Questo articolo riprende alcune riflessioni di Tadeusz Sierotowicz, Fenomenologia del metodo investigativo. L’abduzione e il metodo di Monsieur Poirot, nonché di Dario Antiseri e Adriano Soi, Intelligence e metodo scientifico.

1. Il paradigma indiziario 

Carlo Ginzburg, storico italiano, ha proposto il concetto del paradigma indiziario. Scriveva: “Per millenni l’uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, piume impigliate, odori stagnanti. Ha imparato a fiutare, registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come fili di bava. Ha imparato a compiere operazioni mentali complesse con rapidità fulminea, nel fitto di una boscaglia o in una radura piena d’insidie”.

Un cacciatore segue un animale e, sulla base delle tracce lasciate dalla preda, indovina le sue dimensioni, il suo comportamento e le sue intenzioni. I dati vengono disposti dall’osservatore in modo tale da dar luogo ad una sequenza narrativa, così che tutto si presenti come una serie coerente di eventi. Pertanto, sottolinea Ginzburg, “il cacciatore sarebbe stato il primo a raccontare una storia perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili) lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi”.

Secondo Ginzburg, è facile scorgere la presenza del paradigma indiziario nei campi del sapere in cui l’oggetto di studio è costituito da un singolo evento, una situazione irripetibile, unica, individuale. Così avviene in criminologia, archeologia, storia, letteratura, e forse anche in medicina.

Il paradigma indiziario è particolarmente diffuso fra gli autori di romanzi polizieschi: i personaggi come Sherlock Holmes, Dupin, Guglielmo da Baskerville, Fandorin, Aristotele e Poirot uniscono nella loro prassi un’analisi approfondita delle tracce, le loro possibili interpretazioni e la ricerca di un’esauriente spiegazione che sia in grado di unire in una narrazione coerente tutto l’insieme degli indizi trovati.

Questa circostanza è stata perfettamente descritta da Guglielmo da Baskerville, che spiega ad Adso da Melk le caratteristiche principali del paradigma indiziario: “Adso – disse Guglielmo – risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno, o due, o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possono essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata enunciata … Di fronte ad alcuni fatti inspiegabili tu devi provare a immaginare molte leggi generali, di cui non vedi ancora la connessione coi fatti di cui ti occupi: e di colpo, nella connessione improvvisa di un risultato, un caso e una legge, ti si profila un ragionamento che ti pare più convincente degli altri. Provi ad applicarlo a tutti i casi simili, a usarlo per trarne previsioni, e scopri che avevi indovinato. Ma sino alla fine non saprai mai quali predicati introdurre nel tuo ragionamento e quali lasciar cadere”.

2. L’abduzione

È opportuno soffermarsi sul modo di ragionare attraverso il quale emerge una nuova visione degli eventi; e non si tratta né d’induzione, né di deduzione, bensì di abduzione.

Lo schema del ragionamento per abduzione è il seguente:

  1. si osserva C, un fatto sorprendente;
  2. ma se A fosse vera, allora C sarebbe naturale;
  3. c’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vera.

Ciò che in questo schema si sostiene è che una certa congettura (o ipotesi), ovvero che A sia vera, vale la pena di essere presa in considerazione. Così l’abduzione è il frutto del momento inventivo, creativo della fantasia che formula ipotesi esplicative, le quali, se confermate, diventano leggi scientifiche (pur sempre correggibili e sostituibili) e, se falsificate, vengono scartate.

Consapevole della funzione dell’immaginazione e del ruolo delle ipotesi nella scienza, persuaso dell’asimmetria logica tra conferma e smentita, assertore di un atteggiamento non verificazionista, convinto che l’abduzione, dopo tutto, non sia altro che indovinare, Charles S. Peirce non solo parla di fallibilismo, ma è forse il primo che parla esplicitamente di falsificazione delle ipotesi.

