di Eleonora Franza, Irene Polato e Simone Ferrari

Com’è noto, la Corte costituzionale con sentenza n. 242/2019 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 L. n. 219/2017 ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, con modalità idonee, comunque sia, a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Procediamo con ordine.

1) Le questioni traggono origine dalla vicenda di Fabiano Antoniani (detto Fabo), il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto nel 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale. Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione. Era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive.

All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura, la sua condizione era risultata irreversibile. Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.

In seguito a ciò, aveva preso contatto nel 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica.

Nel medesimo periodo era entrato in contatto con Marco Cappato, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.

Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, Fabo aveva ottenuto da essa il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data. Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica), affermando di viverla come una liberazione.

Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima.

In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia.

Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale. Di ritorno dal viaggio, Cappato si era autodenunciato ai Carabinieri.

2) A seguito di ordinanza di “imputazione coatta”, egli era stato tratto a giudizio per il reato di cui all’art. 580 c.p., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di Fabo, quanto per averne agevolato l’esecuzione.

Il giudice a quo escludeva, peraltro, la configurabilità della prima ipotesi accusatoria: Fabo avrebbe, infatti, maturato la decisione di rivolgersi all’associazione svizzera prima ed indipendentemente dall’intervento dell’imputato (Cappato).

La Corte rimettente riteneva, invece, che l’accompagnamento in auto di Fabo presso la clinica elvetica integrasse la fattispecie dell’aiuto al suicidio, in quanto condizione per la realizzazione dell’evento.

La Corte d’assise di Milano ha però dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: ha segnatamente posto in discussione il perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che essa incrimini le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio.

3) Con l’ordinanza n. 207/2018, la Corte costituzionale aveva già formulato una serie di rilievi e tratto una serie di conclusioni: in particolare aveva escluso che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione.

Infatti, dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.

La ratio dell’art. 580 c.p. può essere scorta nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio.

La Corte costituzionale aveva individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Orbene, la L. n. 219/2017 riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, co. 5): diritto inquadrato nel contesto della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico. In ogni caso, il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, rimanendo, in conseguenza di ciò, esente da responsabilità civile o penale (art. 1, co. 6).

Inoltre, la medesima legge prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, co. 1). Lo stesso art. 2 stabilisce, al co. 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Disposizione, questa, che non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche, il cui esito è la morte.

La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.

Peraltro, occorre considerare che la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto fino al momento del decesso. Si comprende, pertanto, come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione non accettabile.

Se il rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari, non v’è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.

In conclusione, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, co. 2, Cost.

4) La declaratoria di incostituzionalità attiene in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, co. 5, L. n. 219/2017: disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una “procedura medicalizzata” estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo.

Tale norma riconosce, infatti, il diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona capace di agire e stabilisce che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente co. 4 per il consenso informato. La manifestazione di volontà deve essere, dunque, acquisita nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare, per poi essere inserita nella cartella clinica.

La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A quest’ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.

La delicatezza del valore in gioco richiede, infine, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti.

 

Sull’eventuale configurabilità della violenza privata nella condotta del medico che ometta di rispettare la volontà del paziente di rifiutare il trattamento sanitario, v. in questo sito S. Ferrari, C. Cerquetti, La violenza nella forma dell’omissione alla luce della nuova legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT).