di Simone Ferrari
Rifiuto dell’accertamento del tasso alcoolemico e diritto all’assistenza del difensore: Cass. pen., Sez. IV, n. 5314/2020
Nel caso di specie (in cui si è annullata la sentenza impugnata e rinviato per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’Appello), l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 186 co. 7 CdS, perché, quale conducente di un autoveicolo, dopo aver provocato un sinistro stradale, condotto presso il Pronto Soccorso, aveva rifiutato di sottoporsi all’esame ematico alcolimetrico, richiesto dalla Polizia Giudiziaria, allontanandosi dal nosocomio, prima della sua effettuazione.
Recentemente la Cassazione ha riformulato alcuni principi relativi al caso in cui non sia dato avviso all’interessato della facoltà di farsi assistere da un difensore, ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p. (Avvertimento del diritto all’assistenza del difensore. – Nel procedere al compimento degli atti indicati nell’art. 356 c.p.p., la Polizia Giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia), prima di procedere agli accertamenti urgenti mediante etilometro.
Ed invero, se in passato si è ritenuto che “quando si procede per il reato di guida in stato di ebbrezza, l’obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore per l’attuazione dell’alcoltest non ricorre se l’imputato abbia rifiutato di sottoporsi all’accertamento (Cass. pen., Sez. IV, n. 34470/2016), da ultimo si è affermato che “l’avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore, ex art. 114 disp. att. c.p.p., deve essere rivolto al conducente del veicolo nel momento in cui viene avviata la procedura di accertamento strumentale dell’alcolemia con la richiesta di sottoporsi al relativo test, anche nel caso in cui l’interessato si rifiuti di sottoporsi all’accertamento” (Cass. pen., Sez. IV, n. 34383/2017).
L’affermazione della garanzia del diritto di farsi assistere è collegata al momento genetico dell’accertamento, e cioè al momento in cui si avvia il procedimento di accertamento: ogni qualvolta l’interessato sia sottoposto ad un accertamento indifferibile ed urgente, infatti, l’avvertimento della possibilità di farsi assistere da un difensore deve precedere lo svolgimento dell’atto. È chiaro, dunque, che per assolvere allo scopo di consentire la difesa durante l’accertamento a mezzo di alcoltest, oppure a mezzo dell’esame ematico, l’avviso deve intervenire prima della sua effettuazione concreta, non potendo assumere nessun significato se interviene dopo.
Laddove sia la Polizia Giudiziaria a provvedere all’accertamento con l’alcoltest, saranno gli operanti ad avvisare il soggetto invitato sul contenuto del diritto di difesa previsto dall’art. 114 disp. att. c.p.p., mentre allorquando l’accertamento debba essere eseguito in Ospedale, a mezzo dell’intervento di sanitari, l’avviso potrà essere dato sia dalla Polizia Giudiziaria che dai medici che materialmente provvedono al prelievo ematico, essendo sufficiente che preceda la sua esecuzione.
Infine, la violazione dell’obbligo di dare avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia al conducente da sottoporre al prelievo ematico presso una struttura sanitaria, finalizzato all’accertamento del tasso alcolemico esclusivamente su richiesta della Polizia Giudiziaria, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182 co. 2 c.p.p., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado, ma che deve ritenersi sanata, ai sensi dell’art. 183 c.p.p., qualora l’imputato formuli una richiesta di rito abbreviato (Cass. pen., Sez. IV, n. 24087/2018).
Stalking ai danni dell’amante del marito: no all’attenuante della provocazione (Cass. pen., Sez. V, n. 2725/2020)
La Corte d’Appello confermava la condanna inflitta ad Elisa, Francesca e Gaia (le ultime due figlie della prima) dal Giudice monocratico per stalking, lesioni personali e violazione di domicilio ai danni di Chiara e delle figlie Daria e Maria, a seguito della scoperta della relazione intrattenuta da Chiara con il marito di Elisa, Alberto, padre di Francesca e Gaia (nomi di fantasia).
Le tre imputate (Elisa, Francesca e Gaia) ricorrevano per cassazione deducendo, fra l’altro, l’omessa concessione della circostanza attenuante comune della provocazione: l’aver reagito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui (art. 62 n. 2 c.p.).
Ma la Corte Suprema ha ritenuto che i giudici d’appello, nel negare la concessione dell’attenuante in parola, abbiano fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità secondo la quale, ai fini dell’integrazione del fatto ingiusto altrui, presupposto dell’attenuante della provocazione, è necessario che esso rivesta carattere di ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico, e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale.
Più in generale, ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo “stato d’ira”, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il “fatto ingiusto altrui”; b) il “fatto ingiusto altrui”, che deve appunto essere connotato dal carattere dell’ingiustizia obiettiva; c) un rapporto di causalità psicologica, e non di mera occasionalità, fra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità fra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza fra l’una e l’altra condotta (Cass. pen., Sez. I, n. 21409/2019).
La giurisprudenza ha pure chiarito che la circostanza aggravante della premeditazione è compatibile con quella attenuante della provocazione, nella forma c.d. “per accumulo”, in cui lo “stato d’ira”, presupposto dell’attenuante, assume una caratteristica di “alterazione prolungata” non incompatibile, in presenza di un fattore scatenante, con una carica volontaristica di intensità tale da determinare il riconoscimento della premeditazione (Cass. pen., Sez. I, n. 35512/2019).