Sul Peirce “detective” v’è il racconto da lui lasciatoci relativo all’individuazione di colui che – il 20 giugno 1879, durante un viaggio da Boston a New York sul piroscafo Bristol della Fall River Line – gli rubò il soprabito e un orologio Tiffany ad ancora. Passando in rassegna tutti i camerieri radunati in fila, dopo essersi intrattenuto brevemente con ciascuno di essi, Peirce confessa di non avere in testa “neanche la più piccola scintilla di luce da seguire”. Tuttavia, egli annota, “subito il mio altro io (perché le nostre relazioni interne sono sempre dialogiche) mi disse: ‘tu devi semplicemente puntare il dito contro il tuo uomo. Non importa se non hai una ragione, devi dire chi pensi sia il ladro'”. Pur senza una ragione esplicita che l’uomo da lui individuato fosse davvero il ladro, ma con la sensazione di aver colpito nel giusto, Peirce sottopone a controllo la sua ipotesi, che viene confermata. È questo un caso tipico di ricerca scientifica con ipotesi azzardate e controlli rigorosi. Scriverà, al riguardo, Pierce: “non si può fare neppure il più piccolo avanzamento di conoscenza … senza fare ad ogni passo un’abduzione”.

3. Poirot

Venendo ai casi affrontati da Poirot, va notato che il pensiero di Agatha Christie può essere considerato una metafora del metodo scientifico: un giallo, nell’arco di una breve narrazione, permette di farsi un’idea, di rappresentare mentalmente il metodo abduttivo – come funziona, di quali meccanismi, procedure e modi di spiegazione e di validazione si serve, ecc.

Per esemplificare, dopo la brillante soluzione di un caso in Siria, Poirot sta tornando a Londra. Viaggia con l’Orient Express da Istanbul a Calais. Durante il viaggio, tra Vincovci e Slavonski Brod, il treno viene fermato dai cumuli di neve e al mattino, in un scompartimento chiuso dall’interno, si scopre un cadavere con dodici pugnalate. Poirot accetta la sfida: prima raccoglie i fatti e interroga i passeggeri della carrozza sulla quale viaggiava l’uomo assassinato. Scopre così che l’assassinio potrebbe avere qualcosa a che fare con un tragico evento verificatosi molti anni prima (il rapimento e l’omicidio della piccola Daisy Armstrong). Non tutti gli indizi hanno però una chiara ed univoca interpretazione; infatti, una macchia di grasso su un passaporto diplomatico ungherese da un lato può essere vista come un segno di disattenzione dei doganieri, dall’altro invece come un tentativo di nascondere l’iniziale della prima lettera del nome della moglie del diplomatico.

Poirot raccoglie tutti gli indizi nel suo taccuino e prende in considerazione possibili interpretazioni (non esistono fatti “nudi” e non interpretati). Dopo di che si siede e comincia a pensare, giungendo a due possibili narrazioni, che uniscono coerentemente nei diversi quadri le tracce raccolte.

Da una parte una vendetta, una faida di stampo mafioso tra bande: un regolamento di conti effettuato attraverso l’uso del pugnale da parte di un sicario. D’altra parte Poirot racconta la storia di una vendetta abilmente costruita da persone in un modo o nell’altro coinvolte nella tragedia della piccola Daisy Armstrong: viene assassinato, o per dir meglio giustiziato, il rapitore e l’assassino della bambina.

Queste narrazioni rispondono alle stesse domande (chi e perché ha ucciso Ratchett-Cassetti nel vagone letto per Calais), ma l’interpretazione dei singoli indizi non è identica nelle due storie. Ad esempio, il fatto che il corpo di Ratchett porti i segni di dodici stilettate nella prima narrazione è una circostanza secondaria, mentre nella seconda acquista un significato centrale.

La narrazione è attenta sia ai dettagli che alle motivazioni psicologiche che hanno spinto ad agire chi compì il delitto.

3.1 I fatti e la psicologia

Siccome “l’essenziale è racimolare degli elementi”, il detective belga – quando affronta un caso nuovo – inizia a compilare il suo taccuino. Egli persegue meticolosamente l’obiettivo di sentire e considerare tutto: i fatti, i pensieri della gente, persino le sensazioni dei luoghi.

In questo contesto è da sottolineare l’importanza della psicologia tante volte richiamata da Poirot. Egli stesso per sintetizzare il suo metodo ha elencato i seguenti punti: “metodo, ordine, … le cellule grigie … e la psicologia di un delitto”; si può invero attribuire a Poirot una spiccata capacità di immaginarsi nei panni degli altri.

Poirot ricorre ad un paragone: “Les femmes sono meravigliose. Inventano e miracolosamente azzeccano. Le donne colgono inconsciamente migliaia di piccoli dettagli, senza rendersene conto. Il loro inconscio poi mette insieme i pezzi e definiscono con l’intuizione il risultato”. Nell’unico racconto di un insuccesso, la sconfitta viene attribuita da Poirot all’analisi psicologica sbagliata delle persone coinvolte nel caso.

