Ciclicamente si parla di carcere (il più delle volte, ad onor del vero, se ne “straparla” …), non-luogo in cui trattenere i “perdenti” non di rado per il filtro di modalità esecutive “annientanti” tali da fare dimenticare la loro esistenza medesima. E che non osino accampare pretese, quindi: zitti e buoni! Di tal che non deve meravigliare se coloro che “ben pensano”, alla luce di rivendicazioni del tutto fisiologiche di cui al cosiddetto ‘mondo libero’, si arroccano invece su scenari preconcetti nella misura in cui quelle originino dal cosiddetto ‘mondo recluso e sommerso’ giungendo a negare, au fond, istanze che, già in sé e per sé, configurano una dimensione indeclinabile dell’umanità (il tratto distintivo-identitario che contraddistingue l’essere umano, ed umani, dall’entità meramente senziente).

Emblematica di quanto preannunziato la vicenda della così designata affettività intra moenia “villanamente” ridotta al profilo dell’intimità sessuale (sulle opacità, che scruteremo, del recente intervento costituzionale vedi, nondimeno, nell’immediatezza di queste annotazioni) quasi che essa si manifesti in esclusiva in una incontrollata, ed animalesca, libido. Ciò non corrisponde al vero e non varrebbe spendere eccessive parole a giustifica dell’assunto; pur tuttavia l’unico disposto de lege lata impostato al riguardo comprova, laddove ve ne fosse ulteriore necessità, l’infondatezza di quella reductio ad unum. Con specifico focus sul condannato infradiciottenne (dalla vita sessuale, presuntivamente, meno regolare, e meno “regolata”, se contrapposta a quella dell’adulto), l’ordinamento penitenziario minorile (cfr. d. lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103”), all’art. 19, dalla rivelatrice intitolazione ‘Colloqui e tutela dell’affettività’, expressis verbis appunta che “[i]l detenuto ha diritto ad otto colloqui mensili, di cui almeno uno da svolgersi in un giorno festivo o prefestivo, con i congiunti e con le persone con cui sussiste un significativo legame affettivo. Ogni colloquio ha una durata non inferiore a sessanta minuti e non superiore a novanta. La durata massima di ciascuna conversazione telefonica mediante dispositivi, anche mobili, in dotazione dell’istituto, è di venti minuti. Salvo che ricorrano specifici motivi, il detenuto può usufruire di un numero di conversazioni telefoniche non inferiore a due e non superiore a tre a settimana. L’autorità giudiziaria può disporre che le conversazioni telefoniche vengano ascoltate e registrate per mezzo di idonee apparecchiature. È sempre disposta la registrazione delle conversazioni telefoniche autorizzate su richiesta di detenuti o internati per i reati indicati nell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. Per i detenuti privi di riferimenti socio-familiari sono favoriti colloqui con volontari autorizzati ad operare negli istituti penali per minorenni ed è assicurato un costante supporto psicologico. Al fine di favorire le relazioni affettive, il detenuto può usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore, con una o più delle persone di cui al comma 1. Le visite prolungate si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. Il direttore dell’istituto verifica la sussistenza di eventuali divieti dell’autorità giudiziaria che impediscono i contatti con le persone indicate ai commi precedenti. Verifica altresì la sussistenza del legame affettivo, acquisendo le informazioni necessarie tramite l’ufficio del servizio sociale per i minorenni e dei servizi socio-sanitari territoriali. Sono favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio”. Come è agevole osservare nessun accenno, neppure velato, al profilo erotico-relazionale; dal che è dato evincere, con nettezza, come il desiderio sessuale rappresenti sì una componente necessaria, ma del pari non sufficiente, al pieno estrinsecarsi dell’affettività de qua. Rebus sic stantibus si comprende, sottotraccia, come il legislatore non sia intervenuto onde pre-determinare il prospetto in questione laddove ad esserne depositari siano soggetti maggiori di età: omissis tanto più censurabile laddove si ponga mente al fatto che trattasi di esigenza giocoforza avvertita ma, per l’appunto, “congelata”, e denigrata, nelle “segrete” dell’istituto penitenziario dalla neghittosità di cui alle Assemblee parlamentari. Pur tuttavia quell’urlo dolente non poteva rimanere in perpetuo inascoltato; di modo che, come di necessità accade, non provvedendo la legge formale supplisce, con tutti i distinguo del caso, il giudice costituzionale. Qui il tragitto dettato dalla Consulta, che si articola in due interventi separati da un decennio abbondante (cfr. Corte cost. sentt. 