Peraltro, in un vecchio caso di uxoricidio, era stata riconosciuta l’attenuante della provocazione, in un contesto di ripetute infedeltà della moglie con altri uomini e di convegni con l’amante anche nella casa coniugale: “per la configurabilità dell’attenuante della provocazione non è necessario che la reazione segua immediatamente al fatto provocatorio, poiché la legge fa riferimento allo stato d’ira, che può perdurare nel tempo e può subentrare e risvegliarsi per un fatto collegabile ad un precedente comportamento ingiusto altrui o ad un’eventuale serie di episodi provocatori; ne consegue che l’acquiescenza dell’agente ad una pluralità di fatti, oggettivamente ingiusti, perché contrari a norme etiche o giuridiche o di costume o alle regole della convivenza sociale, generalmente accettate, non esclude la sussistenza dello stato d’ira … qualora la vittima ponga in essere un nuovo ed ulteriore comportamento ingiusto che, ricollegandosi a quelli precedenti per il nesso di derivazione psicologica che li avvince, scateni nell’offeso un moto irrefrenabile e ne determini la reazione violenta” (Cass. pen., Sez. I, 12 marzo 1991).
Concorso esterno nel reato di rissa: Cass. pen., Sez. V, n. 51103/2019
Chiunque partecipa a una rissa è punito con la multa fino ad € 309. Se nella rissa taluno rimane ucciso o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se l’uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa (art. 588 c.p.).
Quello di rissa è reato a concorso necessario – e più precisamente reato plurisoggettivo proprio bilaterale – caratterizzato dall’impiego della violenza e dalla reciprocità dell’aggressione.
Per la realizzazione del fatto tipico è necessaria una contrapposizione violenta e contestuale cui partecipino almeno tre persone (Cass. pen., Sez. V, n. 19962/2019), animate dal reciproco intento di recare offesa agli avversari.
La condotta di partecipazione consiste pertanto nel compiere atti di violenza fisica, mentre è ipotizzabile il concorso esterno nel reato, ai sensi dell’art. 110 c.p., attraverso la realizzazione di condotte atipiche, come l’istigazione e il rafforzamento della volontà dell’effettivo partecipe alla rissa, purché si traducano in un effettivo e concreto contributo alla sua consumazione.
Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto il C. concorrente nel reato, pur avendo escluso che egli avesse materialmente partecipato alla rissa. In tal senso, il giudice dell’appello ha identificato la condotta concorsuale attribuibile all’imputato in quella di aver accerchiato i contendenti insieme ad altre persone, rafforzando in tal modo il proposito criminoso del Cu. La sentenza, però, precisa anche che in effetti ad azzuffarsi erano stati solo due soggetti.
Orbene, la Corte Suprema (Cass. pen., Sez. V, n. 51103/2019) osserva come l’imputato sarebbe concorso alla realizzazione di un fatto non tipico, difettando il numero minimo di partecipanti – e cioè di autori della condotta tipica – richiesto dalla giurisprudenza perché il fatto possa considerarsi invece conforme a quello incriminato dall’art. 588 c.p.
Né, ai fini dell’integrazione del requisito in questione, possono computarsi l’imputato o le altre persone che hanno presenziato alla colluttazione fra i due soggetti formando un cerchio, proprio in quanto non partecipanti alla rissa.
Quanto alla natura concorsuale della condotta, andrebbe comunque spiegato in che termini e per quali ragioni l’accerchiamento dei contendenti abbia rafforzato il loro intento e non abbia costituito invece il naturale e irrilevante comportamento di chi, per mera curiosità, voleva assistere a quanto stava avvenendo.
Alcune novità in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (L. n. 69/2019)
Senza pretese di completezza, evidenzio di seguito taluni punti della L. n. 69/2019 sulla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (c.d. “codice rosso”).
Profili sostanziali
Innanzitutto sono stati previsti quattro nuovi reati.
- Art. 387 bis c.p. (violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa). – Chiunque, essendovi legalmente sottoposto, violi gli obblighi o i divieti derivanti dal provvedimento che applica le misure cautelari di cui agli artt. 282 bis c.p.p. (allontanamento dalla casa familiare) e 282 ter c.p.p. (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) o dall’ordine di cui all’art. 384 bis c.p.p. (allontanamento d’urgenza dalla casa familiare) è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
- Art. 558 bis c.p. (costrizione o induzione al matrimonio). – Chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica a chiunque, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile. La pena è aumentata se i fatti sono commessi in danno di un minore di anni diciotto. La pena è da due a sette anni di reclusione se i fatti sono commessi in danno di un minore di anni quattordici. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia.
- Art. 612 ter c.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da € 5.000 ad € 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video predetti, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
- Art. 583 quinquies c.p. (deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso). – Chiunque cagiona ad alcuno lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso è punito con la reclusione da otto a quattordici anni. La condanna ovvero l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. per il reato di cui al presente articolo comporta l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno.
Nei casi di condanna per i delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo e atti persecutori, nonché di lesione personale e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso in determinate ipotesi aggravate, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (art. 165 c.p.).
Profili processuali
Quando si procede per i delitti appena richiamati, il pubblico ministero assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa (art. 362 c.p.p.).
Inoltre, se si tratta di uno di questi delitti, o del delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, la polizia giudiziaria procede senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero (art. 370 c.p.p.).
Ai fini poi della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale, copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l’archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione ai reati suddetti (compresa la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti) è trasmessa senza ritardo al giudice civile procedente (art. 64 bis att. c.p.p.).
Infine, quando a seguito di un provvedimento del giudice di sorveglianza deve essere disposta la scarcerazione del condannato per uno dei delitti predetti (esclusa la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti), il pubblico ministero che cura l’esecuzione ne dà immediata comunicazione, a mezzo della polizia giudiziaria, alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore (art. 659 c.p.p.).
La prova degli atti persecutori: Cass. pen., Sez. V, n. 45141/2019
Nel caso di specie si è discusso della sussistenza degli eventi di danno previsti dall’art. 612 bis c.p. e segnatamente dello stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima da parte dell’imputato, in considerazione peraltro del lungo arco temporale (oltre sette anni) in cui il predetto ha posto in essere il comportamento persecutorio che ha impedito alla vittima di svolgere una vita normale, anche sotto il profilo delle relazioni personali, insinuando la paura che nelle ore di relax all’improvviso si materializzasse l’imputato.
