In un precedente contributo (M. Deganello, Il processo penale minorile nella “stretta” del populismo riformatore: brevi osservazioni sul cosiddetto decreto Caivano, in www.associazionelaic.it, 18dicembre 2024) si era evidenziata, nell’ottica delle interpolazioni apportate al d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, recante “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, la “centralità” che era venuta assumendo l’art. 27 bis, come introdotto dall’art. 8, comma 1, lett. b), d.l. 15 settembre 2023, n. 123, recante “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale”, convertito, con modificazioni, in l. 13 novembre 2023, n. 159, dalla sibillina Rubrica ‘Percorso di rieducazione del minore’.
Ripercorriamone, in esclusiva per sommi capi, i tratti salienti di disciplina. Α) viene previsto un doppio vaglio, ed in astratto ed in concreto, di accesso. Nei fatti il pubblico ministero può proporre di definire anticipatamente il procedimento stante le coordinate de quibus in esclusiva laddove si proceda per un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a cinque anni ma solo a condizione che i fatti realizzato non si dimostrino di particolare gravità; β) atteso ciò il “monopolista” dell’azione penale può (trattasi di mera facoltà a differenza di ciò che imponeva il testo del decreto-legge: “il pubblico ministero notifica …”) notificare al minore ed all’esercente la responsabilità genitoriale la proposta di definizione anticipata di cui al punto α); γ) detta proposta evidenzia come l’interessato debba accedere ad un percorso di reinserimento e di rieducazione civica e sociale sulla base di un percorso rieducativo (qui repetita non iuvant …) che preveda lo svolgimento di lavori socialmente utili, la collaborazione, a titolo gratuito, con enti del Terzo settore (il testo originario del d.l. 123/2023 parlava di ‘enti no profit’), lo svolgimento di altre attività a beneficio della comunità, non meglio precisata, di appartenenza; δ) la durata del percorso va da un minimo di due mesi ad un massimo di otto mesi (il d.l. 123/2023 si attestava fra uno e sei mesi, invece); ε) una volta ricevuta notifica dell’istanza si rimette, all’indagato od al suo difensore, un termine (indeclinabile) di sessanta giorni entro il quale definire il programma rieducativo depositandolo presso il pubblico ministero; quest’ultimo, nell’immediatezza, lo trasmette al giudice per le indagini preliminari (d’ora in innanzi, per acronimo, g.i.p.) che, a sua volta, fissa udienza in camera di consiglio per deliberarne l’ammissibilità/inammissibilità (molto più draconiano, all’apparenza, il decreto legge giusta il quale il termine di definizione del programma constava di trenta giorni laddove nei dieci giorni successivi – non pare, qui, nondimeno riscontrarsi alcun momento sanzionatorio nel caso di inosservanza all’inoltro – al deposito del medesimo presso la segreteria dell’organo requirente quest’ultimo doveva trasmetterlo al giudice, in quest’ultimo contesto non meglio qualificato); ζ) nell’evenienza di ingiustificata interruzione questa è valutata (se ne tiene conto …) laddove venisse avanzata istanza di sospensione del processo con messa alla prova (più intellettualmente onesta, ma clamorosamente incostituzionale – l’esito infruttuoso di una sospensione del processo con messa alla prova (d’ora in innanzi, per acronimo, MAP), a tacer d’altro, non precludeva, né preclude post Caivano, la reiterazione dell’istanza de qua -, la formula di cui al decreto legge che, nel caso di mancata accessione al progetto o di interruzione ingiustificata di esso, escludeva l’applicazione degli artt. 28 e 29 D.P.R. ovvero “bannava” il ricorso alla messa alla prova): in altri termini si impegna il giudice a motivare, in forma rafforzata, qualora, nonostante quella precedente battuta d’arresto, ritenga ugualmente di accedere alla “mozione sospensiva”; η) da ultimo, tenuto conto del comportamento dell’imputato e dell’esito positivo del percorso rieducativo, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato; nel caso contrario si restituiscono gli atti al pubblico ministero acciocché si determini in ordine all’esercizio dell’azione penale. Nonostante la legge di conversione avesse provveduto a smussare gli aspetti