di Simone Ferrari 

Un soggetto, a seguito di convalida dell’arresto in flagranza, veniva sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, poiché gravemente indiziato dei reati di cui agli artt. 624 bis e 385 c.p. L’indagato, infatti, veniva sorpreso dalle Forze dell’Ordine nel tentativo di commettere il delitto di furto in abitazione; inoltre il medesimo indagato – per fatti precedenti – era stato condotto in arresto davanti al Tribunale per rispondere di furto tentato, per il giudizio direttissimo, e all’udienza gli era stata applicata la misura degli arresti domiciliari, con autorizzazione a rientrare al proprio domicilio libero, senza scorta; ma egli non aveva mai raggiunto il detto domicilio.

Il Tribunale del riesame, adito dall’indagato, confermava l’ordinanza impugnata. Avverso tale ultima ordinanza reiettiva, l’indagato proponeva ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore.

Ad avviso della Corte di Cassazione (Sezione Quarta Penale, n. 45928/2017), il ricorso è infondato. Osserva il Collegio che il reato di evasione, sia nella forma propria (art. 385 co. 1 c.p.) che in quella impropria (art. 385 co. 3 c.p.), tutela l’interesse dello Stato ad una corretta attuazione della pretesa punitiva o a garantire le esigenze cautelari funzionali al processo penale.

Tale interesse, alternativamente considerato, acquista rilievo penale dinanzi all’instaurazione, ad opera del Giudice o di altro soggetto abilitato, di una situazione oggettiva di privazione o di limitazione della libertà personale. La norma incriminatrice vuole garantire essenzialmente l’immanenza della condizione di legittima restrizione o limitazione della libertà personale. Il concetto di evasione non postula necessariamente la fuga da un istituto carcerario o l’allontanamento dal luogo di restrizione domiciliare, ma evadere significa eludere completamente e con qualunque mezzo la sorveglianza in atto o potenziale delle persone incaricate.

Ciò posto, considerato che il ricorrente, dopo la convalida dell’arresto in flagranza per altri reati, fu sottoposto dal Tribunale alla misura cautelare degli arresti domiciliari e fu autorizzato a raggiungere la propria abitazione senza scorta, è evidente che il predetto contestualmente acquisì la condizione di persona ristretta, obbligata a portarsi nel luogo ritenuto idoneo a impedirle che fuori di esso esprimesse la propria pericolosità e a consentire in pari tempo all’Autorità di Polizia un agevole controllo. L’essersi l’imputato sottratto alla cautela impostagli, eludendone la finalità e riacquistando sostanzialmente – per sua autonoma iniziativa – lo stato di libertà, integra il delitto contestato.

Non si è peraltro in presenza di una trasgressione delle prescrizioni inerenti alla misura, sanzionabile ai sensi dell’art. 276 c.p.p., posto che l’autorizzazione a raggiungere il luogo di restrizione domiciliare senza scorta non attiene alle modalità di esecuzione della misura cautelare, già definita in tutti i suoi aspetti, ma attiene alla stessa operatività della misura.

Nella specie, il giudice della cautela ha, inoltre, correttamente evidenziato che “la circostanza che il padre del ricorrente non abbia voluto accogliere il figlio non può giustificare la mancata osservanza del provvedimento coercitivo; né basterebbe a escludere la responsabilità dell’indagato il fatto dal medesimo rappresentato, ma affidato alla sua esclusiva dichiarazione, di essersi rivolto agli ufficiali di P.G. per rappresentare il rifiuto del padre, avendo egli comunque scelto di allontanarsi dai luoghi, vagando senza fissa dimora per i successivi cinque giorni, come dallo stesso ammesso innanzi al Giudice (…) D’altra parte, l’operatività del provvedimento cautelare non può essere messa in dubbio, posto che l’ordinanza applicativa della misura era stata notificata sicché l’indagato non poteva allontanarsi ma doveva recarsi presso il più vicino luogo di Polizia, trattenendovisi”.

In conclusione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.