Crediamo nulla, nel labirintico universo del diritto processuale penale odierno, abbia subito più rivolgimenti e più incastri (mal riusciti, nevvero) che la disciplina di cui alle intercettazioni dei flussi comunicativi come regolata dagli articoli da 266 a 271 del codice di rito penale. In esclusiva nell’ultimo decennio, salvo errori ed/od omissioni, è dato riscontrare quattro elaborazioni normative che hanno inciso in corpore in subiecta materia. Dapprincipio la cosiddetta riforma Orlando, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della giustizia [D. lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, recante “Disposizioni in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere a), b), c), d) ed e), della legge 23 giugno 2017, n. 103”], che, coraggiosamente, agiva in materia di trascrizione, deposito e conservazione dei verbali di intercettazione interpolando, nell’architettura codicistica, il novum di cui agli artt. 268 bis, 268 ter e 268 quater c.p.p. del pari fissando un “tracciante” definitivo – ad esito delle oscillazioni giurisprudenziali – per il ricorso al così qualificato trojan horse (il ‘captatore informatico’ giusta la nota locuzione aggettivale di cui al legislatore) (le disposizioni de quibus, a fronte di uno stillicidio di rinvii “a pioggia”, avrebbero dovuto applicarsi avendo ad oggetto i procedimenti penali iscritti a ruolo successivamente al 31 agosto 2020; v., da ultimo, il d.l. 30 aprile 2020, n. 28, adottato nel “cuore” dell’emergenza pandemica da SARS-CoV-19 e recante “Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19”, convertito, con modificazioni, in l. 25 giugno 2020, n. 70). Come accade nelle migliori tradizioni alla ‘riforma’ segue la ‘controriforma’ – Bonafede, dalle generalità del successore di Andrea Orlando nel dicastero di via Arenula (d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, recante “Modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni”, convertito, con modificazioni, in l. 28 febbraio 2020, n. 7) – che, invece, timidamente provvedeva, da un lato, ad abrogare gli artt. 268 bis, 268 ter e 268 quater c.p.p. (sostanzialmente mai “mandati ad effetto”) al contempo modificando il testo degli artt. 89 e 89 bis disp. att. c.p.p. (di particolare momento il secondo disposto evocato, in tema di ‘Archivio delle intercettazioni’, raffigurante uno dei luoghi topici della riforma operata con d. lgs. 216/2017. Mentre il testo licenziato nel 2017, già dalla Rubrica normativa, sottolineava la natura riservata dell’istituendo archivio le interpolazioni di cui al d.l. 161/2019 si premurano di assicurare “la segretezza della documentazione relativa alle intercettazioni non necessarie per il procedimento, ed a quelle irrilevanti o di cui è vietata l’utilizzazione ovvero riguardanti categorie particolari di dati personali come definiti dalla legge o dal regolamento in materia” oltre che la facoltà, per i difensori delle parti, di “ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando acquisiti a norma degli articoli 268, 415-bis e 454 del codice” – profili, questi ultimi, non garantiti per explicans nell’impianto disciplinare originario). In tempi a Noi più ravvicinati, da ultimo, vengono ad imporsi la l. 9 aprile 2024, n. 114, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto decreto Nordio, dalle generalità dell’attuale Ministro guardasigilli), il cui art. 2, comma 1, lett. d), enuclea le nuove componenti essenziali di cui all’art. 268 c.p.p. (laddove l’immediatamente successivo art. 3 parimenti opera sul testo dell’art. 89 bis disp. att. c.p.p.), oltre che la l. 31 marzo 2025, n. 47, recante “Modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazioni” (legge Zanettin, dall’anagrafica del suo sponsor), che, con un autenticocoup de main, “blinda”, o così, perlomeno, sembrerebbe disposta a fare, il tempo di durata massima delle attività de quibus (“Le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni …”). Senza nulla togliere, poi, ad ulteriori provvedimenti che, quantunque con maquillage meno dedicato, nondimeno cesellano la disciplina di riferimento [cfr., ex plurimis, la l. 19 gennaio 2019, n. 3, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” – dall’esecrabile vulgata ‘Spazzacorrotti’ -, giusta il cui art. 1, comma 4, lett. a) e b), nel rispetto di determinate condizioni, viene legittimato il ricorso al captatore informatico a fronte della commissione, ad opera di pubblici ufficiali, o di incaricati di pubblico servizio, di delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (v. artt. 266, comma 2 bis, e 267, comma 1, terzo periodo, c.p.p., come modificati dalla legge ult. cit.) e, last but not least, il d.l. 10 agosto 2023, n. 105, recante “Disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione”, convertito, con modificazioni, in l. 9 ottobre 2023, n. 137, provvedimento de omni re scibili il cui art. 1, comma 2 ter, tange, una volta di più, il contenuto dell’art. 268 c.p.p.].