più controversi di cui al decreto di urgenza (su tutto le tempistiche iugulatorie di accesso al percorso rieducativo) il messaggio che informa il novum di specie è lampante: che si faccia il prima possibile, senza punto curarsi delle esigenze educative dell’interessato [e ciò nonostante la Corte costituzionale, in un suo recente leading case – Corte cost., sent. 10 giugno – 6 luglio 2020, n. 139 -, nel ribadire l’estraneità della MAP dalla fase delle indagini preliminari, abbia, con nettezza di tratto, significato che “la messa alla prova del minore evidenzia caratteristiche specularmente opposte a quella dell’adulto, poiché l’essenziale finalità rieducativa ne plasma la disciplina in senso rigorosamente personologico, estraneo ogni obiettivo di deflazione giudiziaria”]. E detto intendimento sottende diffuse criticità giusta il profilo della compatibilità del novum normativo con il formante costituzionale (nello specifico con gli artt. 3 – principio di eguaglianza – e 31, comma 2 – tutela, in parte qua, dell’infanzia e della gioventù -, Cost.). Di ciò si è fatto latore, in un’articolata ed ineccepibile ordinanza stante il momento della causa petendi (un poco meno, come si avrà cura di osservare a breve, dall’angolo visuale del petitum), il giudice per le indagini preliminari (d’ora in innanzi, per acronimo, g.i.p.) del Tribunale per i minorenni di Trento che, in data 6 marzo 2024, ha investito della riscontrata quaestio de legitimitate la Corte di Palazzo della Consulta. Ecco i punti a fondamento della non manifesta infondatezza e della rilevanza della censura avanzata.
Chiamato a decidere in merito ad un capo d’imputazione ad oggetto il combinato disposto degli artt. 612 (‘Minaccia’) e 339 (‘Circostanze aggravanti’) del codice penale, a fronte della supposta aggressione da parte di un infradiciottenne nei riguardi del proprio genitore con un coltello da cucina, il giudice trentino verificava la notifica, ad opera dell’esercente l’azione penale, della proposta di definizione anticipata del procedimento tramite percorso di rieducazione; il difensore del minorenne, a sua volta, si doleva del tempo estremamente ridotto (sessanta giorni) per strutturare l’intervento de quo al contempo domandando una proroga a “supplenza”, il pubblico ministero, nondimeno, replicava come ciò non fosse sottoscrivibile giacché la norma di riferimento (l’art. 27 bis d.p.r. cit.) non si esprimeva al proposito; di tal che, consequenzialmente, il difensore dell’interessato si limitava un centro di aggregazione territoriale presso cui l’under age avrebbe svolto attività di volontariato (senza punto declinare un progetto di intervento come, ad esempio, illustrato ex art. 27, comma 2, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 272, a Rubrica normativa “Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, in tema di MAP). Ciò premesso, in un considerandum di ordine generale, il giudice a quo lamenta la “cattiva coscienza” di cui al riformatore ove si dissimula, dietro le mentite “spoglie” di una valenza educativa/rieducativa, la vera anima dell’istituto. A bene vedere “[l]a disciplina dettata dall’art. 27 bis del d.P.R. n. 448 del 1988 … solleva significativi dubbi di costituzionalità nelle misura in cui prevede per il minore sottoposto a procedimento penale una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che di tipo educativo, in contrasto con quanto richiesto dall’art. 31 comma II Costituzione, … secondo cui qualsiasi trattamento punitivo nei confronti di un minore è ammesso se e solo se è sorretto, animato e orientato a fini educativi. Il procedimento introdotto all’art. 27 bis … è primariamente proteso all’attuazione dei principi di razionalizzazione della risorsa giudiziaria e di celere definizione del procedimento penale, fornendo al minore la possibilità di addivenire a una rapida fuoriuscita dal procedimento penale, incardinato per l’accertamento di reati di lieve offensività”. Nondimeno l’eccessiva valorizzazione dei principi de quibus ha “comportato la compromissione di quegli strumenti, propri di un sapere scientifico-pedagogico, necessari ad assicurare quell’approccio personalistico indispensabile per garantire al trattamento giurisdizionale minorile la sua finalità educativa. Non