di Elisa Vernagallo
Il concetto di pena, relativamente all’evoluzione storico-culturale, può definirsi dinamico. Il suo cangiante significato attraverso le varie epoche storiche è attribuibile alle teorie che sono state elaborate nel tempo in relazione al fondamento, allo scopo e alla funzione della pena stessa.
Una prima linea di demarcazione concettuale relativa alla pena è rintracciabile nella diversa concezione che di essa si aveva. Da un lato la punizione era strettamente legata alla locuzione latina quia peccatum est, ovvero la sua funzione dipendeva esclusivamente dal male commesso. Un’idea di pena il cui sguardo era rivolto prettamente all’esperienza passata. Dall’altro lo scopo punitivo poteva essere spiegato sulla base del concetto ne peccetur secondo il quale le teorie da esso derivanti ritenevano che la funzione della pena fosse strumentale, pratica, con evidenze in concreto come la prevenzione di atti illeciti futuri.
Sulla base di queste prime informazioni, possiamo ora presentare due tipologie di dottrine che vennero a costituirsi in un primo tempo.
Volendo seguire un filo cronologico troviamo dapprima la cosiddetta teoria retributiva, così definita in quanto giustifica la pena come equa punizione rispetto ad un male commesso precedentemente. Suddetta teoria è annoverabile tra le teorie assolute che concepiscono la pena come un fine in sé, prescindendo da qualunque scopo esterno essa possa perseguire. L’impianto filosofico dominante in questa teoria segue il principio della lex talionis sulla base del concetto di proporzione, secondo il quale il male va ricompensato con il male, che però può anche essere di diversa natura rispetto a quello subito. Infatti, ciò che conta è la corrispondenza in termini di intensità fra il torto subito e la punizione che ne deriva. Infliggere un castigo al colpevole è la giusta retribuzione per un dolore precedentemente sofferto. Ponendo esclusivamente l’attenzione al solo fatto illecito commesso, si evince il disinteresse nei confronti del reo e della sua personalità, aspetto che invece sarà centrale nella teoria rieducativa.
Quest’ultima rientra fra le teorie utilitaristiche, le quali attribuiscono alla pena uno scopo di utilità sociale. Qui la pena non è fine a se stessa, bensì viene concepita in un’ottica preventiva con degli effetti riscontrabili nella realtà, quale appunto prevenire la commissione di delitti in futuro. Il concetto di prevenzione, principio cardine di questa teoria, è da intendersi in questo caso come sinonimo di intimidazione da rivolgere in primis nei confronti del reo, in secondo luogo nei confronti degli altri membri della società. Secondo questa impostazione, la punizione diviene una sorta di mezzo pedagogico volto a formare e mantenere la coscienza civile e morale di tutti i membri della società.
Entrando più nel dettaglio, l’azione di prevenzione rivolta al singolo soggetto, che prende il nome di componente special-preventiva, consta di due momenti principali: da una parte la rieducazione in senso stretto (prevenzione speciale positiva) che agisce sullo stile comportamentale del soggetto, ripristinando i dogmi etico-morali in vista di un suo reintegro nella società; dall’altra l’intimidazione-neutralizzazione della persona ritenuta pericolosa (prevenzione speciale negativa) mediante la reclusione in carcere.
Per quanto concerne, invece, la funzione general-preventiva essa è da rivolgere nei confronti di tutti i membri della società. La pena viene vista come esempio per tutti i consociati e come avvertimento con l’intento di indurre tali soggetti ad astenersi dal commettere reati.
Il principio della prevenzione, in tutte le sue forme, è chiaramente rinvenibile nell’art. 27, comma 3, Cost. secondo cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.