In qualche caso una manipolazione psicologica diventa modo di agire dell’assassino. Così avviene in alcuni casi affrontati da Poirot, il quale peraltro guardava problematicamente all’approccio psicologico: “la conoscenza dell’umana natura … come può essere pericolosa”, commentò una volta.

Occorre però chiarire un punto. Secondo un’immagine semplificata, il detective belga risolveva i casi standosene seduto in poltrona e mettendo in moto le cellule grigie; infatti, come riporta il capitano Hastings, Poirot “manifestava un certo disprezzo per le prove tangibili, come le tracce dei passi o la cenere delle sigarette e sosteneva che esse da sole non avrebbero mai consentito a un poliziotto di risolvere un problema”. Ciononostante Poirot non è da annoverare fra i c.d. armchair detective: soltanto una volta risolve un caso senza abbandonare la casa, accettando una scommessa con l’ispettore Japp. Seppur Poirot stesso contribuiva a questa leggenda di armchair detective, non dimenticava mai di precisare che “per risolvere un problema è necessario avere i fatti”.

Così, all’occorrenza, dalle tasche di Poirot spuntano una lente d’ingrandimento, una pinza, una scatoletta con della polvere sottile, un microscopio e molti altri attrezzi usati dai detective per esaminare tracce, indizi, impronte. Una volta il detective belga allestisce su un treno persino un laboratorio per eseguire un esperimento fisico-chimico che gli permette di scoprire l’identità della vittima.

Coerentemente sosteneva che “non si deve mai credere in modo assoluto a quel che viene raccontato, sino a quando non si sono controllati i fatti del caso”. Ciò non vuol dire che nelle indagini occorre comportarsi come “un cane da caccia che continua a correr dietro all’odore della selvaggina”; non occorrono tanti “interrogatori né le corse alla ricerca di indizi”. Naturalmente, i fatti sono indispensabili, ma quelli cercati con cura. Poirot, rare volte a dire il vero, per trovare i fatti rilevanti ricorre addirittura a metodi non del tutto legali, rubando oppure violando la proprietà privata o il segreto della corrispondenza. Ad ogni modo, si tratta sempre di fatti raccolti evitando “tutti quei chiassosi indizi” che confondono le idee e non permettono di capire l’accaduto.

Talvolta la confusione tra i fatti e gli indizi può essere creata appositamente per depistare le indagini. A titolo d’esempio basti menzionare un tentativo di sviare le indagini di Poirot per difendere una persona amata oppure il lasciar apposta un cappello rosso per incolpare un’altra persona (“un errore deliberato”).

Dopo aver raccolto i fatti occorre organizzarli, come un uccello che ordina fuscelli per costruire il suo nido. In poche parole: “Metodo! Ordinare i fatti! Idee!”. Ma le idee non seguono dai fatti: è proprio qui che occorre una poltrona, una meditazione, una congettura che permetta di giungere al “sapere con certezza”, e cioè alla sicurezza di come stanno le cose, secondo l’affermazione di Poirot stesso: “mi occorre una certezza assoluta! Non basta quello che io credo!”.

In sostanza, dopo aver stabilito i fatti, raccolto tracce e deposizioni, viene il momento di vagliarli e tentare una soluzione, lasciandosi guidare dalla coerenza e dalla semplicità. Non a caso l’opera Assassinio sull’Orient-Express si divide in tre parti: i fatti, le deposizioni e le meditazioni.

3.2 La ricerca della coerenza

La coerenza ha a che fare con la concatenazione dei fatti: ogni fatto, circostanza e traccia raccolti s’incastrano in modo tale che ogni elemento delucida, conferma e motiva l’altro. È come costruire un castello di carte dove “è necessaria molta precisione: una carta sull’altra, esattamente al posto giusto, per bilanciarne il peso”. Infatti, ribadisce Poirot nella Tragedia in tre atti, “ricostruire il crimine … è questo lo scopo di un detective. Per ricostruire un crimine si deve porre un fatto sopra l’altro, esattamente come si mette una carta sull’altra per costruire un castello di carte. E se i fatti non stanno insieme … se la carta non sta in equilibrio … be’, bisogna ricominciare a costruire daccapo il castello”.

Ogni fatto dovrebbe essere preso in considerazione ed esaminato da vicino, e potrebbe far cadere le teorie precedenti. Ma meno male, direbbe Poirot, perché “cento punti contraddittori vengono a confonderci e a inquietarci. Va bene, è un’ottima cosa. L’ordine sorge dalla confusione”. E porta alla certezza.