Vi è da restare abbacinati da cotanta “bulimia” del nomoteta al punto che è giocoforza obbligato fare scelte per quanto esse, come ogni decisione che si rispetti, invero, possano venire tacciate di arbitrarietà. L’attenzione verrà quindi a concentrarsi sui due provvedimenti normativi a Noi più prossimi nel tempo (alias, le ll. 114/2024 e 47/2025); e ciò nella consapevolezza che ambedue, nondimeno, non influiscono né sui presupposti di accesso allo strumento intercettivo né sulla durata complessiva del ricorso ad esso (la quale, ricordiamolo, persiste ad ancorarsi ai termini massimi di durata delle indagini preliminari) – la prima, difatti, opera eminentemente sull’art. 268 c.p.p. dall’anodina Rubrica normativa ‘Esecuzione delle operazioni’; la seconda, non in modalità incondizionata, comunque (qui, come vedremo a breve, è previsto un “doppio binario” disciplinare), sulla durata massima, e non complessiva la quale ultima resta agganciata alle vicende di cui alle indagini preliminari, delle operazioni de quibus avendo riguardo a fattispecie, per così dire, ordinarie/comuni (tali, fuor di metafora, nell’intendimento, non sempre governato, del legislatore da destare medio/basso allarme sociale). Una premessa, pur tuttavia, si impone. Ogni vaglio sulla “giustezza” della disciplina delle intercettazioni di flussi comunicativi – al crocevia di istanze parimenti degne di sottolineatura (da un lato la tendenziale completezza delle indagini finalizzate all’accertamento del factum sceleris dall’altro il dovuto rispetto per la sfera privata dell’intercettando, tanto più laddove risultasse estraneo al procedimento in cui di quelle ci si avvale) – soffre di condizionamenti esterni alla luce di ciò che si reputa poziore – è il dramma, ed al contempo il fascino, del diritto individuare l’ubi tracciare la linea di demarcazione/displuvio. Si cercherà, allora, nei limiti del possibile, di eleggere a metodologia di esame del dato normativo un approccio “laico”, scevro da quelle sovrastrutture a cui si è fatto, benché fugace, cenno. Pur anticipando, già da ora, che si rivelano più inquietanti, per l’equilibrio del sistema, le modifiche apportate all’art. 268 c.p.p. dacché “coonestate” alla luce di una serie di motivazioni che, a bene vedere, a stento dissimulano l’effettivo telos perseguito dalla riforma. Ma valga, su ciò, il vero.
L’art. 268 c.p.p., nella sua attuale vigenza, è esito di dinamiche tormentate (dal 1988, salvo fraintendimenti di chi scrive, il disposto de quo è stato aggiornato per ben dieci volte, e per successioni ex lege e per correttivi di cui alla Corte costituzionale): nel dettaglio, e comunque sia, interessano i commi 2, 2 bis e 6. Il primo, nella sua versione originaria, si limitava a dettare che “Nel verbale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate” (ovverossia i cosiddetti “brogliacci” riconducibili alla polizia giudiziaria deputata all’attività intercettiva). Una prima limatura esplicativa risaliva alla summenzionata legge n. 105 del 2023 colà puntualizzandosi che “Nel verbale è trascritto, anche sommariamente, soltanto il contenuto delle comunicazioni intercettate rilevante ai fini delle indagini, anche a favore della persona sottoposta ad indagine”. Venendone pianamente che “[i]lcontenuto non rilevante ai fini delle indagini non è trascritto neppure sommariamente e nessuna menzione ne viene riportata nei verbali e nelle annotazioni della polizia giudiziaria, nei quali è apposta l’espressa dicitura: ‘La conversazione omessa non è utile alle indagini’”. L’immediatamente a seguire comma 2 bis, introdotto dal d. lgs. 216/2017, nel testo di interesse pre interpolazione l. 137/2023 (la quale, nondimeno sostituendo alla tralatizia locuzione ‘dati personali definiti [sic!] sensibili dalla legge’, la ritenuta più pregnante formula ‘fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori’, confermava pur tuttavia quanto in precedenza dettato ovvero come questi ultimi, in una ad “espressioni lesive della reputazione delle persone”, non fossero riportati nei verbali de quibus salvo che – ecco la formula rituale – si dimostrassero rilevanti per le indagini) ed ante decreto Nordio (su cui a breve), assumeva (ed ancòra assume) che “[i]l pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché i verbali siano redatti in conformità a quanto previsto dal comma 2 …”. A chiosa finale il comma 6 che, come reintrodotto dalla cosiddetta riforma Bonafede (quell’alinea era stato difatti espunto dal quadro di riferimento giusta il d. lgs. 216 del 2017), assicura che, scaduti i prefissati termini entro i quali i difensori “hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche” (di quest’ultima tipologia intercettiva ҫa va sans dire che non si aveva contezza nell’impianto disciplinare di cui agli anni 1988/1989; se ne acquisirà sentore con la l. 23 dicembre 1993, n. 547, dall’emblematica Rubrica normativa “Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica”), “il giudice dispone l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione …”. A ciò addizionandosi, sempre grazie alle interpolazioni ex lege 7/2020, poi ratificate nel 2023, lo “stralcio” di “quelli che riguardano categorie particolari di dati personali” (che cosa ciò significhi giusta la modifica di cui al comma 2 bis come operata dalla l. 137/2023 non è immediato comprendere) sempre che – ecco il mantra! – non ne sia dimostrata la rilevanza. Un doppio vaglio onde cernere l’utile dal disutile, al postutto: in prima istanza è la polizia giudiziaria a trascrivere, nel