è un caso se tutte le ipotesi normative rivolte a introdurre nel rito minorile forme di definizione anticipata del procedimento sono sempre rimaste su un piano teorico, non riuscendo a superare i dubbi in ordine alla loro compatibilità a Costituzione. Così è avvenuto, ad esempio, con riferimento alla possibilità di introdurre nel rito minorile l’applicazione della pena su richiesta delle parti …” (a tale riguardo cfr. Corte cost., sent. 6 – 12 luglio 2000, n. 270). Nello specifico della vicenda deputata all’attenzione del giudice rimettente “non è possibile giudicare se le ore di volontariato previste dal programma rieducativo, in assenza di informazioni specifiche sulle caratteristiche personali del minore e in relazione ai parametri di riferimento normalmente in rilievo, … siano congrue a perseguire una funzione rieducativa, intesa come concreta opportunità di crescita, maturazione e responsabilizzazione del giovane”; piuttosto, rebus sic stantibus, “l’unica valutazione in concreto possibile afferisce alla proporzionalità tra il contenuto del programma rieducativo proposto e i fatti per cui si procede con riferimento alla tipologia e alla gravità del reato contestato”; pur tuttavia “una simile valutazione implicherebbe una logica esclusivamente retributiva,, anziché educativa, nella risposta trattamentale, contraria agli assiomi basilari del processo minorile”. Una volta osservato che quanto precede risulta “intrinsecamente conness[o] con la disciplina dettata dall’istituto delineato dall’art. 27 bis, laddove introduce nel sistema penale minorile una risposta trattamentale solo nominalmente educativa, ma che nella sostanza riesuma una funzione prettamente retributiva, determinando allo stesso tempo delle possibili disparità di trattamento” ne viene, pianamente, la fondatezza e la rilevanza della quaestio de legitimitate.
Più nel dettaglio i “riflessi di opacità” della normativa di nuovo conio si appuntano lungo quattro dorsali ben indicate – A) brevità ed improrogabilità del termine di deposito del programma rieducativo; B) marginalità del ruolo dei servizi minorili nella redazione e attuazione del programma medesimo; C) impossibilità per il giudice di ovviarvi tramite gli ordinari strumenti istruttori; D) natura togato-monocratica del giudice officiato della procedura – che vengono ad evidenziarsi scomponendo l’istituto giusta la seguente tripartizione: “la fase prodromica, cioè la redazione della proposta del programma rieducativo, la fase intermedia, cioè l’ammissione da parte del Giudice al programma proposto, la fase conclusiva, cioè la valutazione all’esito del periodo di osservazione”. Il giudice a quo, declinate le coordinate di specie, provvede, con lodevole impostazione metodologica, alla ricerca di una esegesi costituzionalmente orientata/conforme del quid, tesa a “salvarne” il tratto distintivo. La carenza di informazioni sul minore potrebbe allora essere supplita mediante lo strumento di cui all’art. 9 d.p.r. 448/1988 “in forza del quale è riconosciuto al Pubblico ministero e al Giudice il potere di acquisire d’ufficio «elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto»” nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili (l’ultimo inciso fuori virgolette giacché non richiamato dal giudice a quo). L’insufficiente supporto all’andamento del progetto in relazione al percorso di crescita del minore potrebbe venire a sua volta compensato “ricorrendo allo strumento previsto dall’art. 6 d.P.R. n. 449 del 1988 in forza del quale «in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria si avvale, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza sociali e sanitari istituiti dagli enti locali e dal Servizio sanitario nazionale». Si potrebbe ipotizzare che il Giudice si possa avvalere dei servizi pubblici per attribuire loro tutti quei compiti assegnati ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia nell’ambito della messa alla prova ex art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988”. Cionondimeno ambedue i correttivi proposti agli intendimenti del legislatore, per il giudice trentino, non funzionano: “per quanto attiene l’integrazione informativa … tale attività determinerebbe una significativa dilazione temporale che si contrapporrebbe