La certezza a sua volta significa che “quando si è ottenuta una soluzione esatta, tutto va a posto automaticamente, e ci si rende conto che le cose non potevano andare in modo diverso” e che “i fatti considerati con metodo e nel loro ordine non ammettono che una spiegazione!”. Certo, si tratta di congetture che necessitano delle prove, e la criminologia sarà di ausilio nell’ottenerle.

Del resto, “si può guardare in uno specchio da diversi punti, ma ciò che vi si riflette è la stessa realtà”. Differenti sono le prospettive, differenti sono le immagini che si possono scorgere, ma solo una narrazione può essere vera: “Poirot chiuse gli occhi. Gli pareva di fissare, con gli occhi della mente, un vero e proprio caleidoscopio, né più né meno. Brandelli di sciarpe, pezzi di zaino, libri di cucina, rossetti per le labbra, sali da bagno … nomi e figure, descritte in modo sommario, degli studenti più disparati. Nulla che prendesse forma, nulla che fosse logica. Gli pareva di vedersi roteare nella mente persone e avvenimenti assolutamente privi di un nesso logico. Eppure sapeva che chissà dove, tutti questi elementi dovevano rientrare in uno schema ben definito, sapeva che esisteva un filo conduttore. O, forse, non era da escludere che di quegli schemi ce ne fossero parecchi. Come respingere la possibilità che, a ogni colpetto dato al caleidoscopio, ci si trovasse di fronte a uno schema differente? Di sicuro, uno di questi schemi doveva essere quello giusto”.

Poirot nota che a volte fra le tracce può mancare un nesso: come accorgersi della mancanza di un anello? Una volta, parlando con un suo collega, sovrintendente di Scotland Yard Spence Garroway, Hercule Poirot ebbe a dire: “esiste il movente, esiste il motivo, esiste la mise-en-scène. Non manca proprio nulla … Eppure … è facile avvertire le stonature, anche nei casi apparentemente semplici. Si sente che qualcosa non quadra. Come i critici cinematografici: vanno a vedere un film e capiscono fin dal principio se la storia non regge”.

Nel Ballo della Vittoria, dopo che Poirot ha scoperto un nuovo dettaglio indagando sul caso del doppio omicidio, Hastings lamenta la crescente complessità del caso:

“Santo cielo! – esclamai – La situazione diventa sempre più complessa.
Al contrario – rispose placidamente Poirot. Diventa sempre più semplice.
Poirot!, dissi, un giorno o l’altro vi strangolo! La vostra abitudine di trovare tutto semplicissimo è insopportabile!
Ma quando vi do una spiegazione, mon ami, non è sempre di un’estrema semplicità?”.

In un caso il detective belga, a partire dal modello psicologico di una delle vittime (la signora Leidner), riesce a risalire al colpevole, compiendo un viaggio nel tempo. Ma, come confessa Poirot, quantunque egli sia arrivato alla “corretta soluzione del mistero” non ha prove materiali. Sa “che è così, perché deve essere così, perché in nessun altro modo ogni singolo fatto trova il suo posto e la sua logica spiegazione”. In questo caso, dopo la solita conferenza finale, riesce ad ottenere la confessione dell’assassino che attribuisce a Poirot le doti di un ottimo archeologo.

Alla fine della sua vita, Poirot incontra una persona che riteneva essere un assassino – ma non riesce a dimostrarlo. Si tratta del delitto perfetto teorizzato da Poirot stesso nel caso raccontato in Pericolo senza nome: “Jago, nel dramma di Shakespeare (commette) il più astuto crimine … che sia mai stato commesso … Ha convinto un altro a commetterlo in sua vece”. Il detective belga confessa in una lettera al suo amico Hastings: “ho capito di essermi imbattuto, alla fine della mia carriera, nel criminale perfetto: X aveva inventato una tecnica per cui non avrebbe mai potuto essere accusato d’omicidio”. Questa tecnica viene descritta con il ricorso ad una metafora presa dalla chimica – il modo di agire di X viene paragonato da Poirot ad un fenomeno di catalisi, “ossia al verificarsi di una reazione chimica fra due sostanze solo in presenza di una terza, che non prende parte alla reazione e resta inalterata … Quando c’era di mezzo X, venivano commessi i delitti, ma X non vi prendeva parte”.