11- 19 dicembre 2012, n. 301 e 6 dicembre – 26 gennaio 2024, n. 10), descrive un viaggio accidentato stante cui la Corte ripudia la, in allora, consolidata tecnica decisoria delle cosiddette ‘rime obbligate’ favorendo, in luogo, una “metrica” non tradizionale qualificabile o a ‘rime possibili’ o a ‘versi sciolti’ o meglio ancora, a nostro sommesso avviso, a ‘versi liberi’. Ambedue le pronunzie, che eleggono a proprio oggetto di intervento, difatti, un medesimo comparto normativo (nello specifico l’art. 18 l. 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, votato a regolamentare, in parte qua, i colloqui con i propri prossimi congiunti, colloqui che si svolgono in appositi locali ma a portata visiva, quantunque non uditiva, del personale di custodia – ciò, è bene anticipare già da ora, avendo riguardo a detenuti non suscettibili del regime di alta sicurezza od inseriti nel circuito ad elevato indice di vigilanza per i quali vigono disposizioni di maggiore intransigenza), nondimeno sottoscrivono esiti frontali proprio alla luce della versificazione abituale di cui alle ‘rime obbligate’.

E valga il vero. La decisione del 2012 riteneva inammissibile la quaestio de legitimitate, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 27, terzo comma, 29, 31, 32, primo e secondo comma, del dettato fondamentale dal magistrato di sorveglianza di Firenze, giacché, in primo luogo, il giudice rimettente si limitava “a riferire di essere chiamato a pronunciarsi sul «reclamo» di un detenuto, senza precisarne affatto la natura e il contenuto e, quindi, senza indicare la ragione per la quale occorrerebbe fare applicazione della norma censurata nel caso di specie”. Il giudice a quo non specificava neppure, d’altra parte, a quale regime carcerario fosse sottoposto il reclamante e, segnatamente, se potesse o meno beneficiare dei permessi premio, previsti dall’art. 30 ter l. 354/1975: “istituto che – per affermazione dello stesso rimettente – rappresenterebbe la soluzione migliore dell’esigenza prospettata, consentendo ai detenuti di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il «partner» al di fuori dell’ambiente carcerario, in maniera tale che la sua praticabilità potrebbe eventualmente escludere la necessità di concedere all’interessato “colloqui intimi” intramurali”. Inoltre veniva soggiunto come il giudice fiorentino appuntasse, peraltro, specificamente le sue censure sul disposto del secondo comma dell’art. 18 della legge n. 354 del 1975, in forza del quale i colloqui delle persone ristrette in carcere “si svolgono in appositi locali, sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia” risultando self-evidentcome un intervento puramente e semplicemente ablativo della previsione del controllo visivo sui colloqui – quale quello in apparenza richiesto dal giudice a quo, alla luce della formulazione letterale del petitum – si rivelerebbe, per un verso, eccedente lo scopo perseguito e, per altro verso, insufficiente a realizzarlo. Il controllo a vista del personale di custodia non mira, in effetti, ad impedire in modo specifico ed esclusivo i rapporti affettivi intimi tra il recluso e il suo «partner», ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e di prevenzione dei reati. L’ostacolo all’esplicazione del «diritto alla sessualità» ne costituisce solo una delle conseguenze indirette, stante la naturale esigenza di intimità connessa ai rapporti in questione. L’asserita necessità costituzionale di rimuovere tale conseguenza non giustificherebbe, dunque, la caduta di ogni forma di sorveglianza sulla generalità dei colloqui. Al tempo stesso, l’eliminazione del controllo visivo non basterebbe comunque, di per sé, a realizzare l’obiettivo perseguito, dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative. Tutte operazioni che implicano, all’evidenza, scelte discrezionali, di esclusiva spettanza del legislatore: e ciò, anche a fronte della ineludibile necessità di bilanciare il diritto evocato