di Simone Ferrari
Avverso un ordinanza del Tribunale di Catania, che in sede di riesame aveva annullato l’ordinanza cautelare emessa nei confronti di M., proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania.
M. era stato raggiunto dalla misura cautelare domiciliare perché gravemente indiziato del delitto di corruzione, per aver concorso nella promessa ed elargizione ad A., membro di una commissione aggiudicatrice di una gara ad evidenza pubblica, di una tangente, quale indebita utilità per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio (costituiti nel recepire le indicazioni del M., interessato alla vittoria di un dato raggruppamento di imprese, effettivamente risultato poi aggiudicatario. Secondo l’ipotesi accusatoria, la tangente sarebbe stata versata all’A. da L., sotto forma di compenso per un contratto di consulenza, redatto anche con la collaborazione del M.
In sede di riesame, il PM aveva modificato la provvisoria imputazione, indicando la prestazione sinallagmatica dell’A. in quella di essersi reso disponibile a informare M. dell’andamento della gara mentre questa era in corso, ed avvertirlo di eventuali problematiche che potessero impedire l’aggiudicazione in favore del raggruppamento, nonché a recepire eventuali suggerimenti del M.
Il Tribunale riteneva che la condotta dell’A. non fosse inquadrabile nello schema corruttivo, non essendo individuabile l’atto contrario ai doveri d’ufficio. Nessun profilo di irregolarità era stata segnalata dall’Accusa in ordine allo svolgimento della gara e alla relativa aggiudicazione e non risultava che lo stesso A. avesse compiuto o concordato interventi a favore del raggruppamento, essendosi limitato a segnalare problematiche di natura tecnica delle quali aveva scarsa conoscenza. D’altra parte, secondo il Tribunale, la versione fornita dall’A. era di aver ricevuto una ricompensa per il favore fatto nella gara e quindi al di fuori del pactum sceleris richiesto dall’art. 319 c.p. Né i fatti potevano, come prospettato dal PM, configurare il reato di cui all’art. 318 c.p., in mancanza di un pactum sceleris.
Ad avviso della Cassazione (Sezione Sesta Penale, n. 35940/2017), il ricorso è fondato. Viene ribadito che integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad un’imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge.
Invero, in tema di corruzione propria, costituiscono atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza e imparzialità.
D’altra parte, è pacifico che il reato in oggetto possa essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale o meramente consultiva, quando essi costituiscano concreto esercizio dei poteri inerenti l’ufficio e l’agente sia il soggetto deputato ad emetterli o abbia un’effettiva possibilità di incidere sul relativo contenuto o sulla loro emanazione. Ed invero, l’atto di natura discrezionale o consultiva non ha mai un contenuto pienamente “libero”, essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all’apprezzamento dell’interesse pubblico, senza deviarne o stravolgerne il contenuto per tutelare interessi di ordine privatistico dietro la corresponsione di somme di denaro.
Da quanto premesso ne discende che configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p. – lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo, si conformino all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali.
Va altresì aggiunto che l’art. 319 c.p. prevede che le “utilità” integranti la vendita delle funzioni siano erogate anche dopo l’esercizio delle funzioni stesse, in conformità al duplice schema perfezionativo del reato.
L’ordinanza impugnata aveva invece conferito rilievo assorbente alla mancanza, da un lato, di una compravendita di uno specifico atto d’ufficio, dall’altro, di un accordo corruttivo precedente all’esercizio delle funzioni.
In conclusione, la Corte Suprema ha annullato l’ordinanza impugnata e rinviato per nuovo esame al Tribunale di Catania.