3.3 Le idee 

L’ordine, una narrazione dei fatti che sia limpida e precisa, si cristallizza attorno a un’idea: si tratta di un’ipotesi sul “come” e sul “perché” dell’accaduto. L’idea diventa un cardine della spiegazione del caso, ma introduce anche l’ordine nell’insieme dei fatti, poiché soltanto allora emerge con chiarezza una divisione tra i fatti che sono più o meno importanti. “Sono metodico, ordinato, ragiono con logica e non rigiro i fatti per adattarli alle mie ipotesi”, disse una volta Poirot di se stesso. Inoltre, un’idea suggerisce degli esperimenti relativi al passato, al presente e al futuro, nel senso di una previsione degli eventi. Infine, un’idea presuppone e allo stesso tempo porta alla costruzione di un modello psicologico delle persone a vario titolo coinvolte nel caso.

Da un punto di vista sistematico, il processo di “proporre una soluzione” ovvero “cercare un’idea” può essere descritto come un’applicazione del paradigma indiziario e dello schema di ragionamento abduttivo. Siccome anche il delitto perfetto non è privo del “perché”, la ricerca di un motivo è presente praticamente in ogni caso di Poirot. Tuttavia il delitto perfetto è raro, se mai esiste; pertanto, non deve stupire il fatto che Poirot spesso cerchi un errore da parte di chi compie il reato. Ad esempio, nel racconto La disavventura di un nobile italiano si legge:

Mon ami, rispose (Poirot), vi sfugge l’aspetto essenziale. Sto cercando qualcosa che non vedo.
E che cosa?
Un errore … anche un piccolo errore da parte dell’assassino”.

Non di rado è un’idea molto semplice, ma quasi sempre un’idea che arriva in modo casuale, ed è imprevedibile nel suo contenuto. Il che rinvia alle misteriose vie della creazione e dell’invenzione. A volte si tratta di una sorta di illuminazione, che può arrivare di colpo, anche durante il sogno. Può capitare che l’idea venga giocando. In altre occasioni si tratta di un processo duraturo che permette infine di notare un “tenue barlume che, per esempio, si scorge in un treno quando si sta per uscire da una galleria”. Comunque vada la mente dev’essere aperta, attenta, pronta ad abbandonare i propri pregiudizi e a superare i propri limiti per cogliere quel granello che diventa un centro di cristallizzazione, un anello mancante.

Nel Natale di Poirot, a proposito dei tre indizi legati al delitto a casa Lee, Poirot confessa: “la colluttazione, la porta chiusa a chiave, il pezzetto di gomma. Ma ci deve essere un sistema per guardare queste tre cose in modo che abbiano un senso. Allora svuoto la mia mente, dimentico le circostanze del delitto e prendo le cose per quel che sono in se stesse”.

In non pochi casi a Poirot capitò che un’idea che desse un senso alle cose fosse suggerita da un’osservazione casuale di un’altra persona, spesso del suo amico Hastings: “l’ho sempre avuto al mio fianco, in ogni caso importante. E mi ha aiutato … oh, sì, mi ha aiutato spesso. Perché aveva una speciale abilità, quella cioè di inciampare nella verità inconsapevolmente. Alle volte diceva delle cose incredibilmente assurde, e be’, sono state proprio quelle assurdità a rivelarmi la verità”.

In qualche altro caso l’ispirazione viene quando non la si aspetta proprio, ad esempio mentre Poirot canta un salmo durante una funzione religiosa. Naturalmente capita anche di sbagliare, di imboccare la strada errata. Ma poi viene un’altra idea che rimette i fatti apposto. Assistiamo allora ad una sorta di cambiamento della visione del mondo, come avviene nel caso dell’assassinio sul Nilo, in cui Poirot all’inizio sosteneva che il delitto era stato commesso per decisione improvvisa e non era premeditato; poi però si accorse che “l’idea preconcetta era sbagliata” e che di conseguenza “l’intero aspetto del ‘caso’ veniva ad essere mutato”, perché il delitto in questione era stato “accuratamente predisposto”.

Così succede anche nell’Assassinio sull’Orient Express, dove la chiave di una narrazione risolutiva viene offerta dalla frase del colonnello Arbuthnot “il quale diceva che il miglior processo è quello che si fa con la giuria”. Una giuria è composta da dodici persone e a Ratchett erano stati inferti dodici colpi: sulla carrozza letto Istanbul-Calais si trovavano dodici persone … E solo adesso, dice Poirot, “tutto si spiegava ordinatamente, limpidamente, precisamente. La cosa mi appariva come un perfetto mosaico in cui ogni pietruzza aveva il posto prestabilito; come un dramma in cui ogni attore aveva rappresentato la parte affidatagli”.