verbale di risulta, ciò che viene a mostrarsi di rilievo; in seconda battuta è il pubblico ministero a vigilare acciocché in essi non compaiano “espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori”, beninteso a patto che non siano rilevanti per l’indagine. L’ovvio e l’ottuso, tanto per parafrasare Roland Barthes. L’ovvio in quanto, al di là delle puntualizzazioni del legislatore, il criterio del rilevante operava già prima delle novità di cui al 2023 (del resto a quale ulteriore paradigma si avrebbe potuto avere accesso …) – ora è solo maggiormente esplicitato; e l’ovvio anche perché quel filtro non può rilevare solo in damnosis deponendo inoltre “a favore della persona sottoposta ad indagine”. A “pesare”, non per nulla, è sì ciò che conferma il teorema di accusa di cui agli organi requirenti ma finanche ciò che quello disattende – qui, piuttosto, ci si dovrebbe interrogare se detta matrice, frazionata in quota-parte sullo specifico mezzo di ricerca della prova dell’intercettazione di flussi comunicativi, non possa fungere da “ricostituente” per la norma di carattere generale – a margine, una delle più deprezzate dell’intero panorama codicistico – ex art. 358 c.p.p. stante cui “[i]l pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 326” (quelle in ordine alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale: n.d.a.) “e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Con la dovuta avvertenza che, beninteso, la mancata attivazione in quel verso dovrebbe soggiacere ad un preciso obbligo rafforzato di motivare – presidio il quale, nondimeno, non appare garantito neppure nel contesto di cui all’art. 268 c.p.p. L’ottuso in quanto, nonostante le rassicurazioni del legislatore in ordine alla salvaguardia della privacy degli intercettandi, la liturgia del rilevante si celebra incessantemente senza soluzione di continuo. Al comma 2 ove ci si premura di declinare il tamquam non esset dell’irrilevante, neppure trascritto sommariamente, e del quale nessuna menzione … viene riportata nei verbali e nelle annotazioni della polizia giudiziaria, nei quali è apposta l’espressa dicitura: ‘La conversazione omessa non è utile alle indagini’”; al comma 2 bis se il pubblico dà indicazioni e vigila acciocché nei verbali “non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori … salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini”; infine la “provvidenziale”, per le investigazioni, catch-all clause di cui al comma 6 per il cui filtro “il giudice dispone l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari dati … sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza”. E non può che essere così, a bene vedere, se ci si deve cautelare avverso un uso pretestuoso di quei dati orientato a sottostimare la dimensione in utilibus delle attività captative di specie.
A detto scenario, già compiutamente definito, a Nostro modo di intendere, il decreto Nordio vuole aggiungere una pennellata d’autore. Intervenendo in corpore paragraphorum 2 bis e 6 la legge n. 114 del 2024, infatti, stipula, da un lato, che il pubblico ministero dia indicazioni e vigili affinché nei verbali, oltre a quanto indicato sopra, non refluiscano espressioni “che consentono di identificare soggetti diversi dalle parti”; idem dicasi per lo “stralcio” azionabile a mente del comma 6 dell’identico articolo (ivi procedendosi, anche d’ufficio, all’espunzione delle registrazioni e dei verbali “che riguardano … soggetti diversi dalle parti”). È inutile aggiungere che tutto ciò funziona nella misura in cui l’omissis non attenga ad un qualcosa che sia di rilievo per le indagini. Ma tutto questo, oltre a potersi già evincere ex ante giusta le coordinate di sistema, può addirittura mostrarsi controproducente. In dottrina si porta l’esempio dell’intesa corruttiva stante la quale il corrotto contatta un funzionario suo dipendente onde pre-annunziare che il corruttore farà giungere la documentazione mancante per partecipare ad un eventuale bando di gara in modalità all’apparenza comme il fâut; nel qual caso invitare il funzionario a rendere informazioni, in prima battuta alla polizia giudiziaria e, immediatamente a “ruota”, al pubblico ministero, poterebbe rivelarsi determinante per l’esatta ricostruzione del pactum sceleris. Ma di costui la polizia giudiziaria non può descrivere l’anagrafica nei verbali de quibus (neppure in modalità indiretta, putacaso significando l’utenza telefonica ad egli intestata); laddove il pubblico ministero, allorquando si fosse verificato un leak, dovrebbe immediatamente provvedere ad espungere le espressioni incriminate. Ne, a tale riguardo, si potrà fare affidamento sull’attività integrativa del giudice ex art. 507 c.p.p.: egli, di quell’ipotetico io-narrante, alla luce del principio di separazione delle fasi e della predisposizione del cosiddetto doppio fascicolo, nulla sa – e giammai nulla verrà a sapere. Rebus sic stantibus punge allora vaghezza che la ratio ispiratrice del novum, lungi dal conclamarsi nella tutela della posizione del terzo estraneo all’accertamento di responsabilità, sia un qualcosa di ben altro. E di ciò è indice sensibile – del resto, more solito, il “re è nudo” – già la Relazione accompagnatrice al disegno di legge Nordio/Crosetto (il secondo è l’attuale Ministro della Difesa), da cui è originata la l. 114/2024, in cui significativamente si legge che il provvedimento in questione non tanto è volto a rafforzare, tout court, il terzo estraneo al capo di imputazione quanto, in luogo, a garantirne la “privatezza” del dato