Occorre premettere che la vittimologia è la branca che si propone di stabilire l’incidenza della vittima, per ciò che essa è o per ciò che essa fa, nella genesi e nella dinamica del delitto; rappresenta una feconda prospettiva per individuare sia la reale responsabilità e la pericolosità del delinquente, sia i mezzi di prevenzione della vittimizzazione e della recidiva vittimale, e, quindi, per una più efficace difesa sociale e prevenzione criminale.
Scriveva provocatoriamente Versele (1962) che “compiuto il delitto, la vittima non pone alcun problema: basta seppellirla”; troppo poco si è infatti approfondito il rapporto di tensione fra reo e vittima, nonostante già nel lontano 1887 Garofalo si fosse speso per un’indennità alle vittime dei delitti: “essa avrebbe diritto per certo a maggiori simpatie che la classe dei delinquenti, i quali sembrano oggi il principale oggetto della sollecitudine dei nostri legislatori. Se la prima ragione di esistenza dello Stato è la tutela dei diritti dei cittadini, sembra che quando questa tutela riuscì vana, esso debba pur fare qualche cosa per riparare il male che non seppe impedire, benché appunto per impedirlo esso prelevi le imposte e limiti in tanti diversi modi la libertà individuale”.
Segnatamente, un soggetto può diventare vittima non soltanto per circostanze del tutto occasionali o fortuite (non ha cioè avuto alcuna incidenza nella sua scelta come soggetto passivo), ma anche per le sue predisposizioni vittimali (che invece incidono sulla sua scelta come vittima, determinando o rafforzando il proposito criminoso). Del resto, le possibilità di vittimazione sono direttamente proporzionali all’infungibilità del soggetto, mentre la pericolosità del delinquente è direttamente proporzionale alla fungibilità della vittima.
La vittimologia dovrebbe pertanto portare a considerare, nell’ambito dei criteri per l’accertamento della capacità a delinquere e della pericolosità sociale, anche il ruolo della vittima nella motivazione al delitto.
Peraltro essa fornisce importanti contributi nell’investigazione criminale, nello studio dei danni sofferti dalla vittima del reato (non solo i danni patrimoniali ma altresì quelli psichici) e delle tecniche psicoterapeutiche per rimuoverli, oltre che nello studio delle misure atte a conferire un’adeguata soggettività processuale alla vittima del reato.
Una rudimentale inchiesta vittimologica si rinviene già in un trattato del 1643 (Il Giudice Criminalista), ove l’Autore (A.M. Cospi) raccomanda al magistrato inquirente, fra le “diligenze da farsi nella visita” (“sopralluogo”) “se vi saranno parenti del morto, si esaminino succintamente pigliando da loro quella informazione, che si potrà, e non vi essendo, piglisi informazione da’ vicini, dal Sindaco, da Messi del luogo: particolarmente, che gente sieno i vicini, se nemici del morto, o donne di mala vita con le quali il morto avesse avuto commerzio, o fanciulle con chi facesse all’amore: se avesse rivali, e chi fossero: se gente da far risentimento: e se per cagione di dette donne altre volte avevano avuto risse, o parole altercatorie. Se avesse avuto lite civile con alcuno, e di che importanza”.
Se il ruolo della vittima può essere rilevante (talora determinante) nella criminogenesi, va altresì sottolineata l’importanza che i dati sulla persona offesa rivestono, sia per una corretta interpretazione delle dinamiche del delitto, sia come ausilio per la ricostruzione del profilo criminologico del responsabile, considerate le interazioni fra vittima e reo: su tale consapevolezza si fonda un nuovo approccio metodologico, denominato vittimologia investigativa o vittimalistica (P. Martucci, La vittimologia investigativa. Lineamenti teorici e prospettive applicative, Key, 2018).
In criminalistica (che è l’applicazione della scienza nella soluzione dei crimini: ricordiamo specialmente il Manuale di scienze criminali per magistrati inquirenti – Hans Gross, 1893), i contributi dei vittimologi sono utilizzati nel corso delle indagini: si pensi alle tecniche di profiling, impiegate per ricostruire l’identità del criminale partendo dalle caratteristiche della vittima (il pensiero corre a David Canter). L’archetipo letterario del criminal profiling si ritrova nel personaggio di Sherlock Holmes e nel suo metodo deduttivo; del resto, l’importanza dell’esame della vittima per l’investigazione sul reato è stata ben intesa dall’intuito dei romanzieri prima ancora che dai criminologi (si rilegga, in questa prospettiva, Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij).
Occorre, in dettaglio, distinguere la vittima non sopravvissuta al reato, dalla vittima sopravvissuta. Nel primo caso è possibile ricorrere all’autopsia psicologica, vale a dire alla ricostruzione retrospettiva dello stato mentale, della vita, dell’ambiente, della personalità di un soggetto scomparso per comprendere in che misura le condizioni psicologiche dello stesso possono aver svolto un ruolo nella genesi dei fatti che ne hanno determinato la morte, anche al fine di chiarire la causa che l’ha provocata (il quadro personologico ed esistenziale della vittima va inteso in senso dinamico – non limitato ai tratti caratteriali di base, ma esteso alle emozioni, ai desideri, alle paure, ai comportamenti sia consuetudinari che anomali, alle relazioni interpersonali – ed una speciale attenzione va posta al periodo di tempo immediatamente precedente al decesso). Nel secondo caso, diventa invece centrale la psicologia della testimonianza (la psicologia investigativa si occupa, in quest’ottica, della ricostruzione dei fatti di reato, della comprensione delle motivazioni e delle dinamiche relazionali fra autore e vittima).
Dal canto suo l’avvocato-investigatore, nel corso dell’assunzione di informazioni da persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa, dovrebbe sempre tenere a mente alcune regole. In particolare, la prima regola è quella di avere una conoscenza del soggetto da sentire. Non si può stabilire a priori il sistema o il metodo da applicare alla conversazione se prima non si sa con chi si ha a che fare: è quindi conveniente iniziare la conversazione chiedendo notizie sulla vita in generale dell’esaminando. Altra regola basilare è quella di non avere fretta, di mantenere un contegno sereno, anche di fronte alla menzogna e alla reticenza. È inoltre buona regola non sottoporre l’esaminato ad eccessivo stress, ponendo le domande in modo tale da concedergli il tempo necessario per riflettere prima di fornire le risposte richieste. Le domande devono essere brevi, chiare, precise, facilmente comprensibili e adeguate alle capacità dell’interrogando; possono essere indeterminate (forniscono risultati più proficui, perché agevolano i ricordi e non suggestionano) o determinate (da evitare, perché prevengono il teste, possono suggestionarlo e non stimolano i ricordi). È fondamentale che nella relazione interpersonale che si viene a creare, l’investigatore abbia un atteggiamento di ascolto, per poter attingere informazioni il più possibile spontanee (U. Fornari).
Posto che non vi è correlazione diretta fra la certezza di ricordare esattamente un accadimento e l’effettiva accuratezza di quel ricordo, nella vittima-testimone si tratta di recuperare ricordi che non sono stati memorizzati volontariamente (la vittima presterà più attenzione agli stimoli relativi alle sue possibilità di salvezza piuttosto che a quelli riguardanti l’aspetto dell’aggressore; effetto weapon focus: attenzione sulla punta dell’arma piuttosto che sulla figura dell’aggressore).
Di recente, si sta diffondendo l’impiego di sistemi ad alto livello tecnologico per la valutazione della testimonianza: si pensi all’autobiographical Implicit Association Test (aIAT), una valutazione strumentale del contenuto della memoria del testimone basata sulla registrazione del tempo di reazione a test computerizzati. Si basa sul presupposto che le memorie fittizie vengono richiamate più lentamente rispetto a quelle vere, allungando i tempi di reazione del soggetto; questi strumenti, si badi, possono riscontrare che la persona esaminata conserva effettivamente dentro di sé una certa immagine mentale, ma non anche provare che quel vissuto corrisponda davvero all’accaduto.
Circa la testimonianza del minore vittima di abusi sessuali, si è puntualizzato in giurisprudenza che il giudice non è vincolato, nell’assunzione e valutazione della prova, al rispetto delle metodiche suggerite dalla c.d. “Carta di Noto”, salvo che non siano già trasfuse in disposizioni del codice di rito con relativa disciplina degli effetti in caso di inosservanza, di modo che la loro violazione non comporta l’inutilizzabilità della prova così assunta; tuttavia, il giudice è tenuto a motivare perché, secondo il suo libero ma non arbitrario convincimento, ritenga comunque attendibile la prova dichiarativa assunta in violazione di tali metodiche, dovendo adempiere ad un onere motivazionale sul punto tanto più stringente quanto più grave sia stato, anche alla luce delle eccezioni difensive, lo scostamento dalle citate linee guida (Cass. pen., Sez. III, n. 648/2017).
Infine, in relazione alle prospettive applicative della vittimologia investigativa, bisogna citare altresì l’attività investigativa preventiva (in vista dell’eventuale denuncia-querela), i casi di scomparsi (suicidio, allontanamento volontario, incidente, omicidio?; tenendo presente che, in sede di colloquio o di denuncia, i familiari tendono ad omettere di riferire un quadro esaustivo e veritiero del soggetto di cui non hanno più notizie) e il terreno civile (si pensi, ad esempio, all’autopsia psicologica in riferimento alla capacità di intendere e di volere di un testatore o di un donante).
In conclusione, la vittimologia investigativa serve ad orientare le indagini, sia per la ricostruzione di un evento che per migliorare la qualità di una testimonianza.
(disegno di Gabriele Dell’Otto)