Le cellule grigie, e cioè la mente umana, creano una nuova teoria che mette ordine nelle tracce, negli indizi, negli accadimenti: il lavoro delle cellule grigie è quello di “convertire in un fatto mentale”, ovvero in una teoria coerente, un insieme di fatti talvolta discordanti che sono stati stabiliti come oggettivamente reali.

3.4 Gli esperimenti 

Un’idea, per quanto coerente, semplice, illuminante, va sottoposta ad una procedura di validazione. Per questo nelle inchieste di Poirot ci si imbatte spesso in un’esperimento probante, più o meno elaborato, proposto per verificare la fondatezza dell’ipotesi circa l’anello mancante o l’ipotesi nella sua interezza.

Tale esperimento riguarda non solo la ricerca del nesso mancante, ma anche la falsificazione della fondatezza della narrazione proposta. Occorre menzionare, fra gli esperimenti probanti, le previsioni sullo svolgimento degli eventi, che se confermate danno credito alle ipotesi avanzate.

Un esempio dell’uso degli esperimenti da parte di Poirot è rappresentato dalla strategia adottata nel caso del triplo avvelenamento ad opera di Sir Charles Cartwright, un celebre attore. Le tre morti rappresentano i tre atti del dramma. Poirot all’inizio non riesce ad individuare né la tecnica dell’avvelenamento, né il motivo del primo di essi. Infatti, nel primo atto muore il Reverendo Babbington e non c’è niente che possa spiegare l’eventuale assassinio di una persona così gentile, stimata e amata da tutti. Per di più nel suo calice non si trovano le tracce di alcun veleno. Infine Poirot riesce ad individuare un possibile meccanismo di avvelenamento che mette in scena nel corso di un esperimento chiamato da lui “sherry party”: un calice che conteneva un veleno (nell’esperimento si trattava di acqua) viene sostituito da un altro calice identico contenente in questo caso soltanto squisito sherry. Lo scambio è reso possibile grazie ad un trucco di distrazione causato da un altro grave evento (un uomo cade a terra fingendosi morto). Dopo aver dimostrato l’effettiva possibilità di avvelenare una persona senza lasciare indizi, Poirot riesce a trovare un motivo per il primo assassinio, in quanto il vero assassinio risulta essere il secondo: semplicemente l’assassino voleva provare il meccanismo dell’avvelenamento. Il terzo atto, un assassinio con l’uso di cioccolatini avvelenati, era un premeditato diversivo per sviare le indagini di Poirot. In questo modo, sono stati individuati il come e il perché dell’assassinio di Sir Bartholomew Strange.

Bisogna, infine, menzionare un metodo particolarmente efficace: non far niente, “lasciar che le persone … raccontino”. Si tratta di una “necessità basilare della natura umana … la necessità di chiacchierare … di rivelare se stessi” e di un’impossibilità di mentire sempre. Infatti, “se si riesce a indurre una persona a parlare a lungo su un argomento qualsiasi, prima o poi finirà per tradirsi”.

3.5 Un pensiero conclusivo 

Con l’istinto investigativo si accorda perfettamente la particolare sensibilità di Poirot, fiuto per la presenza del male. Come se, in un certo senso, la sua presenza attirasse i crimini.

Il suo procedere investigativo, in modo particolare nelle fasi conclusive dei casi affrontati, si contraddistingue per una pietà nei confronti della sorte di ogni essere umano, alla quale si unisce il riconoscimento della responsabilità per i fatti compiuti, responsabilità radicata nella libertà dell’uomo.

Pertanto, seppur trovare l’assassino e arrivare alla vera descrizione dell’accaduto erano per lui centrali, egli sosteneva che “vi sono cose più importanti che non trovare l’assassino … A parer mio, la cosa importante è allontanare i sospetti dagli innocenti”: Poirot si spinge addirittura ad identificare nella difesa dell’innocente una sua vocazione divina.

Orbene, quando si pensa ad un crimine e alla conseguente investigazione, si ha in mente fondamentalmente l’assassinio. In realtà, i codici penali prevedono numerosissimi altri delitti e sarebbe perciò opportuno studiare “i metodi investigativi” anziché “il metodo investigativo”, in quanto ogni reato richiede, a nostro avviso, una specifica tecnica di indagine. Sul punto si concentreranno i futuri sforzi creativi del LAIC.