sensibile “rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate”. L’incentro è allora offerto dal vocabolo ‘circolazione’. Sembrerebbe, ciò posto, che il legislatore tema che il pubblico ministero “deragli” dalle funzioni sue proprie di esercente, riscontrate le condizioni legittimanti, l’azione penale per trasformarsi in “cinghia di trasmissione”, agli organi di stampa, prima, ed all’incontrollabile web, poi, di tratti della vita privata degli intercettandi – e ciò per finalità del tutto estranee alla corretta amministrazione della giustizia. Un pubblico ministero voyeur, se ci si può permettere; ma, comunque sia, che quanto testé espresso non sia il portato di irriverenza sterile è nevvero testimoniato da una norma ulteriore, anch’essa intaccata dal decreto Nordio, ovverossia dall’art. 114 del codice di rito penale votato al Divieto di pubblicazione di atti e di immagini. Anche qui rileva il comma 2 bis, a “specifica”, per il contesto dei flussi intercettivi, di quanto dettato, in ottica generale, dai commi 1 e 2 (in estrema sintesi “[è] vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto” nonché “la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’articolo 292”). Come già anticipato il comma 2 bis puntualizzava (ed ancòra puntualizza) un quid di mirato con riguardo al mezzo di ricerca della prova ‘Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni’; in quanto introdotto dalla contro-riforma Bonafede e, poi, arricchito di trama ex lege 70 del 2020 (il terzo elencando ivi declinato) così esponeva: “È sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454”. Palese, qui, l’intendimento del legislatore benché nel richiamo di norme eterogenee: la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, finanche solo parziale, è legittima nella misura in cui quelle siano state acquisite a mente, nel rispetto, di tal che, di alcune indicazioni. Ovvero: A) ad esito delle operazioni di “stralcio” ex art. 268, commi 4, 5 e 6, c.p.p.; B) qualora così non si sia provveduto (il che, quasi sempre, accade nella prassi) soccorre l’ormai “onnivoro” avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415 bis c.p.p. (il comma 2 bis, anch’esso introdotto dalla contro-riforma Bonafede, a tale proposito recita che … “l’avviso contiene inoltre l’avvertimento che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di esaminare per via telematica gli atti depositati relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno la facoltà di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero. Il difensore può, entro il termine di venti giorni, depositare l’elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia. Sull’istanza provvede il pubblico ministero con decreto motivato. In caso di rigetto dell’istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute rilevanti il difensore può avanzare al giudice istanza affinché si proceda nelle forme di cui all’articolo 268, comma 6”); C) postremo, stante la riconosciuta intrasmissibilità dell’avviso di specie a fronte della richiesta, avanzata dal pubblico ministero, di procedere con giudizio immediato, un disposto equivalente nel corpo dell’art. 454 c.p.p. (tanto per essere originali l’ennesimo comma 2 bis, “colpevole” della cui introduzione è, una volta di più, la contro-riforma Bonafede). Il decreto Nordio “spariglia” il tutto: ora è sempre vietata la pubblicazione, quand’anche non integrale, ma a patto che quel contenuto non sia “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Altrimenti detto: non si dà più conto, in materia di intercettazioni, di un qualsivoglia atto della polizia giudiziaria, e del consequenziale vaglio sull’operato di quella reso dal pubblico ministero vigendo un divieto assoluto di pubblicazione al riguardo. Di quelle evenienze si sarà partecipi in esclusiva nella misura in cui il giudice se ne “appropri”: ogni atto riconducibile al pubblico ministero identifica un mero internum corporis a valore residuale, infra-procedimentale, il che legittima soltanto a presentare quei dati al giudice all’obiettivo di avvalorare le proprie richieste (tanto per esemplificare, un’istanza volta a somministrare una misura cautelare). E ad ulteriore conforto si mediti sul tenore dell’art. 116 c.p.p. giusta il cui primo comma, secondo periodo, “Non può comunque essere rilasciata copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi dell’articolo 114, comma 2-bis, quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori, salvo che la richiesta sia motivata dall’esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato” – da cui sembrerebbe evincersi stante il richiamo “congiunto” alle parti ed ai loro difensori, ma il testo normativo non è chiarissimo, che quell’istanza non possa essere avanzata a destinatario l’organo requirente del procedimento a quo. Honni soit qui mal y pense: ma, ciononostante, sembrerebbe self evident, di tal che, come il legislatore paventi che l’esercente l’azione penale divulghi, incontrollatamente, alla “fossa dei leoni” dei social “fatti e circostanze afferenti alla vita degli interlocutori”; un pubblico ministero mosso da “appetiti inconsulti”, malato di protagonismo e sensibile ai riflettori, “appetiti” che possono essere governati in esclusiva filtrando il tutto avvalendosi del judex vir prudens. Che poi tutto ciò identifichi la tappa iniziale di un progressivo, e spietato, “asservimento” dell’organo requirente al potere esecutivo è riflessione che trascende il limitato orizzonte di queste notule; ma ritenerlo non ci pare un fuor d’opera.