Per effetto di tali condotte la donna è stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo spesso all’aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, temendo le intrusioni dell’imputato, essendo stata costretta ad installare un blocco in entrata nelle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici e a giustificare continuamente, presso i propri contatti anche di lavoro, le continue intrusioni diffamatorie dell’agente sui social network.
Quella di atti persecutori è strutturalmente una fattispecie di reato abituale – in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di condotte reiterate con cui l’autore minaccia o molesta la vittima – ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari: a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita.
Nella fattispecie in esame, emerge il determinarsi quantomeno dell’evento dello stato di ansia e tensione della vittima. Tale stato prescinde dall’accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa anche sulla base di massime di esperienza.
In particolare, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente, essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni, il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica.
La prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, poi, ben può essere ricavata oltre che dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.
Infine, nell’ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della ex convivente, l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all’interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore, atteso che l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice.
Il disastro ambientale: una norma che può salvare la Terra
Il disastro ambientale è un nuovo reato previsto dall’art. 452 quater codice penale, inserito dalla Legge n. 68/2015:
“fuori dai casi previsti dall’art. 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Costituiscono disastro ambientale alternativamente:
1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata”.
La condanna per questo delitto, se commesso in danno o a vantaggio di un’attività imprenditoriale, o comunque in relazione ad essa, importa l’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione (art. 32 quater c.p.).
Inoltre, ex art. 25 undecies D.Lgs. n. 231/2001, in relazione alla commissione del reato in discorso si applica all’ente la sanzione pecuniaria da 400 a 800 quote; oltre a ciò, si applicano le sanzioni interdittive (interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Se infine taluno dei fatti di cui all’art. 452 quater c.p. è commesso per colpa, le pene previste dal medesimo articolo sono diminuite da un terzo a due terzi; e se dalla commissione dei fatti appena detti deriva il pericolo di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo (art. 452 quinquies c.p.). Ex art. 25 undecies D.Lgs. n. 231/2001, in relazione alla commissione del reato in parola si applica all’ente la sanzione pecuniaria da 200 a 500 quote.
Nel caso di specie, la condotta contestata ad un sindaco e ad un responsabile dell’ufficio tecnico (settore gestione del territorio e lavori pubblici) si sarebbe concretata nella prolungata inerzia – a fronte di una situazione di elevato rischio di crollo, riscontrato riguardo ad un fabbricato totalmente abusivo – conseguente non soltanto all’inosservanza delle norme tecniche di legge che disciplinano l’attività edificatoria, ma anche all’instabilità del sottosuolo dovuta all’attraversamento tombale di un canale al di sotto del fabbricato.
In particolare, a seguito dell’improvvisa apertura di una voragine di circa 10 metri quadrati all’interno di un magazzino di proprietà di un privato, i Vigili del Fuoco riscontrarono la sussistenza di un concreto ed attuale pericolo di cedimento strutturale dell’intero edificio e dell’immobile adiacente, esposto a pericolo di crollo per induzione. Analoga situazione era stata riscontrata nel 2015, in occasione dell’apertura di un’altra voragine.
L’edificio oggetto di verifica, di cinque piani, presentava l’esplosione e il completo deterioramento di tre pilastri interni, in corrispondenza del nodo di congiunzione pilastro/trave, il copri ferro inesistente, e i ferri di armatura verticali, inefficaci, non venivano ritenuti idonei a garantire la sicurezza statica dell’edificio.
Entrambi gli edifici risultavano essere completamente abusivi, perché costruiti senza alcun titolo abilitativo e mai sanati o condonati.
A fronte di tale situazione, gli indagati emettevano due ordinanze con le quali si disponeva lo sgombero degli edifici e la chiusura al traffico di un tratto di strada. I provvedimenti, tuttavia, ad un successivo controllo risultavano non eseguiti, in quanto tutti gli appartamenti, tranne uno, risultavano abitati, gli esercizi commerciali erano aperti e sulla strada si circolava liberamente.
Ciò premesso, la Corte di Cassazione innanzitutto osserva che il delitto di disastro ambientale ha, quale oggetto di tutela, l’integrità dell’ambiente ed in ciò si distingue dal disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., menzionato nella clausola di riserva, posto a tutela della pubblica incolumità, peraltro come norma di chiusura rispetto alle altre figure tipiche disciplinate dagli articoli che lo precedono.
Nei delitti contro l’incolumità pubblica, poi, si fa esclusivo riferimento ad eventi tali da porre in pericolo la vita e l’integrità fisica delle persone e il danno alle cose viene preso in considerazione solo nel caso in cui sia tale da produrre quelle conseguenze, tanto che la scelta del termine “incolumità” non è affatto casuale, mentre il disastro ambientale può verificarsi anche senza danno o pericolo per le persone, evenienza che viene chiaramente presa in considerazione quale estensione degli effetti dell’alterazione dell’ecosistema.
Un requisito del disastro ambientale è quello dell’abusività della condotta: la condotta “abusiva” è non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali ovvero di prescrizioni amministrative.
La fattispecie descritta segnatamente nell’art. 452 quater, n. 3, c.p. si pone, di fatto, a chiusura del sistema di condotte punibili e riguarda qualsiasi comportamento che, ancorché non produttivo degli specifici effetti descritti nei numeri precedenti, determini un’offesa alla pubblica incolumità di particolare rilevanza per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi, ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Va però rilevato che la collocazione di tale condotta nell’ambito dello specifico delitto di disastro ambientale deve necessariamente ritenersi riferita a comportamenti comunque incidenti sull’ambiente, rispetto ai quali il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta una diretta conseguenza, pur in assenza delle altre situazioni contemplate dalla norma.