alle esigenze di celerità e deflazione perseguite con l’istituto di cui all’art. 27 bis”; “rafforzare l’intervento dei servizi”, d’altro canto, “implicherebbe ugualmente una dilazione temporale”. Anzi: avere inserito nel corpo dell’art. 6 d.p.r. cit. (v. l’art. 6, comma 1, lett. Oa della legge di conversione del d.l. 123 del 2023) la, ormai esatta di default, clausola di invarianza finanziaria – senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica’ – bene “mette in luce l’incertezza … nel regolare l’intervento dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia all’interno dell’istituto in esame, nella misura in cui dapprima” [si] “prevede che il progetto debba essere redatto «sentiti i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia» e successivamente che il progetto debba essere redatto «in collaborazione anche con i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia»”. Dal che sembrerebbe consequenziale evincere che “l’intervento in parola non sia obbligatorio, potendo la difesa limitarsi a un’interlocuzione con i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia prima di presentare il progetto, e in secondo luogo … che l’intervento dei servizi sia limitato al reperimento delle attività e non già a una presa in carico del minore nelle forme dell’affidamento”. Ad extrema Thule sopravanza “esaltare” ruolo e poteri del Giudice. Quest’ultimo potrebbe, difatti, ritenere non congruo il progetto educativo in quanto inidoneo a soddisfare le esigenze de quibus di cui al minorenne. Nondimeno, ipotizzando soluzioni ad esito di detta verifica, nell’un caso “si potrebbe disporre la restituzione degli atti al PMM” (acronimo per ‘pubblico ministero minorile’) “, così come avviene nei casi di mancato avvio, di interruzione o di esito negativo del progetto” il che, al tirar delle somme, “non appare attuabile in quanto determin[erebbe] una regressione del procedimento penale in assenza di un’espressa previsione normativa o di un vizio tale da inficiare la prosecuzione del processo” tutto ciò, fra l’altro, contrapponendosi “alla determinazione processuale assunta dalla difesa, che con la presentazione del progetto educativo ha univocamente palesato, con parziale sacrificio della presunzione di non colpevolezza, la volontà di addivenire a una rapida definizione del procedimento”; nell’un altro il giudice potrebbe integrare, ex officio, “il progetto educativo presentato dalla difesa” con il che, pur tuttavia, “riaffiorerebbero tutte le criticità sopra descritte circa la possibilità per il Giudice di ricorrere agli strumenti normativi volti a colmare il quadro conoscitivo. Inoltre, l’integrazione ufficiosa del progetto risulta incompatibile con la natura negoziale della proposta educativa, posto che la determinazione del suo contenuto è rimessa alla difesa e quindi ogni attività integrativa dettata dal Giudice rimarrebbe priva di titolo legittimante”. Ad esito di una detta, rigorosa, verifica ci si attenderebbe (rectius, sarebbe dato attendersi) un petitum di uguale sostanza. Qui, invece, il modus operandi del giudice trentino diviene maggiormente “cincischiato” nel senso che, ad epilogo, della parte motiva dell’ordinanza egli assicura che “l’istituto introdotto all’art. 27 bis d.P.R. n. 448 del 1988 solleva dei dubbi non manifestamente infondati in relazione all’art. 3 e all’art. 31 comma II Costituzione” (con ciò parendo adombrarsi la necessità di un intervento ablativo ad oggetto il novum disciplinare – incostituzionale in quanto tale l’art. 27 bis ult. cit., altrimenti detto) laddove, nei PQM, la quaestio de legitimitate viene a sollevarsi “nei termini dianzi indicati” ovvero adducendo a paradigma di doglianza quanto supra compendiato dalla lettera A) alla lettera D) (con ciò parendo, invero, addursi la necessità di un intervento solo manipolativo sul testo di interesse – incostituzionale “nella parte in cui”, “nei sensi di cui a motivazione”, l’art. 27 bis ult. cit., altrimenti detto). E ciò assume un ruolo centrale in quanto deciso dalla Corte costituzionale e, prima ancora, alla luce di un’eccezione di inammissibilità delle questioni, per oscurità del petitum, come avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio pro Presidente del Consiglio dei ministri.