Meno tagliente, e perentorio, il giudizio complessivo sulla più recente interpolazione normativa id est la l. 31 marzo 2025, n. 47. Qui il legislatore agisce sui termini di durata delle captazioni de quibus adducendo come, a modifica dell’articolo 267, comma 3, terzo periodo, del codice di rito penale, “Le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. A differenza di quel che accadeva fino ad oggi, ove non risultava esplicitato un termine di durata massima per quelle operazioni (implicitamente, e per ovvie ragioni, non potevano comunque oltrepassare l’esaurirsi della fase delle indagini preliminari, proroghe di queste computate), di tal che potevano venire estese sine die (e, come si sa, una proroga non si nega a chicchessia), d’ora in innanzi quanto disposto potrà farsi oggetto di dilazione in esclusiva per due volte (il termine di durata, per così ordinario, restando fermo a quindici giorni laddove le concedibili proroghe non possono oltrepassare il tetto di ulteriori quindici giorni: 15 + 15+ 15 = 45 ovvero la durata massima di cui alla riforma).
Ciò premesso, ed al di là dell’enunciato eccettuativo introdotto da “salvo che …”, l’ordito ipotizzato dalla cosiddetta legge Zanettin non è privo di deroghe. Già a far tempo dal 1991, infatti, il quadro normativo rispondeva ad un doppio binario: le intercettazioni intra codicem, regolate sub specie di estensione temporale dalle norme dianzi richiamate (su tutto l’art. 267 c.p.p.); le intercettazioni extra codicem, disciplinate dal d.l. 13 marzo 1991, n. 152, recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, convertito, con modificazioni, in l. 12 luglio 1991, n. 203, il cui art. 13, comma 2, primo periodo, a fronte del verificarsi di un insieme composito di reati, o ivi elencati o a cui si fa riguardo mediante rinvii assortiti al nucleo disciplinare di questione, oltre ad attutire ulteriori presupposti legittimanti il ricorso allo strumento intercettivo, significa che “la durata delle operazioni non può superare i quaranta giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di venti giorni, qualora permangano i presupposti indicati nel comma 1”. Ebbene: il comma 2, lett. b), dell’articolo unico della l. 31 marzo 2025, n. 47, si premura di modificare quel disposto incidendone i tratti con l’aggiunta delle seguenti parole: “in deroga a quanto disposto dall’articolo 267, comma 3, del codice di procedura penale” – con il che quanto normato ex art. 13, comma 2, primo periodo, d.l. 152/1991 mantiene efficacia (altrimenti detto: per quel comparto non è fissato termine veruno di durata delle intercettazioni – al di là del venir meno fisiologico delle indagini preliminari, beninteso). Inoltre, come già in precedenza adombrato, la novità legislativa non configura una “norma-capestro” giacché il termine di quarantacinque giorni di durata delle intercettazioni può essere oltrepassato laddove “l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Rebus sic stantibus, acciocché l’intervento riformatore “tenga”, se ne deve vagliare ‘ragionevolezza’ e ‘proporzionalità’: solo ad epilogo di quel sindacato se ne potranno desumere costi e benefici (ed in questa difficile operazione si è confortati dall’emergere di primi attestati di soft law, nello specifico le “Linee guida interpretative”, di cui alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia –, emanate in data 15 aprile 2025, nonché le “Prime disposizioni a seguito dell’entrata in vigore della Legge 31.3.2025 n° 47 in materia di limite massimo di durata delle intercettazioni”, di cui alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, emanate in data 16 aprile 2025). Comunque ci si intenda disporre un dato è incontestabile: la legge Zanettin “brilla” più per gli omissis che per gli expressis – è innegabile una certa vaghezza di contenuti; di modo che a chi scrive pare utile verificarne la tenuta 1) alla luce delle fattispecie criminose che ne giustificano l’operatività (e, a contraltare, avendo finanche riguardo a quelle per cui ci si muove in deroga); 2) riflettendo sui presupposti che giustificano il superamento del termine, all’apparenza invalicabile, di durata. 