II sezione della Corte d’assise d’appello capitolina, presieduta dal dott. Tommaso Picazio. Gli imputati, Aldo Fierro (primario del Pertini), Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, inizialmente portati a processo per l’accusa di abbandono d’incapace, furono condannati in primo grado nel giugno 2013 per omicidio colposo. Fu la prima Corte d’assise d’appello, nell’ottobre 2014, a ribaltare poi la sentenza, mandandoli assolti. La Cassazione intervenne una prima volta nel dicembre 2015, rimandando indietro il processo a nuovi giudici. E la terza sezione della Corte d’assise d’appello, nel luglio 2016, confermò quell’assoluzione. Si instaurò così un nuovo processo davanti alla Suprema Corte di Cassazione, in cui gli ermellini nell’aprile dello scorso anno rinviarono nuovamente ad altri giudici il carteggio processuale. Adesso, la celebrazione di un nuovo giudizio d’appello che, per il reato contestato, ha già maturato la prescrizione.

Sono molteplici le anomalie che caratterizzano il caso e probabilmente non tutti i responsabili di questa vicenda saranno ritenuti tali ma una cosa è certa, il caso è aperto e tutto è ancora in discussione. Spesso le verità processuali impediscono di costruire in maniera perfetta la verità storica, ma bisogna avere fiducia nei confronti di chi indaga e di chi giudica, con la speranza che possa addivenirsi ad un giudizio convinto e scientificamente valido.

La suddetta perizia  ha evidenziato il riconoscimento di una duplice frattura della colonna vertebrale e del globo vescicale che ha fermato il cuore di Stefano. Con un documento così, il “nuovo” processo potrà avere dei risvolti penalmente rilevanti e potrà dare giustizia ad un povero ragazzo che non poteva ribellarsi a chi era più forte di lui.

Nel frattempo il processo bis risuona prorompente nelle aule di giustizia. Il caso “Cucchi” è noto e ormai conosciuto da tutti, ma ripetuto in un’aula di Tribunale davanti ai giudici della Corte d’assise colpisce per l’essenzialità di quello che mostra. “Quando ho visto Stefano la prima volta stava ‘acciaccato’, era gonfio come una zampogna, aveva ematomi sul viso e sugli zigomi, era viola, perdeva sangue da un orecchio, non parlava bene e non riusciva neanche a deglutire. Quando gli ho visto la schiena sembrava uno scheletro, un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz” ha dichiarato il teste Luigi Lainà, ascoltato pochi giorni fa al processo bis. Per questa vicenda tre carabinieri, Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco sono accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. Il teste Lainà, detenuto anche lui nel carcere romano, incontrò Cucchi nella notte tra il 16 e il 17 ottobre nel Centro clinico del penitenziario. “Mi disse che si erano ‘divertiti’ con lui perché volevano farlo parlare, volevano sapere della provenienza della droga ma lui non parlò, non volle fare la spia. E per questo secondo me è stato un grande”. In particolare, Stefano gli disse di essere stato picchiato da due carabinieri in borghese nella prima caserma in cui venne portato dopo l’arresto e che poi arrivò un altro carabiniere in divisa che disse ai due colleghi di smetterla. Lainà quindi avvertì il dottore del centro clinico, Pellegrino Petillo, che dopo aver visto le condizioni di Cucchi decise di mandarlo in ospedale. “Noi detenuti sbagliamo e per questo paghiamo col carcere – ha concluso Lainà – ma nessuno ha diritto di pestarci”.

Sarà un processo intenso e pieno di problematiche in cui accusa e difesa remeranno in maniera sinergica per accompagnare il giudice ad una decisione esemplare che possa mettere la parola fine su questa storia e possa dare dignità alla giustizia che, seppure aspira ad un concetto metafisico, è un fenomeno umano e gestito da uomini, vincolati dalle norme e, come detto, da una legge morale interiore.

Un’ultima riflessione non può che riferirsi ad ognuno di noi, che siamo parte di un’Italia a due facce, di un Paese meraviglioso che purtroppo strumentalizza quasi tutto, anche una vicenda drammatica come quella di Stefano. In questa triste storia non si può tifare per una parte, bisogna tifare insieme per la giustizia e per la verità, perché la morte di un giovane in custodia alle forze dell’ordine non può essere una questione di affezione. A volte sarebbe preferibile tacere e stare a guardare al posto di reiterare quelle lesioni sul corpo di un nostro amico. Giustizia per Stefano Cucchi.