con esigenze contrapposte, in particolare con quelle legate all’ordine e alla sicurezza nelle carceri e, amplius, all’ordine e alla sicurezza pubblica … Per avere eloquente dimostrazione della varietà delle soluzioni al riguardo prospettabili, è del resto sufficiente scorrere i numerosi progetti di legge sinora presentati in materia e non coronati da successo, nonché le discipline concretamente adottate in altri Stati, alle quali si accenna nella stessa ordinanza di rimessione. Perché questo esito interlocutorio? È chiaro (e la Corte non fa nulla per occultarlo): l’eventuale declaratoria di incostituzionalità avrebbe comportato un indebito sconfinamento nelle prerogative di discrezionalità di cui al legislatore; qui, altrimenti detto, per le ragioni su esposte, la ‘rima obbligata’ non è necessitata dal quadro di riferimento preconizzato dal magistrato di sorveglianza di Firenze – allorquando le soluzioni ipotizzabili sono più di una non può che essere il nomoteta a garantire la legalità, e costituzionale e convenzionale (qui si sta facendo riguardo alla Convenzione Europea dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali d’ora in innanzi, per acronimo, CEDU), del sistema. Ed inoltre, ed anche qui è bene precorrere,  “il problema [non] potrebbe essere superato ritenendo che il giudice a quo abbia richiesto a questa Corte una sentenza additiva “di principio””(proprio questo è la sentenza del 2024, invece) “la quale – secondo la dinamica propria di tale tipo di decisioni – si limiti ad affermare l’esigenza costituzionale di riconoscere il diritto in parola, demandando al legislatore il compito di definire modi e limiti della sua esplicazione e, nelle more dell’intervento legislativo, lasciando ai giudici comuni la possibilità di garantire interinalmente il diritto stesso tramite gli strumenti ermeneutici, sulla base della disciplina in vigore (quella, in specie, dei colloqui e delle visite familiari). La sentenza additiva “di principio” in ipotesi richiesta dal rimettente risulterebbe, infatti, essa stessa espressiva di una scelta di fondo. Nella prospettiva del giudice a quo, il «diritto alla sessualità» intra moenia dovrebbe essere, infatti, riconosciuto ai soli detenuti coniugati o che intrattengano rapporti di convivenza stabile more uxorio, escludendo gli altri (si pensi, ad esempio, a chi, all’atto dell’ingresso in carcere, abbia una relazione affettiva “consolidata”, ma non ancora accompagnata dalla convivenza, o da una convivenza «stabile»). Detta soluzione non solo non è l’unica ipotizzabile (come di nuovo attestano i progetti di legge in materia), ma non appare neppure coerente con larga parte dei parametri costituzionali evocati dallo stesso giudice a quo: talora “per eccesso”, talaltra “per difetto””.

Nel 2024, invece, la Corte costituzionale accoglie la prospettata censura, avanzata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, indicando a tertia comparationis gli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dichiarando quindi la non conformità a precetto dell’art. 18 l. 354/1975 “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. E ciò non tanto perché il giudice rimettente abbia descritto, con maggiore accuratezza rispetto al suo predecessore del 2012, la tranche de vie ad antecedente della quaestio de legitimitate (il che è ad ogni effetto accaduto, per vero) ma proprio in quanto la ‘rima obbligata’ non cattura più l’attenzione del giudice costituzionale ormai emancipatosi da quel modus procedendi: e, meglio osservando la pronuncia a numero d’ordine 10 del 2024, lì la Corte non solo invade la sfera riservata al legislatore bensì valorizza una polifonia di interlocutori (non in esclusiva quell’ultimo la cui responsabilità è sollecitata in esclusiva nella misura in cui “esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario” ma, prima ancora, ogni componente dell’amministrazione della giustizia e centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti di pena) a cui demandare la concreta attuazione di incisive guidelines che la Corte, con esprit de geometrie, adduce a referenza (a bene vedere qui si potrebbe addirittura ipotizzare una pronuncia additiva di principio, per così dire, “rafforzata”). “In questa prospettiva, l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”, nobilmente si epiloga.