1) Qui, a volere essere edulcorati, la traduzione legislativa è opinabile. È, prima di tutto, stucchevole elencare le fattispecie criminose giusta cui la disciplina ante legem 47/2025 è fatta salva. Al di là dell’infecondità dell’operazione elementare di discorso ‘elenco’ non è dato evincere, con sufficienza nettezza, il criterio distintivo che, ex art. 267 c.p.p., giustifica il novum e che, ex art. 13 d.l. 152/1991, dispone in deroga: non è certo la maggiore intensità lesiva dei reati a ripartire fra codice e normativa extra-vagante [basta soffermarsi sull’evenienza della minaccia a mezzo del telefono – fattispecie per la quale vige ciò che é eccettuato ex art. 13 – che, di certo, un graviora non è (a meno che non si declini giusta ulteriori illeciti penali: cfr. l’art. 612 bis in tema di ‘Atti persecutori’) – per accorgersi della “liquidità” della tracciata linea di demarcazione]. Invero, così motivandosi, aumenta il rischio che fattispecie le quali, giusta il diffuso allarme sociale che generano, debbono rientrare nell’eccezione si collochino nella regola (e viceversa). Ne è riprova il fatto che, immediatamente dopo l’approvazione della legge Zanettin, la Camera dei Deputati, con l’imprimatur dell’esecutivo, ha votato un ordine del giorno che impegna il Governo “ad adottare le opportune iniziative normative al fine di estendere ai delitti di violenza sessuale e di violenza di genere, di stalking, revenge porn e pedopornografia il regime della proroga prevista dall’articolo 13 del decreto-legge n. 152 del 1991”. La fretta di concludere ha indotto, in capo al legislatore, la “sindrome della ruota del criceto”: intrappolati in una routine frenetica e ripetitiva si cerca, affannosamente, di porvi rimedio ma il pendio su cui muoversi è costantemente scivoloso, nevvero (metafora dello slippery slope). Ciò che maggiormente disturba, pur tuttavia, attiene al fatto che non si acquisisce consapevolezza del vicolo cieco in cui, così agendo, ci si va ad imbottigliare. Pensiamo, tanto per dare concretezza a questi enunciati, ai reati di nuova fattura di cui all’ennesimo ‘pacchetto sicurezza’ (cfr. d.l. 11 aprile 2025, n. 48, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, in attesa di conversione), id est art. 270 quinquies.3 (sic!) c.p. (‘Detenzione di materiale con finalità di terrorismo’); art. 415 bis c.p. (‘Rivolta all’interno di un istituto penitenziario’): art. 634 bis c.p. (‘Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui’). Bréf: l’intercettazione dei flussi comunicativi è consentita con riguardo ai procedimenti ad oggetto gli illeciti penali testé menzionati è legittima in quanto, per ognuno di essi, la pena contemplata nel massimo edittale non è inferiore a cinque anni [l’art. 266, comma 1, lett. a), c.p.p., giustappunto recita che si può intercettare laddove ci si volga ad accertare la realizzazione di delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’articolo 4] – e lo stesso “imbuto”, sia detto en passant, è destinato a ri-presentarsi in ordine all’introducendo reato di femminicidio (v. d.d.l. S. 1433) che, secondo il nuovo art. 577 bis, verrebbe addirittura a punirsi con la pena dell’ergastolo. Ma, ciononostante, per essi opera la “scure” della riforma: temporizzati i quarantacinque giorni non possumus (un timer prima facie inflessibile, sembrerebbe. Attendiamo, con qualche riserva, la legge di conversione onde verificare se il riformatore approfitterà di quella sede per mandare ad effetto l’ordine del giorno di cui sopra). Così fosse varrebbe una bella immagine condivisa da un autorevole studioso, il professore Gianluigi Gatta, secondo il quale “[è] come dire a uno scienziato che sta compiendo una complessa ricerca per individuare una possibile e grave malattia: puoi farlo per due anni” (termine di durata massima, cum proroghe, delle indagini preliminari: n.d.a.) “, ma puoi usare il microscopio solo per un mese e mezzo!”. Piuttosto, alla luce di ciò, si dovrebbe riflettere sull’opportunità di individuare un meccanismo di raccordo fra tempi dell’inchiesta (come ri-disegnati – sei mesi per le contravvenzioni; un anno per i delitti, per così dire, comuni; un anno e sei mesi per i delitti di più complesso accertamento ex art. 407, comma 2, c.p.p. -, sine proroghe, dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, cosiddetta riforma Cartabia, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia) e tempi dell’intercettazione: del resto proprio il “crinale” della difficoltà dell’accertamento potrebbe integrare la linea di displuvio fra normativa Zanettin e disposizioni in deroga. 