Resta da considerare, a questo punto, quale sia la nozione di ambiente da prendere in considerazione.
Sembra che il legislatore abbia inteso riferirsi alla più ampia accezione di ambiente, quella cosiddetta unitaria, non limitata ad un esclusivo riferimento agli aspetti naturali, ma estesa anche alle conseguenze dell’intervento umano, ponendo in evidenza la correlazione fra l’aspetto puramente ambientale e quello culturale, considerando quindi non soltanto l’ambiente nella sua connotazione originaria e prettamente naturale, ma anche l’ambiente inteso come risultato delle trasformazioni operate dall’uomo e meritevoli di tutela.
Inoltre, anche nella giurisprudenza costituzionale si rinvengono considerazioni che depongono nel senso di una concezione più ampia di ambiente, laddove si sostiene, ad esempio, che “oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via. Occorre, in altri termini, guardare all’ambiente come ‘sistema’, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto” (Corte cost. n. 378/2007).
Orbene, nella nostra fattispecie si tratta di edifici completamente abusivi, costruiti negli anni Ottanta del secolo scorso su terreno ad elevato rischio idrogeologico, che presentano lesioni strutturali dovute verosimilmente all’effetto dell’acqua che attraversa il sottosuolo e che rischiano di crollare, costituendo un pericolo per l’incolumità delle persone.
Tale situazione di pericolo non sarebbe stata evitata dagli indagati, i quali, pur avendo emesso le ordinanze di sgombero, non ne avrebbero poi curato l’effettiva esecuzione mediante l’allontanamento delle persone dalla zona interessata dal possibile crollo: la condotta omissiva è, in definitiva, astrattamente riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 452 quater, n. 3, c.p.
Cass. pen., Sez. III, n. 40378/2019 sulle discariche abusive: quando la bonifica è un’attenuante?
La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, riconosciute ad entrambi gli imputati le circostanze attenuanti generiche, rideterminava la pena in anni 1 e mesi 4 di reclusione ed € 35.000,00 di multa ciascuno, relativamente al reato loro contestato di cui agli artt. 110 c.p. e 6 D.Lgs. n. 172/2008 (territori in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti), per avere, in concorso fra loro, gestito una discarica abusiva senza la prescritta autorizzazione.
I due imputati hanno proposto ricorso per Cassazione, tramite difensore.
Dall’accertamento della Polizia Municipale emergeva una discarica di rifiuti per lo più provenienti da demolizioni di auto(rifiuti speciali anche pericolosi e percolanti) a cielo aperto e interrati (rifiuti ammassati alla rinfusa), e tutta l’area appariva in condizioni di degrado.
Del resto, ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata, è sufficiente l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata (Cass. pen., Sez. III, n. 39027/2018).
Quanto alla nozione di rifiuto, il riutilizzo eventuale, come parti di ricambio dei pezzi d’auto ancora in condizioni utili, non esclude la natura di rifiuti delle carcasse e pezzi d’auto ammassati nella zona: la natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto), non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all’autorità (oppure creato proprio a tal fine), come se il negozio giuridico riguardasse l’oggetto stesso della produzione e non – come in effetti – proprio un rifiuto. Ciò, peraltro, a prescindere dal “valore” economico o commerciale di questo, specie nell’ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica; d’altronde, si deve evitare di porsi nella sola prospettiva del cessionario del prodotto e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce, occorrendo, per contro, verificare “a monte” il rapporto fra il prodotto medesimo e il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene (Cass. pen., Sez. III, n. 5442/2017).
Relativamente all’attenuante dell’art. 62 n. 6 c.p., la bonifica dell’area è stata effettuata dal ricorrente solo dopo l’ordinanza di sgombero del Sindaco (v. Cass. pen., Sez. III, n. 15731/2016). La Corte Suprema, conseguentemente, ha espresso il seguente principio di diritto: la circostanza attenuante dell’avvenuta riparazione del danno, o dell’essersi adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, è applicabile ai reati in materia di rifiuti allorquando la bonifica volontaria dell’area abusivamente destinata a discarica sia avvenuta in epoca anteriore al giudizio e in assenza dell’ordinanza sindacale di bonifica.
Cass. pen., Sez. II, n. 35166/2019 sulla contraffazione di prodotti con marchio registrato
Il Tribunale per il riesame delle misure cautelari reali respingeva la richiesta di riesame proposta nei confronti del decreto di sequestro probatorio avente ad oggetto capi di abbigliamento posti in vendita in negozi che esponevano l’insegna “Fake lab” in ordine ai reati previsti dagli artt. 474 (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) e 648 (Ricettazione) c.p.
Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore.
La Corte Suprema rileva che il presupposto per la legittimità del sequestro contestato è l’emersione del fumus commissi delicti in ordine alla contraffazione di prodotti con marchio registrato, reato presupposto della contestata ricettazione (Fila, Gucci, Adidas, Versace, Hermes Givenchy, Balenciaga, Lacoste, Warner Bros per Batman e Superman).
Orbene, perché sia riconoscibile la contraffazione è tuttavia necessario che il prodotto che si assume falsificato sia confondibile con gli originali e sia idoneo a creare confusione nel consumatore: il marchio ha infatti una precisa funzione distintiva, funzionale a garantire l’affidamento dei consumatori sull’originalità del prodotto commerciato.
In materia, la giurisprudenza civile ha chiarito che il titolare del marchio previamente registrato non può vietare di per sé l’uso del segno distintivo in qualsiasi forma ove non sussista la confondibilità o l’affinità dei prodotti o servizi; ciò anche nel caso in cui ricorra l’inclusione nella stessa classe, che non è idonea in quanto tale a provarne l’affinità.