È ormai giunto il momento di cedere spazio alla Corte costituzionale. Quanto venutosi a determinare è rassicurante per chi scrive giacché, in un precedente commento, si erano ritenuti esplorabili tre scenari: 1) attendere il ben volere del riformatore (opzione attenuata alla luce di dubbi significativi); 2) dichiarare la non conformità, tout court, alla legge fondamentale dell’art. 27 bis d.p.r. 488/88; 3) intervenire ortopedicamente sulle componenti di maggiore asprezza del novum di legge. Ebbene: con sent. 10 febbraio – 6 marzo 2025, n. 23, il giudice di legittimità delle leggi ha sì fornito ascolto alle doglianze espresse dal giudice a quo ma ad epilogo di un prodotto “sofferto”, nevvero. Trattasi, al postutto, di una sentenza, in parte qua, para-legislativa (stante ciò i giudici costituzionali mostrando di non prestare fede ad eventuali, future, dimostrazioni di buona volontà ad emenda in capo al legislatore) [con riguardo agli elencandi riassunti sub lettere A), B) e C)] e, in parte qua, frutto di declaratoria di illegittimità costituzionale [con riguardo specifico alla censura di cui alla lettera D)]. L’autostima del latore di queste notule è salva … ma ben più di rilievo, per il lettore, appare enucleare i tratti distintivi della parte motiva. E valga il vero. A) Sul punto la Corte è lapidaria: “la contrazione procedimentale determinata dalla brevità del termine di deposito del programma rieducativo è suscettibile di adeguamento interpretativo”. Ora, se è ben vero che “il comma 2 dell’art. 27-bis ha un’apparenza cogente, in quanto prescrive che il deposito del programma «deve avvenire» entro sessanta giorni, il che, nel caso di specie, ha prima indotto il pubblico ministero a negare la proroga del termine e poi il giudice rimettente a considerare il termine stesso come perentorio”, in realtà, “ai sensi dell’art. 173 cod. proc. pen. …, in difetto di un’espressa previsione decadenziale, il termine è prorogabile”. Venendone che, “se per giustificate ragioni, non riesce a rispettare il termine di deposito di sessanta giorni e necessita di altro tempo per redigere il programma rieducativo, la difesa del minore può ottenere una proroga dal pubblico ministero; e lo stesso pubblico ministero può concedere una proroga del termine in funzione della sollecitazione rivolta alla difesa affinché integri un programma lacunoso”. Argomento auto-confutante in quanto, avendo riguardo ai termini prorogabili ope judicis – e qui si rientra pleno jure nella macro-classe siffatta (per l’esempio paradigmatico cfr. l’art. 406 c.p.p. in tema di proroga delle indagini preliminari) – è tutt’affatto che assodato che la prorogatio disposta al di fuori dei casi consentiti (e di ciò non v’è traccia leggendo l’art. 27 bis cit.) impedisca che si verifichi decadenza. B) Anche qui la Corte, ben di là di sottoscrivere un’esegesi costituzionalmente orientata/conforme, riscrive la norma (fuor di verbale, fa il legislatore). “L’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988, nonostante una formulazione non perspicua, contiene elementi da valorizzare nel senso della presenza costante della struttura pubblica a fianco del minorenne in prova. Eloquente la disposizione del comma 4 che, prevedendo un’informativa dei servizi al giudice circa l’interruzione o mancata adesione dl minore al percorso rieducativo, evidentemente postula che il minore stesso sia seguito dai servizi, fin dall’inizio della prova e durante il suo svolgimento. Lo stesso programma di reinserimento non può essere elaborato senza l’intervento dei servizi minorili, giacché, per il comma 1 dell’art. 27-bis, questi devono sempre essere «sentiti» in merito, e anzi, per il successivo comma 2, il programma deve essere redatto collaborando «anche» con i servizi minorili, laddove la particella non allude alla mera eventualità, ma a un vero e proprio obbligo di coinvolgere “anche” (e dunque “altresì”) i servizi minorili stessi”. Autentici funambolismi semantici, sia consentito così esprimersi, in quanto, da un lato, il comma 1 reca che i servizi devono essere “sentiti” (e non, stante un ipotetico marcatore enfatico aggiuntivo, che qui non risulta, che debbano essere sempre sentiti) – ma, pur anche così fosse, ciò prova troppo dacché il fatto di essere sentiti non assicura che, in corso d’opera, l’infradiciottenne venga affidato ai servizi sociali (v. l’art. 28, comma 2, d.p.r. 448/88 in tema di sospensione del processo e messa alla prova) o, finanche, “preso in carico” da un organo ad hoc [nella specie l’ufficio di esecuzione penale esterna (per acronimo U.E.P.E.)] come interviene per l’over age ammesso alla prova giusta l’art. 464 quinquies, comma 2, c.p.p. – su questi profili l’art. 27 bis di Nostra cura depone un imbarazzante silenzio; da un altro è ben vero quel che dice il comma 2 … ma soggiungere che ciò esplicita un vero e proprio obbligo di coinvolgere “anche” (e dunque “altresì”) i servizi è una palese tautologia. “Anche” ed “altresì”, a tacere ulteriormente, identificano realtà sinonimiche: obbligo di coinvolgere “anche”, e dunque “anche”, laddove non lo si fosse compreso, al di là della circolarità non risolve alcunché in merito all’interrogativo da cui si erano prese le mosse. C) Qui la Consulta persuade maggiormente. “[L]’omessa previsione della facoltà del giudice di integrare o modificare il programma rieducativo potrebbe indurre a ritenere che il giudice stesso si trovi davanti all’alternativa secca – accettare o respingere l’accordo delle parti -, sì da atteggiarsi quasi a un giudice del patteggiamento dell’adulto. Anche questa incongruenza” (sic!) “si presta tuttavia ad una correzione interpretativa, sulla base di quanto la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato per la prova minorile ordinaria, dovendosi in particolare ritenere che al giudice non sia precluso disporre integrazioni o modifiche del progetto di intervento, ma solo farlo in modo unilaterale, senza consultare le parti e i servizi …”. Ciononostante, ci si permetta di soggiungere, ed al di là del discutibile tertium comparationis addotto – la sospensione del processo e messa alla prova ex art. 28 d.p.r. 448/88 – il richiamo alle pronunzie dell’organo di nomofilachia potrebbe addirittura rivelarsi controproducente una volta osservato che, alle nostre latitudini, la giurisprudenza ha valenza solo suscettiva (di indirizzi e di applicazioni concrete) e non certo precettiva (di condotte e di sistemi normativi). Meglio sempre evocare i principi, di tal che.
Residua il profilo della natura togato-monocratica dell’organo decidente ovvero quanto supra indicato sub lettera D). Qui è dato evincere una totale “manomissione” del novum: sul presupposto, indimostrato, a dire il vero, che il giudice rimettente non chiede l’ablazione dell’art. 27 bis d.p.r. cit. bensì una manipolazione in corpore vivo del percorso rieducativo di specie, quanto alla struttura del giudice, “la norma censurata, nel testuale riferimento, al comma 2, al «giudice per le indagini preliminari», si oppone a qualunque interpretazione adeguatrice, poiché il GIP minorile, a norma dell’articolo 50-bis, comma 1, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), è giudice singolo, privo della componente onoraria esperta. In ossequio all’art. 31, secondo comma, Cost., la dizione della norma censurata deve essere quindi sostituita con quella «giudice per l’udienza preliminare», con riferimento, cioè, all’organo che, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 50-bis è composto, oltre che dal magistrato, da due giudici onorari esperti. Per conseguenza, ogni riferimento al «giudice», contenuto nei commi dell’art. 27-bis del d.P.R. n. 448 del 1988 successivi al comma 2, deve essere inteso come riferimento al GUP”. Rebus sic stantibus è consequenziale epilogare per l’illegittimità costituzionale dell’art. 27 bis nella parte in cui indica «giudice per le indagini preliminari», «anziché giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 2, del regio-decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)». Sopravanzano due criticità. La prima, di cui la Corte sembra non essere avvertita, attiene alla composizione per genere del “collegio preliminare”. L’art. 30 comma 1 lett. e) n. 2 d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, recante “Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata” (così qualificabile riforma Cartabia extra-penale), in vista della prossima ventura – dall’ottobre 2025 – compiuta “mandata a regime” dell’istituendo Tribunale per le Persone per i Minorenni per le Famiglie, interpola proprio il testo dell’art. 50 bis, comma 2, r.d. 12/1941, assicurando che la sezione distrettuale del Tribunale de qua giudica in composizione ternaria, un magistrato e due giudici onorari esperti della stessa sezione. Viene meno, apertis verbis, il riferimento alla componente binaria di cui alla precedente “vulgata” dell’articolo da ultimo evocato la quale, dopo “due esperti”, incideva “un uomo e una donna” [sia detto en passant: la differenziazione per genere viene a conservarsi avuto riguardo alla formazione del collegio della sezione di corte di appello dacché l’art. 30 comma 1 lett. h) n. 2 d. lgs. 149/2022, nel modificare l’art. 58, comma 2, r.d. 12/1941, si limita ad inserire la formula “consiglieri onorari” prima di “esperti” nulla adducendo sulla specifica “un uomo ed una donna” – dunque ancora vigente). La ritenuta specializzazione, a fronte della evidenziata sciatteria, potrebbe allora patire limitazioni inaspettate. L’ulteriore momento di complessità attiene ai poteri dell’organo giudicante (il GUP, altrimenti detto): e qui il Tribunale costituzionale deposita una risposta interlocutoria. “All’indicazione del GUP quale organo officiato dell’ammissione del minore al percorso di reinserimento corrisponde la qualificazione della proposta del pubblico ministero come atto di esercizio dell’azione penale. Per quanto il comma 1 della norma censurata abbia un riferimento temporale piuttosto generico («[d]urante le indagini preliminari»), esso deve interpretarsi nel senso che la proposta del pubblico ministero possa intervenire solo quando sia sufficientemente definito il contesto del fatto-reato e il quadro esistenziale del minore, quando cioè sia possibile valutare, non soltanto che «i fatti non rivestono particolare gravità», come esige lo stesso comma 1, ma anche che non sia possibile chiedere la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n.448 del 1988. Il tenore letterale della norma in questione non preclude tale interpretazione, e anzi la accompagna, laddove si riferisce al minore, raggiunto dalla proposta ex art 27-bis, come «imputato» (comma 3), laddove parla di conseguente sospensione del «processo» (ancora, comma 3) e di eventuale estinzione del reato per «sentenza» (comma 6)”. Bréf: non è immediato comprendere se il giudice di riferimento (il GUP) operi in esclusiva nello “steccato” ad egli deputato (giustappunto l’udienza preliminare ovvero a seguito dell’esercizio dell’azione penale) o possa “estendersi” altresì – funzionalmente/atipicamente – alla fase delle indagini preliminari. Del resto, se l’obiettivo dichiarato della riforma sta nell’agevolare la più rapida fuoriuscita possibile dell’infradiciottenne dal circuito processuale, non sembrerebbe del tutto un azzardo motivarsi nel verso additato.
Piaccia o non piaccia l’art. 27 bis d.p.r. 448/1988, come sagomato dall’intervento “abrasivo” della Corte costituzionale, delinea un quid aliud rispetto al tracciato di cui agli intendimenti del riformatore del settembre/novembre 2023. È un colpo mortale, quello inferto dal giudice di legittimità delle leggi, allerationes di cui alla novella (meglio, agli inconfessati desiderata del Patrio Legislatore). E quest’“offesa” sarebbe stata finanche più profonda se la Corte costituzionale avesse accolto – in una pronuncia quasi coeva a quella da Noi annotata (cfr. Corte cost., sent.14 gennaio – 4 febbraio 2025, n. 8) – la quaestio de legitimitate, sollevata con due distinte ordinanze emesse in data 25 marzo 2024 dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Bari ad oggetto l’ulteriore norma-emblema dei “caivanisti” ovvero il comma 5 bis dell’art. 28 d.p.r. 448/88 (anch’essa “coniata” dalla legge di conversione del d.l. 123/2023). Giusta un quid unicum, sino a quel frangente temporale neppure ipotizzato, la sospensione del processo e messa alla prova, che poteva indifferenziatamente prospettarsi ad ogni under age autore di reato (la gravità di quest’ultimo riflettendosi in esclusiva sulla durata della probation), ora è interdetta a fronte della commissione di determinati reati: “Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai delitti previsti dall’articolo 575 del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 576, dagli articoli 609-bis e 609-octies del codice penale, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 609-ter, e dall’articolo 628, terzo comma, numeri 2), 3) e 3-quinquies), del codice penale”. Con riguardo ad evenienze di omicidio aggravato di violenza sessuale aggravata e di rapina (l’inclusio unius exclusio alterius è alquanto fantasiosa, a tacer d’altro) ai minori interessati è ordunque preclusa, juris et de jure, un’opportunità appetibile di riscatto (oltre che un commodus discessus per l’ordinamento). Ebbene: investito di due capi di imputazione riguardanti la commissione di violenze sessuali aggravate il giudice pugliese sondava la natura, processuale o sostanziale (e ciò non era mera