2) Al postutto, e pur tuttavia, la visibile, ad una prima occhiata, iugulatorietà del novum normativo può essere stemperata alla luce di una lettura adeguatrice dell’enunciato eccettuativo introdotto da “salvo che”. A bene vedere quell’inciso non dice alcunché … o meglio dice ‘che’ si può derogare ma non dice ‘come’. Venendone allora che gli elementi specifici e concreti potrebbero essere tratti non solo dall’attività intercettiva (che è attività non isolata bensì co-essenziale alle dinamiche di indagine) ma finanche aliunde “ovvero da altri versanti dell’investigazione, quali possono essere fonti di prova di carattere dichiarativo, documentale o di altra natura” o, ancora, laddove “dalle indagini complessivamente considerate, emerga la necessità di disporre una attività investigativa, che possa anche valere da stimolo per le intercettazioni (perquisizione; assunzione di informazioni; invito a comparire; ecc.), appare legittima la proroga motivata mediante la valorizzazione – quali elementi specifici e concreti – di quegli elementi che hanno reso necessaria l’attività investigativa c.d. stimolante, che sia stata nel frattempo disposta e si sia in attesa degli esiti” (cfr. le Linee guida interpretative della Procura di Messina; nel medesimo verso orientata, con ulteriori dettagli, la Procura di Monza, tanto più considerando che sì è in difetto di indicazioni/specificazioni normative). Fors’anche si potrebbe ritenere giustificato valorizzare al proposito criticità che potrebbero determinarsi nel corso dell’investigazione, del genere dell’inaccessibilità di una lingua straniera ai traduttori disponibili o dell’algoritmo da decodificare onde accostarsi a dati protetti. Quegli elementi specifici e concreti, poi, devono fondare l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore a quarantacinque giorni (presupposto, fra l’altro, già richiesto dall’articolato codicistico per legittimare le proroghe: l’art. 267, comma 3, secondo periodo, c.p.p., invero, continua ad appuntare che la durata delle intercettazioni “può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di quindici giorni, qualora permangano i presupposti indicati nel comma 1”, tra i quali, giustappunto, è censita altresì l’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini – l’intercettazione non può dare avvio a quelle, rendendo trasparente l’inespresso) ed essere fatti oggetto di espressa motivazione. E ciò è un bene giacché responsabilizza il giudice, e né, a monte, squalifica il pubblico ministero, come invece accade ad esito delle interpolazioni operate dal decreto Nordio sul combinato disposto degli artt. 114 e 268 c.p.p., a fornire conto effettivo del perché quel tempo per intercettare risulti un mero simulacro. Parliamoci chiaro: sarà pur vero che, in ordine a certi reati, non si intercetterà più, ma, fino ad oggi, le proroghe venivano concesse di default; al giudice non veniva rimesso strumento veruno onde esaminare au fond l’“autorizzazione a procedere” proveniente dall’organo dell’accusa – con il che era giocoforza accedere all’istanza, non fosse altro che per mantenere rapporti di buon vicinato con il proprio dirimpettaio; da ora in innanzi il redde rationem non dovrebbe modularsi in esclusiva giusta una clausola di stile. Stando così le cose dovrebbe allora bandirsi il ricorso a motivazioni per relationem le quali, invece, allorquando legittimate, perpetuerebbero l’equivoco di fondo: la soglia di tollerabilità dell’apparato giustificativo di quanto disposto dovrebbe di modo che arrestarsi prima (contra, nondimeno, le Linee guida interpretative di cui alla Procura della Repubblica di Messina ove si legge che “l’obbligo in questione … può intendersi assolto anche attraverso una motivazione per relationem, attraverso il rinvio alle informative della Polizia Giudiziaria, a condizione ovviamente che il provvedimento dia conto di avere preso in esame e fatto proprio l’iter cognitivo e valutativo utilizzato dalla P.G. e in ogni caso che, nella richiesta di proroga, vi sia qualche riferimento specifico da cui si desuma l’autonoma valutazione … ”; sia consentito ribattere che, così motivando, di ‘espresso’ vi è ben poco).