Al di là di queste epidermiche riflessioni di dogmatica costituzionalistica la sentenza n. 10/2024 si caratterizza per essere un’“architrave” complessa le cui torsioni sono allora degne di venire ripercorse, benché solo per sommi capi.

I) Una premessa ineludibile. Il difetto di affettività intra moenia non può essere compensato garantendone la soddisfazione extra moenia; il bene affettivo-relazionale identifica una necessità dell’essere umano e non, quindi, un interesse cedevole (o recessivo, che dir si voglia, rispetto a non meglio precisate esigenze di law and order degli istituti penitenziari) o, peggio ancora, una premialità. In merito a ciò la Corte costituzionale è estremamente rigorosa: i permessi-premio appaiono del tutto disfunzionali rispetto all’obiettivo che si vuole raggiungere: tale istituto può dopotutto “offrire «una risposta solo parziale», giacché la fruizione del permesso premio – «stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria». Ai sensi dell’art. 30-ter ordin. penit., la concessione del permesso premio non è subordinata unicamente ai requisiti soggettivi della regolarità della condotta in carcere e dell’assenza di pericolosità sociale (comma 1), ma anche a presupposti quantitativi, ove la pena inflitta superi i quattro anni di reclusione, occorrendo in tal caso l’espiazione di almeno un quarto della pena stessa, e di almeno dieci anni per i condannati all’ergastolo (comma 4, lettere b e d); al permesso premio non può inoltre accedere il detenuto in attesa di giudizio, perché «[l]’esperienza dei permessi premio è parte integrante del programma di trattamento» (comma 3). Il permesso premio, che pure è concedibile anche «per consentire di coltivare interessi affettivi» (art. 30-ter, comma 1, ordin. penit.), non elimina dunque il problema dell’affettività del detenuto, ma consente solo di alleggerirlo, trasferendo “fuori le mura” la realizzazione delle esigenze affettive per chi abbia accesso al beneficio premiale. L’inadeguatezza dell’attuale situazione normativa è di particolare evidenza per il detenuto in attesa di giudizio, al quale è preclusa l’affettività extra moenia a causa dell’impossibilità di fruire di permessi premio ed è altresì preclusa l’affettività intramuraria per effetto dell’art. 18 ordin. penit., tutto ad onta della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. È quindi confermato che la disciplina dei permessi premio non è allo stato idonea a risolvere il problema dell’affettività del detenuto”. Né soccorrerebbero, inoltre, i cosiddetti permessi di necessità ex art. 30 l. 354/1975, concedibili nell’evenienza di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o, eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità: assimilare a ciò la “coltivazione” delle dinamiche affettivo-relazionali, tanto più laddove segmentate eminentemente sul cotê dell’intimità sessuale, come la Corte mostrerebbe di intendere, ridurrebbe il tutto ad uno svilimento non degno di essere considerato (il sesso quale espressione di un’esigenza “ferina” che, in un modo od in un altro, deve venire compiaciuta).

