In tema di investigazioni difensive preventive, il GIP di Milano ha correttamente considerato lecita la raccolta di materiale biologico (ai fini dell’estrazione del DNA) di un soggetto, a sua insaputa, avvenuta in luoghi pubblici o aperti al pubblico (così come consentito dall’art. 391 sexies c.p.p.), e nel pieno rispetto della libertà personale e della dignità della persona: la raccolta aveva riguardato, in concreto, oggetti utilizzati e in seguito abbandonati (tazzina di caffè, cucchiaino, bottiglietta). Il prelievo del materiale non ha, infatti, comportato alcun atto coercitivo sulla persona.

In questo senso, il GIP ha ritenuto che le operazioni investigative fossero avvenute nel rispetto degli artt. 327 bis e 391 nonies c.p.p., nonché delle norme sui dati personali: le attività erano necessarie ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive preventive, per far valere in sede giudiziaria un diritto (nel caso: revisione di una sentenza di condanna). s.f.

Brevi note in tema di acquisizione/utilizzazione di materiale biologico a seguito di investigazione difensiva

di Mario Deganello

L’ordinanza di cui a commento, ad esito di un percorso motivazionale non del tutto convincente, legittima l’acquisizione, e la consequenziale utilizzazione, di materiale biologico “formato” ad insaputa del soggetto periziando.

I fatti. All’obiettivo dell’instaurazione di un eventuale giudizio di revisione di una sentenza di condanna emessa nei riguardi del proprio assistito (in un’ottica, quindi, di investigazione difensiva preventiva ex art. 391 nonies c.p.p.) un ufficio difensivo, per tramite del proprio consulente tecnico, “raccoglie” materiale biologico “depositatosi” su oggetti di uso comune in carico al destinatario di quella attività “invasiva” (tazzina di caffè, un cucchiaino di metallo ed una bottiglietta di plastica) in luoghi pubblici o aperti al pubblico: a detta del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano ciò rappresenterebbe un momento del tutto lecito in quanto “derivante” da una condotta “volontaria” dell’interessato (il quale non sarebbe stato “forzato” a collaborare nella “cessione” di quel materiale), anzi addirittura caratterizzato da un “disinteresse” per la preservazione del medesimo, invero “abbandonato” in luoghi funzionali al suo smaltimento (su tutto, si pensi alla bottiglietta di plastica “repertata” nell’apposito cassonetto dei rifiuti).

La pronunzia del giudice milanese muove, quindi, dal concetto di res derelicta assumendo che ciò che può essere qualificato tale è di pieno utilizzo processuale in ordine alle risultanze da esso “conseguibili”. Ora, ammesso e non concesso che nella vicenda di specie si possa ad ogni effetto discorrere di res derelicta, o, come dice l’ordinanza di interesse, di “qualcosa che non faceva più parte della persona” X (il materiale “repertato” è stato infatti fatto oggetto di “ricerca attiva” ad opera del consulente tecnico, vuoi avendo riguardo ai tavolini del bar a cui sedeva l’avventore, in merito alla tazzina di caffè ed al relativo cucchiaino, vuoi avendo riguardo al porta-rifiuti ove X aveva gettato la bottiglietta di plastica), ciò non implica, di per sé, che, delle risultanze di cui alle res nullius si possa fare uso incondizionato. E ciò riconduce/introduce all’aspetto che ci sembra di maggiore problematicità nel contesto della pronunzia ad oggetto.

Ora, se è ben vero che, nel caso di specie, non si è assistito ad un “prelievo forzoso” di materiale genetico, del pari risulta innegabile che quell’“apprensione” è intervenuta ad insaputa del soggetto che ne è stato destinatario, con modalità “clandestine” di assicurazione del dato. E ciò non pare del tutto funzionale alla ratio giustificante l’intervento normativo ex lege 30 giugno 2009, n. 85, con il quale, “mandando ad effetto” con colpevole ritardo il “monito” di cui a Corte costituzionale sentenza 9 luglio 1996, n. 238, il legislatore ha regolato “casi” e “modi” delle “perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale”. Il novum di cui al provvedimento del 2009, difatti, non tanto “cospira” a garantire avverso “prelievi coattivi” di materiale biologico – non per nulla, legittimandone il ricorso allorquando l’interessato non presti consenso all’operazione – quanto, piuttosto, a dettagliare ‘tipologie’ e ‘metodiche’ di un’attività sine dubio “invasiva” della propria sfera riservata di “privatezza”. L’apprensione “surrettizia” di materiale organico, il che, del resto, configura la “tecnica” maggiormente “invalsa” nella prassi di assicurazione del medesimo, esula, ça va sans dire, dal perimetro “esplorativo” di cui all’intervento riformatore del 2009 – ci si sarebbe, allora, forse dovuti interrogare sulla riconducibilità di quella “captazione” all’area di intervento segnalata e, solo in un secondo momento, valutarne liceità e/o legittimità al riguardo.

D’altra parte, è fatto notorio che l’“assenteismo” legislativo – si pensi, tanto per “imbastire” un parallelismo, alla vexata quaestio delle videoriprese in luogo pubblico o, finanche, in “dimensione” privata -, rimettendo alle “dinamiche” dei pratici la risoluzione di criticità di non breve momento, identifica un “nervo scoperto”, giusta i “tortuosi” rapporti tra diritto vigente e diritto vivente, che consegna all’interprete un quid che va ben al di là dei limitati orizzonti di queste considerazioni. Qui, al postutto il “sacrificio” di posizioni di garanzia (la prestazione del consenso ad un’operazione invasiva della propria “sfera intima” in esclusiva difettando il quale è possibile “agire” coattivamente), e ciò ci appare “inquietante”, si modula sull’“altare” di una ritenuta piena esplicazione dei diritti difensivi: e, sia detto con estrema franchezza, non sappiamo quanto ciò possa ritenersi “serenamente” consentito.