Sopravanza un ultimo “nodo gordiano”: il legislatore del 2025, in ciò uniformandosi, improvvidamente, a Nostro modo di vedere, a famosi precedenti (v. la cosiddetta riforma Cartabia il cui difetto di normativa intertemporale ha suggerito all’esecutivo Meloni di posticiparne, benché di poco, l’entrata in vigore, del pari intervenendo con correttivi al riguardo, stante il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, recante “Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonchè in materia di termini di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e di disposizioni relative a controversie della giustizia sportiva, nonché di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2, di attuazione del Piano nazionale contro una pandemia influenzale e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali”, convertito, con modificazioni, in l. 30 dicembre 2022, n. 199), ha optato per non dettare nessuna normativa transitoria in merito. L’interrogativo, al di là dell’omissis, è ugualmente destinato a proporsi: nulla quaestio sull’applicabilità del canone tempus regit actum (in luogo di quello che regola la successione di leggi penali “materiali”, e non processuali, nel tempo ovvero il tempus commissi delicti); nulla quaestio sul fatto che, a far tempo dal 24 aprile 2025 (data di entrata in vigore della l. 47/2025 giusta l’ordinaria vacatio di quindici giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale che, senza indicare tempistiche diverse al riguardo, è avvenuta il 9 aprile u.s.), troverà applicazione la legge Zanettin. Quid juris, invece, per le intercettazioni già avviate prima del time limit ora indicato? La soluzione non è univoca giacché non è ancora stato individuato l’actum sul quale “fa leva” il brocardo di cui sopra: o si fa riguardo alla richiesta del pubblico ministero o, in alternativa, all’emissione del provvedimento con il quale il giudice autorizza la captazione (ciò posto continuerebbe ad applicarsi la disciplina previgente); oppure si valorizzano le proroghe nel qual caso rileva il momento in cui queste sono state richieste (osservando che, stante la novità legislativa, ora esse non possono superare il numero di due). Ciò che, ad ogni buon conto, va evitata è la duplicità di regime giacché, altrimenti, per effetto di ciò, “intercettazioni autorizzate ed avviate prima dell’entrata in vigore della legge 47/2025 per una parte verrebbero sottoposte alla disciplina della precedente normativa dell’art. 267 comma 3 CPP – e come tali ad esempio già validamente oggetto di 2 proroghe di 15 giorni ciascuna per una durata totale di 45 giorni e con la prospettiva normativamente ammessa di ulteriori proroghe entro i termini massimi di durata delle indagini preliminari – e per altra parte dal 24.4 c.m. non sarebbero più prorogabili oltre tale limite temporale per effetto di una modifica introdotta all’articolo 267 comma 3 CPP successivamente rispetto all’avvio e alle proroghe della attività di intercettazione su uno specifico “target”” (così le “Prime disposizioni a seguito dell’entrata in vigore della Legge 31.3.2025 n° 47 in materia di limite massimo di durata delle intercettazioni” di cui alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza). Nondimeno il disinteresse di cui alle Assemblee Parlamentari genera “frizioni” (esegesi diverse): la Procura di Monza enuclea, dalla sua premessa, che “la norma risulta interpretabile nel senso che le intercettazioni validamente disposte e eventualmente” (la grassettatura è Nostra) “prorogate in base alla precedente disciplina, quale attività di indagine avviata in base alle allora vigenti disposizioni processuali, continuano ad essere soggette a tale disciplina e per le stesse potrà essere richiesta al GIP l’autorizzazione alla proroga anche oltre il limite di 45 giorni” (qui più che l’actum a rilevare sono pertanto gli acta ovvero quell’insieme di decreti che, con l’intervento congiunto di pubblico ministero e di giudice, dispongono, autorizzano, convalidano, prorogano l’“innescarsi” di quelle captazioni surrettizie); da un altro lato l’organo requirente di Messina, con forma espressiva più sobria, assume che “1) le intercettazioni già prorogate (anche oltre il quarantacinquesimo giorno) fino al 24.4.2025 debbono ritenersi valide ed efficaci; 2) le intercettazioni già avviate alla data del 24.4.2025 e quelle avviate dopo tale data, a partire dalla terza proroga sono soggette alla nuova disciplina” (il discrimen è qui, limpidamente, offerto dalla proroga). Ipotesi, quest’ultima, forse più in linea con il disegno riformistico (che incide in esclusiva su durata e su prolungamenti delle operazioni de quibus e non anche sui presupposti applicativi del mezzo di ricerca della prova siffatto) ma che non pare uscire appieno indenne dalle riserve espresse dal Procuratore della Repubblica lombardo.
A parabola finale l’ulivo: in verso figurato quella pianta simboleggia diverse qualità e concetti, tra cui pace, prosperità, longevità, rinascita, e fertilità venendo altresì associato a forza, resistenza e purificazione. Tutti obiettivi che un equilibrato ricorso allo strumento intercettivo dovrebbe cospirare ad assicurare (la ‘forza’ e la ‘prosperità’ delle attività di indagine, da un versante; la ‘resistenza’, e la consequenziale ‘purificazione’, da contaminazioni ad oggetto la vita privata degli intercettandi, da un altro). La ‘pace’ è ancora ben lungi dal sopravvenire: ma letture emancipate da preconcetti ideologici potrebbero, quantomeno con riguardo a determinati aspetti, facilitare la quadratura del cerchio.