II) Giusta un aspetto ulteriore il decisum oggetto di interesse evidenzia un prodotto a geometria variabile, sia avendo riguardo ai formanti costituzionali presumibilmente violati sia avendo riguardo alla platea dei destinatari l’accoglimento della quaestio. Stante la prima visuale non tutti i parametri di costituzionalità addotti a tertium comparationis dal magistrato spoletino sono, nei fatti, “aggrediti”, a dire del giudice di legittimità delle leggi (e ciò non è scevro da ricadute concrete; restando ad esempio assorbito il motivo di costituzionalità afferente all’art. 3 CEDU, evidenziato per il filtro dell’art. 117, primo comma, della Costituzione italiana, si preclude al recluso di instare per il rimedio risarcitorio ex 35 ter legge di ordinamento penitenziario a fronte di una detenzione avvenuta in condizioni oppositive al parametro convenzionale di cui sopra: altrimenti detto, se si fosse accolta quella specifica censura, negare l’affettività inframuraria sarebbe equivalso ad un trattamento inumano o degradante oppure, nelle ipotesi estreme, a tortura). Nondimeno, dettagliando giusta gli intendimenti della Consulta: a) viene ritenuto violato l’art. 3 Cost. in quanto “[l]a prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie” (ciò si riverbera, inoltre, sulle persone legate al detenuto da stabile relazione affettiva, profilo su cui, a breve, si avrà occasione di ulteriormente esprimersi); b) viene destituita da ogni fondamento la compatibilità costituzionale con l’art. 27, comma 3, della Grundnorm: “[l]’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnusalla persona nell’ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione … una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione. Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione”; c) da ultimo si assume non rispettato l’art. 117, comma 1, Cost. letto in relazione all’art. 8 CEDU. “In più occasioni, la Corte EDU, pur dichiarando che gli Stati non sono obbligati a riconoscere le conjugal visits, poiché godono al riguardo di un vasto margine di apprezzamento, ha ritenuto il suddetto orientamento legislativo conforme alla tutela dei diritti e delle libertà previsti dalla Convenzione … In particolare, la Corte di Strasburgo non esclude che il singolo ordinamento possa rifiutare l’accesso alle visite coniugali quando ciò sia giustificato da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 8 CEDU … Viene però richiesto un «fair balance» tra gli interessi pubblici e privati coinvolti ovvero un test di proporzionalità della restrizione carceraria … e, quand’anche la visita coniugale sia intesa in senso premiale, si esige un’adeguata valutazione di taglio casistico … Il carattere assoluto e indiscriminato del divieto di esercizio dell’affettività intramuraria, quale deriva dall’inderogabilità della prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento dei colloqui, pone l’art. 18 ordin. penit. in contrasto con l’art. 8 CEDU, sotto il profilo del difetto di proporzionalità tra tale radicale divieto e le sue, pur legittime, finalità. In particolare, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal paragrafo 1 dell’art. 8 CEDU, viene compresso senza che sia verificabile in concreto, agli effetti del successivo paragrafo 2, la necessità della misura restrittiva per esigenze di difesa dell’ordine e prevenzione dei reati”. Tutti gli ulteriori vizi contemplabili, e segnalati dal giudice rimettente, vengono reputati assorbiti – con le conseguenze esemplificativamente descritti a capo della pagina che immediatamente precede. Muovendo ai destinatari dell’intervento correttivo essi vanno classificati in diretti ed indiretti: d) giusta i primi il novum non elegge a privilegiati i sottoposti al cosiddetto carcere duro ex art. 41 bis l. 354/1975 per i quali vigono regole “pignole” in deroga a quanto evidenziato dall’art. 18 l. ult. cit. [in estrema sintesi il comma 2-quater, lett. b) di quell’ultimo disposto condiziona lo svolgimento dei colloqui de quibus, che debbono nondimeno essere video-registrati, a vigilanza non solo visiva bensì anche uditiva limitandone il numero – uno al mese – e “marcandone” il luogo – essi possono disporsi in esclusiva in locali attrezzati in modo tale da impedire il passaggio di oggetti -] né coloro che risultino sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 14 bis l. ord. penit. (qui la Corte, non poco avventatamente, a nostro modo di intendere, nonostante il chiaro enunciato di cui al successivo art. 14 quater, comma 4, ultimo inciso – “le restrizioni non possono riguardare … i colloqui con i difensori, nonché quelli con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli -, esclude i sorvegliati in questione dal benefit ottenuto ad esito della sentenza giacché a ciò risulterebbe ostativo il disposto di cui