In linea con tali indicazioni, anche la giurisprudenza penale ha ribadito la necessità che i beni contraffatti siano prodotti al fine di confondere il consumatore sull’originalità della provenienza, sulla base dell’incontestato presupposto che il marchio abbia la funzione di “distinguere” il prodotto certificato dagli altri: si è infatti affermato che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 474 c.p., l’alterazione di marchi prevista dall’art. 473 c.p. comprende anche la riproduzione solo parziale del marchio, idonea a far sì che esso si confonda con l’originale e da verificarsi mediante un esame sintetico – e non analitico – dei marchi in comparazione, che tenga conto dell’impressione di insieme e della specifica categoria di utenti o consumatori cui il prodotto è destinato, soprattutto se si tratta di un marchio celebre.
Inoltre, la Direttiva UE 2015/2436 nel Considerando n. 27 ha chiarito che “l’uso di un marchio d’impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale”.
Si ritiene cioè che la confondibilità con l’originale del prodotto che si assume falsificato costituisca un attributo indispensabile per il riconoscimento della contraffazione, che non può rinvenirsi nei casi in cui il marchio sia utilizzato con palesi finalità ironiche e parodistiche, per la creazione di prodotti nuovi ed originali, caratterizzati da immagini che, pur facendo uso del marchio registrato, sono sicuramente inidonee a creare confusione con i beni tutelati, dato che è immediatamente evidente il messaggio parodistico che esclude ictu oculi ogni possibilità di confusione.
Nel caso di specie i prodotti in sequestro presentavano un’indiscussa originalità, dato che risultavano caratterizzati da immagini create attraverso l’uso di marchi noti, non a fini “distintivi”, e dunque “imitativi”, ma piuttosto a fini “parodistici”, ovvero “artistici e descrittivi”, essendo le immagini censurate funzionali ad effettuare una riproduzione ironica di marchi celebri, inidonea a creare confusione con i prodotti protetti dai marchi tutelati e dunque incompatibile con la contestata contraffazione che, si ripete, deve essere invece connotata dall’idoneità del prodotto che si assume falsificato a confondersi con l’originale.
La Cassazione ha pertanto annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata e disposto la restituzione dei beni in sequestro all’avente diritto.
Cass. pen., Sez. III, n. 29979/2019 sui reati edilizi e paesaggistici
Con ordinanza il giudice dell’esecuzione presso la sezione distaccata di Ischia ha revocato l’ordine di demolizione disposto dalla Procura della Repubblica di Napoli sulla base del principio per cui l’intervenuto condono c.d. ambientale di cui alla L. n. 308/2004 implica l’inapplicabilità dell’ordine di demolizione delle opere abusive ex art. 31 co. 9 DPR n. 380/2001.
Avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione il PM del Tribunale di Napoli ha proposto ricorso per cassazione.
Va, preliminarmente, evidenziata la diversità della disciplina dettata in materia di interventi di tipo paesaggistico o edilizio, che si traduce innanzitutto nell’intervenuta redazione di distinti testi normativi (rispettivamente corrispondenti al D.Lgs. n. 42/2004 e al DPR n. 380/2001), fondamentali, seppur non esaustivi delle predette, complesse materie.
La citata distinzione trova peculiare espressione in materia di c.d. “sanatoria” in senso stretto, nozione quest’ultima riferibile alle ordinarie procedure amministrative attraverso cui sia possibile, a determinate condizioni, superare e, quindi, “sanare”, l’illiceità o l’illegittimità di determinati tipi di intervento in materia edilizia o paesaggistica. Concetto come tale distinto rispetto ai casi di c.d. “condono”, riguardanti procedure amministrative di tipo eccezionale, riconducibili quindi a fattispecie di “sanatoria” in senso lato.
Nell’ambito della prima nozione, e con riferimento alla materia edilizia e urbanistica, rileva, con riguardo alle fattispecie di reato, la disposizione di cui all’art. 36 DPR n. 380/2001, ai sensi della quale il permesso di costruire rilasciato a seguito di accertamento di conformità estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. n. 42/2004, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Proprio il diverso quadro costituzionale e la distinta oggettività giuridica, sottesi alla separata disciplina in materia paesaggistica, spiegano come, diversamente da quanto disposto con il citato art. 36, il rilascio postumo dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, non determina l’estinzione del reato paesaggistico (art. 181 D.Lgs. n. 42/2004); ciò in quanto tale effetto non è espressamente previsto da alcuna disposizione legislativa avente carattere generale, atteso altresì il divieto di rilascio postumo dell’autorizzazione paesaggistica. Cosicché il nulla osta paesaggistico sopravvenuto, ove adottato, ha solo l’effetto di escludere l’emissione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi limitatamente a quello previsto dall’art. 181 co. 2 D.Lgs. n. 42/2004.
Costituisce un’eccezione al predetto principio la disciplina di cui all’art. 1 co. 36 L. n. 308/2004, che ha introdotto la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica, limitata tuttavia solo ad alcuni interventi minori; all’esito della stessa, pur restando ferma l’applicazione delle misure amministrative ripristinatorie e pecuniarie di cui all’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dall’art. 181 co. 1 D.Lgs. n. 42/2004. Si tratta, in particolare: dei lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; dell’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; dei lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell’art. 3 DPR n. 380/2001.
Nei casi anzidetti, la non applicabilità delle sanzioni penali è subordinata – in ogni caso – all’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento “secondo le procedure di cui all’art. 181 co. 1 quater D.Lgs. n. 42/2004″, introdotto dalla L. n. 308/2004: deve essere presentata, in particolare, apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo e detta autorità deve pronunciarsi entro il termine perentorio di 180 giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da rendersi entro il termine, anch’esso perentorio, di 90 giorni.
Ulteriore eccezione al principio della non sanabilità dell’illecito paesaggistico in via ordinaria è data dalla previsione di cui all’art. 181 co. 1 quinquies D.Lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1.
