di Simone Ferrari

È stato preannunciato un DDL Anticorruzione che si regge su due pilastri: il primo è il c.d. “Daspo” per i corrotti, consistente in un’interdizione permanente dai pubblici uffici e dallo stipulare contratti con la P.A. per soggetti condannati a pene superiori ai due anni per vari reati (corruzione, peculato, ecc.).

Il secondo pilastro è costituito dall’estensione della figura dell’agente sotto copertura anche ai reati contro la P.A. Le operazioni sotto copertura sono normalmente poste in essere o dalla figura dell’infiltrato o dalla figura del falsus emptor che si finge parte in determinati reati-contratto.

Il DDL prevede che non sono punibili gli investigatori che, nel corso di specifiche operazioni di Polizia, e solo al fine di ottenere elementi di prova, promettono o danno denaro richiesto da un pubblico ufficiale: sembra così doversi escludere che la norma contempli la figura dell’infiltrato negli uffici della P.A.

Ma per contrastare efficacemente la corruzione sarebbe altresì necessario prevedere la figura dell’agente provocatore, cioè di colui che si infiltra nella P.A. sotto mentite spoglie per verificare la corruttibilità o meno di un funzionario pubblico promettendogli denaro o altra utilità in cambio di un provvedimento di favore relativamente ad appalti, concessioni, ecc. (cfr. A. Esposito, Un falso corruttore per scovare i ladri, in il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2018, p. 11).

Più in generale, le misure anticorruzione sono note: 1) aumentare il rischio per chi tace (pene severe e certe; multe elevate; esclusione dagli appalti pubblici per i condannati; prescrizione bloccata al rinvio a giudizio) e azzerarlo per chi parla (impunità a chi dice tutto e subito, rivelando agli inquirenti ciò che essi non sanno), così si innesca una gara a chi collabora per primo; 2) se nessuno dei due parla, il rimedio è appunto quello dell’agente provocatore e/o dell’infiltrato: è il “test di integrità” che in America mette alla prova politici, pubblici ufficiali e amministratori (cfr. M. Travaglio, Poveri ladri, in il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2018, p. 1).

Ora, si designa come agente provocatore chi – appartenente alle Forze dell’Ordine o privato cittadino – istighi taluno a commettere un reato, volendo far scoprire e assicurare alla giustizia la persona provocata prima che il reato giunga a consumazione. In capo all’agente provocatore è assente il dolo di partecipazione: ciò che il partecipe deve rappresentarsi e volere è un contributo alla realizzazione da parte di altri di un reato consumato, mentre ciò che si rappresenta e vuole l’agente provocatore è che la consumazione del reato venga impedita dall’intervento di fattori esterni, come le Forze di Polizia.

Quanto alla posizione del soggetto provocato, che abbia commesso il reato oggetto della provocazione, si sono prospettate due soluzioni: la sua impunità per ragioni processuali, essendo inutilizzabili le prove che siano state acquisite con tattiche poliziesche fraudolente, lesive del corretto rapporto che in uno Stato di diritto deve intercorrere fra cittadino e Pubblica Autorità; ovvero una punizione attenuata, ricorrendo gli estremi delle attenuanti generiche quando la provocazione abbia condizionato in modo rilevante la libertà di autodeterminazione del soggetto provocato.

Diversa è invece la figura dell’infiltrato: si tratta di chi si inserisce in un’organizzazione criminale, compiendo fatti di reato, per acquisire elementi di prova a carico dei membri dell’organizzazione. In questo caso l’impunità è fondata sulla liceità dei fatti di reato commessi nell’adempimento di un dovere, nei casi e per le limitate classi di soggetti e di reati previste dal legislatore.

In particolare, l’art. 9 L. n. 146/2006 delinea per determinate categorie di ufficiali e di agenti di Polizia Giudiziaria, nonché per i loro ausiliari o per le persone interposte, una causa di giustificazione per la commissione, nel corso di specifiche operazioni di Polizia (operazioni sotto copertura), di fatti costituenti reato, nonché per ritardare od omettere il compimento di arresti, fermi o sequestri, ovvero l’esecuzione di misure cautelari o di pene detentive. Si tratta di una causa di giustificazione personale, essendo limitata a quella cerchia di funzionari e di soggetti e caratterizzata da un peculiare momento finalistico (“al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti” elencati dalla legge) (G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, IV ed., Giuffrè, 2012, 428).

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che comportano la responsabilità penale dell’agente infiltrato e l’inutilizzabilità della prova acquisita le operazioni sotto copertura consistenti nell’incitamento o nell’induzione alla commissione di un reato da parte del soggetto indagato, in quanto all’agente infiltrato non è consentito commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili e di quelle strettamente e strumentalmente connesse (Cass. pen., Sez. III, n. 37805/2013: nel caso di specie, relativo alla consegna e ricezione di alcune partite di cocaina, la Corte ha ritenuto utilizzabile la prova in quanto l’intervento degli agenti sotto copertura si era limitato a disvelare un’intenzione criminosa già esistente nell’imputato anche se allo stato latente, senza averla determinata in modo essenziale).