al comma 1 dell’art. 14 bis ovvero il fatto che sono suscettibili di quel regime i condannati gli internati gli imputati che “con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l’ordine negli istituti”; “con la violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati”; “che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti”. Con ciò banalizzando la relazione affettività alla sua sola componente sessuale: del resto il “re è nudo” se qui è la Corte medesima a tradirsi qualificando il colloquio come ‘intimo’ – fra l’altro l’unico tratto del Considerato in Diritto in cui la Consulta ricorre a tale attributo]. Non sono, invece, esentati dallo scenario declinato dalla pronunzia gli autori di ‘reati ostativi’ come enumerati dall’art. 4 bis legge a più riprese menzionata dacché, sono parole del giudice costituzionale, “l’ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui”; e) in ordine ai secondi, invece, evinciamo dal dispositivo che essi consistono nel coniuge nella parte dell’unione civile nella persona che stabilmente convive con il recluso (stante queste due ultime evenienze trattandosi, parrebbe, finanche di persone di sesso medesimo di quello del ristretto in vinculis) – con termine di genere, quindi, si fa riguardo a coloro che sono legati da relazione stabile affettiva con gli incarcerati. Di tal che: α) non sembrerebbero ricondursi in quell’ambito i componenti, non avvinti da liaison carnale con il detenuto, delle cosiddette famiglie nucleari (putacaso i figli) od allargate, sia tradizionali (si pensi, tanto per esemplificare, a nonni, zii, etc.) che di nuova impostazione (pluralità di aggregazioni familiari a fronte di previ separazioni e/o divorzi). Ciò potrebbe apparire singolare (tra l’altro ai minorenni è garantito coltivare dette affinità elettive: cfr. l’art. 19, l. 121/2018 che, addirittura, legittimità al dialogo extrafamiliari “con cui sussiste un significativo legame affettivo” – lo ribadiamo: ‘affettività’ e ‘sessualità’ sono in rapporto di genus a species non codificando realtà sinonimiche) ma, forse, ciò non dovrebbe rivelarsi tale se, come parrebbe e come testé significato, la Corte, con l’intervento del gennaio 2024, intendesse circoscrivere la propria riflessione al, così qualificato, colloquio intimo. Rebus sic stantibus, pur tuttavia, β) ci si dovrebbe interrogare sulle rationes per cui in esclusiva coloro che sono beneficiari di un legame stabile dovrebbero usufruire di quel genere di colloqui (fra l’altro la Corte è estremamente rigorosa sul punto investendo, onde contrastare una rivendicazione opportunistica, il direttore dell’istituto penitenziario dell’onere “di verificare … la sussistenza del presupposto dello stabile legame affettivo, in particolare l’effettività della pregressa convivenza”). A parere di chi scrive non sono identificabili, a giustifica della pruderiedi cui alla Consulta, ragioni altre da tabù moraleggianti; anche perché, e va detto senza infingimento veruno, a “valle” di quell’autocensura sta il quesito, ormai ineludibile, del consentire l’“amore mercenario” (il ricorso a prostituti/e quali professionisti/e del sesso) in ambienti chiusi. Non è una questione (già risalente al diritto romano-giustinianeo: si mediti, su tutto, sul passo del Digesto 12.5.4.3 Quod meretrici datur, repeti non potested alle sue opposte esegesi) de lana caprina apparendo semplicistico, e forse anche cursorio, eludere l’interrogativo ribadendo che non sarebbe conforme alla legge vigente (id est la legge 20 febbraio 1958, n. 75, recante “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”, cosiddetta legge Merlin, dalle generalità della proponente) ammettere l’accesso in carcere di persone dedite alla prostituzione. Non per nulla, in un recente passato ed in un contesto limitrofo, la Corte costituzionale è stata investita di una quaestio avente ad oggetto l’art. 3, comma 1, numeri 4, prima parte, ed 8 (rispettivamente votati a sanzionare il reclutamento, nonché il favoreggiamento o lo sfruttamento, della prostituzione altrui) l. ult. cit. giacché alcune “peripatetiche” (le cosiddette escort) eserciterebbero liberamente quella (ig)noble art sul presupposto, fra l’altro, della “copertura” di cui all’art. 41 Cost. (libertà di iniziativa economica privata). Ebbene: il giudice costituzionale (Corte cost., sent. 6 marzo – 7 giugno 2019, n. 141) ha dichiarato non fondate le quaestiones rimesse alla sua cura in quanto ogni mercimonio di natura sessuale, pur anche venuto a compimento in piena autonomia, si dimostrerebbe recessivo rispetto all’indisponibile postulato della dignità umana. Comprensibile: pur tuttavia, con tutte le precauzioni del caso, un ripensamento in subiecta materia potrebbe avere un suo perché (tanto più se calato in un humus drammatico quale quello degli istituti di pena).