Esprimono la rappresentata diversità di disciplina in materia di abusi edilizi e paesaggistici anche le disposizioni dettate, fra l’altro, in tema di demolizione e/o ripristino dei luoghi.
Infatti, da una parte, per gli abusi edilizi il legislatore ha elaborato al riguardo le norme di cui agli artt. 31 (in tema di demolizione di interventi eseguiti “in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”), 33 (“interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità”), 34 (“interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”) e 35 (“interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici”) DPR n. 380/2001, ed alle stesse ha in alcuni casi ricollegato, a fronte dell’omessa demolizione d’iniziativa dell’interessato, conseguente all’ingiunzione demolitoria comunale, anche l’acquisizione del bene al patrimonio dell’ente locale; dall’altra, con riguardo agli abusi paesaggistici, ha nuovamente formulato una distinta regolamentazione.
In particolare, con l’art. 167 co. 1 D.Lgs. n. 42/2004 ha previsto, in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte Terza (inerente i “beni paesaggistici”), l’obbligo del trasgressore di procedere alla rimessione in pristino a proprie spese, fatti salvi i casi di sopravvenuto giudizio di compatibilità paesaggistica dell’intervento, secondo quanto previsto al comma 4 del medesimo articolo. Quindi, con riferimento agli illeciti paesaggistici di cui all’art. 181 D.Lgs. n. 42/2004, ha stabilito al comma 2 che con la sentenza di condanna viene ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato.
Giova infine sottolineare anche la diversità dei beni giuridici tutelati: mentre in tema di reati edilizi l’interesse protetto è sia quello formale della realizzazione della costruzione nel rispetto del titolo abilitativo sia quello della tutela sostanziale del territorio, il cui sviluppo deve avvenire in conformità alle previsioni urbanistiche, in tema di illeciti paesaggisticiviene tutelato il paesaggio e l’armoniosa articolazione e sviluppo dell’ambiente.
Ne consegue che in assenza di specifiche disposizioni normative, l’assetto normativo dettato in materia paesaggistica e in quella edilizia ed urbanistica emerge e si configura tendenzialmente in piena autonomia.
Ciò significa che l’eventuale venir meno dell’obbligo di ripristinare lo status quo ante dei luoghi, di cui alla citata previsione contenuta nell’art. 181 D.Lgs. n. 42/2004, in ragione della sopravvenuta operatività del c.d. “condono ambientale” di cui all’art. 1 co. 36 L. n. 308/2004, non implica, in via automatica, anche una situazione di incompatibilità con il distinto ordine di demolizione emesso ai sensi dell’art. 31 co. 9 DPR n. 380/2001, siccome correlato ad una differente tutela di beni giuridici diversi da quelli cui inerisce la predetta disciplina di tipo paesaggistico.
Peraltro, l’eventuale incidenza del “condono ambientale” anche sui profili edilizi del medesimo immobile non può prescindere dalla necessità che si verta sulla medesima tipologia di interventi. In altri termini, posto che il predetto “condono ambientale” opera, a date condizioni sostanziali e procedurali, solo in rapporto ad interventi “minori” (sostanzialmente riconducibili alle tipologie della manutenzione), esso non potrà mai assumere, neppure in astratto, riflessi su interventi tipologici edilizi di maggiore spessore e di carattere penale.
In conclusione, la Corte Suprema ha annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale di Napoli per procedere a nuovo esame.
Sulla nuova disciplina dell’eccesso colposo di legittima difesa: Cass. pen., Sez. IV, n. 28782/2019
Il Tribunale dichiarava D. responsabile del reato di lesioni colpose, ai sensi degli artt. 55 e 590 c.p., per aver cagionato lesioni personali in danno di S., agendo per eccesso colposo di legittima difesa. In punto di fatto, è risultato accertato che il D. e lo S., vicini di casa, avevano avuto un diverbio verbale, degenerato in uno scontro fisico, in esito al quale lo S. aveva riportato le refertate lesioni.
La Corte di Appello sostituiva la pena detentiva irrogata con quella di duemila euro di multa, confermando nel resto. Il Collegio, dato atto delle difformi versioni dell’accaduto rese dall’imputato e dalla persona offesa, ha riferito che il D., aggredito dallo S. prima a parole e poi con spintoni, al fine di far cessare il morso che lo S. gli stava dando sotto un’ascella, aveva attinto il contendente con un pugno al volto. La Corte territoriale evidenziava che il D., per far cessare il morso, avrebbe potuto allontanare lo S. con modalità diverse e meno violente, anziché colpire l’antagonista con un pugno chiuso al volto. I giudici rilevavano che la reazione del D. era stata sproporzionata e che correttamente il primo giudice l’aveva ritenuta eccessiva e fonte di responsabilità colposa.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso per cassazione D., a mezzo del difensore.
Il ricorrente introduce il tema della proporzionalità della reazione posta in essere dal D., a fronte del diverbio verbale e della successiva aggressione fisica perpetrata dallo S. Al riguardo, la Corte di Appello ha considerato che la condotta lesiva, realizzata dall’imputato per liberarsi dal persistente morso dello S., aveva travalicato i limiti della necessità difensiva; che l’imputato era incorso nell’eccesso colposo di cui all’art. 55 c.p.; e che pertanto il D. doveva rispondere del delitto di cui all’art. 590 c.p.
Ai fini della configurabilità dell’eccesso colposo nella legittima difesa, occorre preliminarmente accertare l’eventuale inadeguatezza della reazione difensiva, per eccesso nell’uso dei mezzi a disposizione dell’aggredito nel particolare contesto spaziale e temporale nel quale si svolsero i fatti e, successivamente, procedere all’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, poiché soltanto il primo rientra nello schema dell’eccesso colposo, mentre il secondo costituisce scelta volontaria, estranea alla predetta scriminante.
E bene: nel caso di specie la Corte di Appello ha rilevato che il D. aveva ecceduto nella reazione difensiva, a seguito del morso che lo S. gli stava dando nella zona ascellare. Secondo i giudici di merito l’imputato aveva colposamente errato nell’impiego dei mezzi difensivi, posto che per far cessare l’aggressione in atto sarebbe stato sufficiente stringere il naso dell’aggressore – manovra che obbliga il soggetto ad aprire la bocca per respirare – laddove il D. aveva attinto con un forte pugno il volto dello S. Alternativamente, la Corte territoriale ha rilevato che l’imputato avrebbe potuto appoggiare la mano aperta sul volto dell’aggressore.
La Cassazione conviene con il ricorrente nel rilevare che il descritto ragionamento risulta, da un lato, del tutto disancorato dalla piattaforma probatoria acquisita negli atti e, dall’altro, frutto di un astratto riferimento a regole esperienziali. In particolare, il delineato passaggio motivazionale è inficiato da aporie di ordine logico, posto che la massima di esperienza richiamata dai giudici, in base alla quale la chiusura delle narici obbliga fisicamente il soggetto che tiene serrata la mandibola nell’azione mordace ad aprire la bocca per respirare, non tiene conto della concitazione del momento e dell’elevato grado di aggressività palesata dallo S., che stava realizzando una pervicace manovra offensiva in danno del D.
Le svolte considerazioni hanno condotto all’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello, per nuovo esame.
La Corte Suprema ha altresì rilevato che, in sede di rinvio, dovrà pure essere valutata l’eventuale applicabilità della nuova disciplina dell’eccesso colposo nella legittima difesa, atteso che il diverbio fra l’imputato e la parte civile ha preso avvio mentre il D. si trovava all’interno del giardino recintato posto al piano terra dell’edificio. Detta circostanza di fatto dovrà essere adeguatamente verificata e chiarita, per la rilevanza sostanziale che può assumere alla luce della novella del 2019. Il riferimento è al disposto di cui agli artt. 52 e 55 c.p., come modificati dalla L. n. 36/2019.
Invero, il novellato art. 55 c.p. stabilisce: “Nei casi di cui all’art. 52, co. 2, 3 e 4, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, co. 1, n. 5), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto“. Come si vede, la novella riguarda espressamente le ipotesi in cui la reazione all’offesa ingiusta è stata posta in essere a seguito della violazione del domicilio. E si tratta di disposizione certamente più favorevole in quanto ampliativa dei casi di non punibilità, rispetto alla previgente fattispecie di eccesso colposo. Pertanto, ai sensi dell’art. 2 co. 4 c.p., la stessa può trovare applicazione retroattiva, anche rispetto a fatti anteriormente commessi.
Amore e psiche: Cass. pen., Sez. II, n. 25165/2019 in tema di truffa
La Corte d’Appello confermava la sentenza del Tribunale con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed € 1.500,00 di multa in ordine al delitto di truffa aggravata, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile.
Si contestava di avere con artifizi e raggiri – consistiti nell’avviare una relazione sentimentale con la persona offesa (molto più grande di lui), nel proporle falsamente l’acquisto in comproprietà di un appartamento (e poi di altro appartamento) consegnandole anche fotografie dello stesso, nel richiederle prestiti proponendole la cointestazione di quote societarie – indotto in errore la donna circa l’effettivo acquisto dell’immobile e sulla situazione economica della propria società, facendosi consegnare ingenti somme di denaro, in tal modo procurandosi un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato: il ricorso veniva però rigettato dalla Corte Suprema.
Infatti, la Corte di merito ha escluso che l’intenzione della vittima di acquistare l’appartamento fosse dovuta ad un intento speculativo (in tal senso sono stati valorizzati sms dall’eloquente contenuto “amoroso”) e ha correlato tale determinazione all’acquisto (e al versamento del relativo importo) al progetto, prospettatole dall’uomo, di vivere insieme e così, analogamente, anche per le successive dazioni di denaro, correlate all’acquisto di un appartamento migliore, ovvero all’acquisizione di quote societarie o, infine, a difficoltà economiche dell’imputato, il quale la induceva a rilasciargli ulteriori due assegni.
Orbene, il quesito posto dal ricorrente è se la menzogna riguardante i propri sentimenti amorosi possa o meno costituire un artificio o raggiro rilevante ai fini dell’integrazione del delitto di truffa.
A tale quesito la Corte d’Appello ha risposto in senso affermativo, sottolineando che la condotta del ricorrente era consistita non (solo) nel simulare sentimenti d’amore, ma nel coordinare la menzogna circa i propri sentimenti con ulteriori e specifici elementi (il progetto di vita in comune, l’investimento societario) idonei, insieme ad essa, ad avvolgere la psiche del soggetto passivo in modo da assumere l’aspetto della verità e a trarre in errore.
Tale decisione appare corretta in diritto: in casi del genere la truffa non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo.
A tal proposito va chiarito che, per ricostruire l’elemento oggettivo del reato, si deve tener presente la concatenazione delle note modali della condotta truffaldina e dei conseguenti eventi, nella sequenza indicata dal legislatore (artifizi o raggiri – induzione in errore – atto dispositivo – danno patrimoniale e profitto ingiusto), sottolineando in particolare che, ai fini dell’individuazione della condotta truffaldina, occorre accertare l’idoneità ingannatoria degli artifizi o raggiri e il nesso causale fra l’inganno e l’errore della vittima la quale, incisa nella sua sfera volitiva da falsi motivi, si determina ad una certa scelta patrimoniale che altrimenti non avrebbe effettuato.