astrazione dogmatica giacché i referenti che disciplinano la successione delle leggi penali nel tempo sono ben diversi nell’un caso e nell’altro), dell’istituto in questione. Valesse la natura processuale della MAP si dovrebbe avere attinenza al canone del tempus regit actum; valesse, d’altro canto, la natura sostanziale varrebbe il “dogma” dell’irretroattività della lex gravior (più problematico, a margine, confidare nella retroattività della lex mitior insegnamenti della Corte dei Diritti Umani non obstantibus). Il GUP barese adduceva che “l’istituto della sospensione del processo penale minorile con messa alla prova, pur avendo effetti sostanziali – posto che l’esito positivo della prova determina l’estinzione del reato – sarebbe «intrinsecamente caratterizzato da una dimensione processuale». Opererebbe quindi, in relazione ad esso, il principio tempus regit actum, e non già «il principio della lex mitior riferibile esclusivamente alla fattispecie incriminatrice e al trattamento sanzionatorio». La legge processuale applicabile andrebbe individuata segnatamente in quella vigente al momento della pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988, e non in quella vigente al momento della richiesta di sospensione del processo”. Essendo il provvedimento autorizzativo la MAP intervenuto successivamente – il giorno 11 dicembre 2023 – all’entrata in vigore della riforma era, di conseguenza, “doveroso” sollevare questione di legittimità costituzionale nel pieno rispetto delle verifiche di non manifesta infondatezza e di rilevanza del quid. Muovendo da consumato attore sulla “scacchiera” di tali, delicati, equilibri, il giudice costituzionale, accogliendo un’eccezione di inammissibilità raccomandata dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha vita facile nel ritenere, invece, la natura sostanziale della MAP: “[p]er il fatto di precludere, per taluni reati, la possibilità di un esito processuale alternativo all’eventuale riconoscimento di responsabilità e alla conseguente irrogazione della pena detentiva per il minore, detta disposizione incide direttamente sulla disciplina sostanziale di quelle fattispecie di reato, con la conseguenza che la stessa non può essere assoggettata al principio tempus regit actum, ma deve essere ricondotta nell’ambito di operatività dell’art. 2, secondo comma, Cost., che stabilisce il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Principio, quest’ultimo, che, a differenza di quello di retroattività della lex mitior, ha valore assoluto e non è soggetto a bilanciamenti con eventuali controinteressi”. Con il che, non dovendosi applicare alle vicende oggetto di accertamento nei giudizi a quibus la normativa innovata, è consequenziale epilogare per l’inammissibilità, nei sensi di cui in motivazione, delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento all’art. 31, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Bari con le ordinanze summenzionate.
Occasione irrimediabilmente persa onde accedere ai merita causae, quindi? La risposta da consegnarsi sembrerebbe negativa – del resto le istanze securitarie, come le bugie, hanno le gambe corte di tal che sono destinate a “franare” sotto il maglio impietoso della conformità al dettato sovra-ordinato (costituzionale o convenzionale che sia). Nelle more di redazione di questi appunti, non per nulla, chi scrive ha avuto notizia, benché eleggendosi a fonte solo un organo di stampa (Il Fatto Quotidiano, Decreto Caivano, la messa alla prova dei minori finisce davanti alla Consulta, 11 marzo 2025), che il Tribunale per i Minorenni di Roma avrebbe consegnato ulteriori dubbi di costituzionalità all’attenzione del giudice di legittimità delle leggi. Il divieto di messa alla prova, come impostato dal riformatore del 2023, contrasterebbe con l’articolo 31 della Costituzione, ove si tutelano l’infanzia e la gioventù, oltre che con l’art. 3, sempre della Gründnorm, in quanto introdurrebbe una disparità di trattamento fra reati. Secondo il giudice rimettente, infatti, la possibilità di accedere a percorsi rieducativi è ancora consentita, tanto per esemplificare, per i minori imputati di associazione mafiosa ma viene negata, a contraltare e tanto per esemplificare, a quelli accusati di violenza sessuale aggravata. La norma, da ultimo, potrebbe accrescere il rischio di recidiva rendendo impraticabile, per i minori autori di “reati inibiti”, un vero percorso di recupero. Are Jericho walls tumbling down? Alla Corte costituzionale l’ardua sentenza!