III) Come già si è fatto cenno la Consulta non si limita a destrutturare (pars destruens) l’esistente bensì organizza, perlomeno stante indicatori di massima, pro futuro (pars costruens) – ecco perché la sentenza n. 10 del 2014 potrebbe, a giusto titolo, essere ri-denominata sub specie di ‘additiva di principio rafforzata’. Nello specifico si enumera un catalogo di prescrizioni (di pii desideri, verrebbe più prosaicamente da soggiungere …) onde mandare ad effetto i dicta de quibus. Laonde per cui 1) “[l]a durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude”; 2) “[i]n quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva”; 3) [n]umerosi testi sovranazionali indicano nella predisposizione di luoghi appropriati una condizione basilare per l’esercizio dell’affettività intramuraria del detenuto …”. Può quindi ipotizzarsi che “le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”; 4) [a] differenza di quanto previsto dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 per la visita prolungata del detenuto minorenne, per il detenuto adulto non va ammessa la compresenza di più persone, considerata l’eventualità di una declinazione sessuale dell’incontro, che deve quindi svolgersi unicamente con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente con il detenuto stesso”; 5) [p]rima di autorizzare il colloquio riservato, il direttore dell’istituto, oltre all’esistenza di eventuali divieti dell’autorità giudiziaria che impediscano i contatti del detenuto con la persona con la quale il colloquio stesso deve avvenire, avrà cura di verificare altresì la sussistenza del presupposto dello stabile legame affettivo, in particolare l’effettività della pregressa convivenza; 6) [n]ella fruizione dei locali predisposti per l’esercizio dell’affettività (i quali verosimilmente saranno, almeno all’inizio, una “risorsa scarsa”) «sono favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio» (sempre che ciò non dipenda da ragioni ostative anche all’esercizio dell’affettività intramuraria). Prevista dall’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 121 del 2018 riguardo al detenuto minorenne, la particolare considerazione nei confronti di chi non può usufruire di permessi premio può estendersi alla disciplina del detenuto adulto, analoga essendo la ratio di sussidiarietà dell’affettività intra moenia rispetto a quella più fisiologicamente esprimibile “fuori le mura”. Belle parole ma di difficile traduzione operativa – del resto è la Corte medesima, sebbene con eccessiva pudicizia, già ad ipotizzare risorse scarse; di tal che, acciocché non si tratti dell’ennesimo “libro dei sogni”, occorrono, giustappunto, disponibilità finanziarie istituti carcerari “flessibili” al punto da, giusta il profilo dell’edilizia penitenziaria, garantire le, inevitabili, modifiche di struttura e, above all, uomini di buona volontà disposti a mettersi in gioco al riguardo – è un investimento gravoso; ed anche di ciò la Corte ha piena consapevolezza laddove sottolinea “l’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento” (su ciò a brevissimo, nondimeno). Il rischio di applicazione “a chiazze”, oltre che di tempistiche non uniformi di realizzazione del novum, sono consequenziali all’attuale statu quo, pur tuttavia l’ovvietà non deve tracimare in ottusità (nondimeno, salvo errori ed/omissioni di chi scrive, non è dato censire, ad oggi, colloqui mandati ad effetto out of sight). Ed invece già si evidenziano sacche di “resistenza inoperosa”: al proposito, se meno inquietano talune esternazioni di esponenti di grido dell’attuale compagine governativa (a fronte di una preannunziata sperimentazione nell’istituto ‘Due Palazzi’ di Padova il sottosegretario alla giustizia, Andrea Ostellari, nel febbraio scorso bollava il tutto come mera propaganda) – le reazioni del decisore politico, non di rado, sono scomposte -, più allarmanti potrebbero dimostrarsi certi orientamenti giurisprudenziali. In una recente vicenda portata all’attenzione della Corte