Non si intende affermare la rilevanza penale di condotte ingannatorie riguardanti i sentimenti provati, inducenti di per sé a compiere atti dispostivi pregiudizievoli, quanto piuttosto l’illiceità di comportamenti che sfruttando la situazione di debolezza della vittima, nella specie coinvolta in una relazione sentimentale, hanno dato luogo a falsi motivi, determinanti la scelta patrimoniale del disponente.
Va detto infatti che gli artifici – intesi come manipolazione esterna della realtà provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o, per contro, mediante la dissimulazione di circostanze esistenti – o il raggiro – consistente in un’attività simulatrice, sostenuta da parole o argomentazioni atte a far scambiare il falso con il vero – sono entrambi mezzi per creare un erroneo convincimento, passando il primo attraverso il camuffamento della realtà esterna ed operando il secondo direttamente sulla psiche del soggetto.
Del resto, l’idoneità dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto e alle modalità esecutive dello stesso; segnatamente, l’idoneità degli artifici e raggiri risulta dalla verifica della sussistenza del nesso causale fra azione ed evento, mentre non ha rilievo l’asserita mancanza di diligenza, di controllo e di verifica da parte della persona offesa essendo sufficiente, per l’esistenza del reato, accertare che l’errore in cui è caduta la vittima sia stato conseguenza di detti artifici o raggiri.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto della menzogna dell’imputato sia in relazione ai sentimenti provati, sia in concreto in relazione al proposito di vita in comune, elementi che, complessivamente considerati e riprodotti nel tempo, ingenerarono nella donna la falsa convinzione circa l’effettiva realizzazione di quel progetto di vita sul quale si innestarono le disposizioni patrimoniali frutto, appunto, di tale indotto, erroneo convincimento.
La responsabilità penale del medico ostetrico: Cass. pen., Sez. IV, n. 19386/2019
La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale, in riferimento al delitto di lesioni colpose, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato estinto per prescrizione; il Collegio confermava nel resto la sentenza impugnata.
In assunto accusatorio l’imputato, in qualità di medico ostetrico, nel prestare assistenza al parto, cagionava lesioni personali gravi alla nascitura, concretatesi nella paralisi dell’arto superiore sinistro, con indebolimento permanente della funzione prensoria. Ciò in quanto il medico non rilevava i segni indicatori di una distocia di spalla, omettendo la relativa diagnosi; non poneva in essere la condotta doverosa, quale la riduzione del braccio anteriore del feto ed esercitava trazioni eccessive ed improvvide sul vertice fetale determinando la descritta lesione del plesso brachiale dell’arto superiore sinistro.
I periti avevano chiarito: che l’associazione d’arto era stata la causa di una distocia di spalla, da intendersi quale condizione di alterazione nella regolare discesa del feto; che in tal caso al sanitario sono imposte manovre codificate dalle leges artis, contenute nelle linee guida di riferimento; che l’imputato non aveva realizzato alcuna delle prescritte manovre di emergenza; che la lesione non poteva essere stata provocata da fattori intrauterini, come neppure da fattori verificatisi nella fase successiva all’estrazione del feto, quale una caduta all’atto del primo bagnetto.
Si era quindi ritenuta accertata la sussistenza del nesso di derivazione causale fra l’omissione e l’evento lesivo. Del resto, in tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità fra l’omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, e il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva.
Inoltre, il ragionamento probatorio sviluppato dalla Corte d’Appello si completava con rilievi che attingono anche i profili di condotta attiva: in sentenza si sottolineava infatti che l’imputato esercitò ripetute pressioni sulla pancia della donna, pressioni incaute e del tutto sconsigliate nei casi di distocia di spalla.
La Corte territoriale precisava, altresì, che l’imputato non aveva effettuato le manovre codificate dalle leges artis, contenute nelle linee guida di riferimento; e che, anzi, non aveva posto in essere alcuna delle prescritte manovre di emergenza, realizzando una condotta gravemente imperita. Sul punto, evidenziava che le linee guida di riferimento imponevano specifiche manovre che l’imputato aveva omesso di attuare e che erano state realizzate diverse manovre, del tutto inappropriate rispetto alla situazione concreta.
A fronte di tali rilievi, la Cassazione ha escluso l’operatività delle disposizioni che si sono succedute negli ultimi anni sul tema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria.
L’oggi abrogato art. 3 co. 1 DL n. 158/2012 (conv., con modif., da L. n. 189/2012), stabiliva che l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.
Secondo la Corte regolatrice, la novella del 2012 aveva escluso la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto alle condotte lesive coerenti con le linee guida o le pratiche terapeutiche mediche virtuose, accreditate dalla comunità scientifica. In particolare, si era evidenziato che la norma aveva dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo ristretto l’area penalmente rilevante individuata dalle predette norme incriminatrici alla sola colpa grave.
La richiamata disciplina presuppone la realizzazione di condotte lesive coerenti con le raccomandazioni contenute nelle linee guida, di talché l’accertato discostamento dall’agire appropriato, da parte del prevenuto, esclude la riconducibilità della condotta nell’ambito applicativo della legge del 2012.
Ciò posto, il tema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, per i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose, è stato poi oggetto di un ulteriore intervento normativo, con il quale il legislatore ha posto mano nuovamente alla materia della responsabilità sanitaria, anche in ambito penale. Il riferimento è alla L. n. 24/2017 e, segnatamente, all’art. 6, che ha introdotto l’art. 590 sexies c.p., rubricato Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario.
Le Sezioni Unite penali n. 8770/2018 hanno ricostruito la portata precettiva di quest’ultima norma, ove è stabilito che qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
In particolare, le Sezioni Unite hanno chiarito che l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nell’individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
In conclusione, l’accertata inosservanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida, ed anzi l’esecuzione di manovre del tutto inadeguate rispetto al caso di specie, ha escluso l’applicabilità dei richiamati interventi normativi in tema di responsabilità sanitaria.