di legittimità, infatti, proprio l’Ufficio di Sorveglianza di Torino ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da un detenuto avverso il provvedimento con cui gli era stato negato, presso la casa di reclusione di Asti, un colloquio, nella specie intimo, con la moglie dacché la struttura ciò non consentiva; al di là di questi accidentes, ad ogni buon conto, a detta del giudice sabaudo la richiesta in questione non identificava un vero e proprio diritto bensì una mera aspettativa in quanto tale non tutelabile in via giurisdizionale. Gli Ermellini (Cass. pen., sez. I, 8/25), dopo avere evocato i tratti distintivi della pronunzia costituzionale del gennaio 2024, invece sottolineano con fermezza che “non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per «ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine o della disciplina» ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato. Il ricorso proposto dal detenuto ricorrente, pertanto, non doveva essere dichiarato inammissibile ma, essendo relativo all’esercizio di un diritto che il detenuto riteneva illegittimamente pregiudicato dal comportamento dell’istituto penitenziario di appartenenza, doveva essere valutato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen.”. Il nucleo duro del diritto all’affettività è fatto salvo, di tal che, ma non si può sottacere la “faglia carsica” rappresentata dall’indirizzo di cui all’Ufficio di Sorveglianza del capoluogo piemontese, fattore ancora più preoccupante una volta osservato che la detta riluttanza si annida in una componente – l’amministrazione della giustizia periferica – a cui, a detta del giudice costituzionale, dovrebbe devolversi responsabilità in materia. E l’apprensione incrementa una volta considerato che, con buona plausibilità, il legislatore storico non si motiverà al riguardo (il d.l. 4 luglio 2024, n. 92, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e di personale del Ministero della giustizia”, cosiddetto ‘decreto carceri’, fulmineamente convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 2024, n. 112, a riprova di quanto assunto, incide, a latere, in esclusiva sul numero dei colloqui telefonici, settimanali e mensili, all’uopo predisponendo, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto, regolamento di modifica al D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, a Rubrica normativa, giustappunto, “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” – come è agevole verificare nessun indice sintomatico di considerazione di quanto auspicato dalla Corte costituzionale di nostro interesse).

Sullo sfondo aleggia il “fantasma di Banquo” di una Torreggiani bis (con quella focale pronunzia la Corte Europea dei Diritti Umani, in data 8 gennaio 2013, ha condannato l’Italia per overbooking ritenendo che il sovraffollamento carcerario, come in temporibus acclarato, violasse l’art. 3 CEDU ove si sancisce il divieto di tortura o di trattamenti inumani o degradanti). Nulla è mutato da allora. Stante il XX rapporto, pubblicato dall’associazione Antigone, sulle condizioni di detenzione (cfr. www.antigone.it) i numeri sono impressionanti: al 31 marzo 2024 erano “ospitati”, presso le case di reclusione italiane, 61.049 a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti (giusta un tasso di affollamento ufficiale del 119, 3%); dati ancora più recenti, e di ancora maggiore credibilità giacché riconducibili al DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), segnalano, al 30 giugno 2024, 61.480 reclusi per un tasso di affollamento ufficiale del 120% – che, nondimeno, si innalza, al 129,3% se si ragiona sul numero dei posti ad ogni effetto disponibili. Scenario insostenibile che oltrepassa la soglia di tollerabilità fisiologicamente interconnessa allo status detentionis; il riconoscimento maturo dell’affettività intra moenia, allora, ne contrarrebbe, quantunque solo in minima parte, lo riconosciamo, gli effetti … prima che quelle “urla dal silenzio” incessantemente ci assordino.