In un recente decisum (Cass. pen., Sez. VI, n. 7572/2023) l’organo di legittimità, adito a fronte di una doglianza ad oggetto l’esatta configurazione del reato di cui all’art. 375 c.p. (“Frode in processo penale e depistaggio”), era altresì investito di due motivi di ricorso che lambivano, in un contesto nondimeno di maggiore ampiezza, il profilo della regola di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ come normata ex art. 533, comma 1, primo periodo, c.p.p. (“Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio …”). Più nel dettaglio il primo censurava l’operato del giudice di seconde cure “per avere la Corte distrettuale, senza neppure integrare il materiale probatorio, omesso di rispettare il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, valutando a carico dell’imputato, con argomentazioni ipotetiche e congetturali, elementi indiziari qualificati da scarsa capacità dimostrativa; nonché dando per scontato circostanze non confermate (quale la preordinazione dell’operazione da parte dell’agente e la disponibilità esclusiva del portafoglio” – il bene materiale in ordine al quale si era venuta a perfezionare l’attività di “depistaggio” di cui al capo di imputazione – “, nel contempo sminuendo la portata di dati informativi certi favorevoli prevenuto (quali la mancanza di un obbligo di identificazione dei visitatori della questura e le immagini riprese dalla telecamera di servizio, che avevano certificato come il … avesse lasciato il portafoglio nel gabbiotto di guardia dove vi erano altri agenti)”. Giusta il secondo, invece, il condannato, con atto sottoscritto dal proprio difensore, imputava al giudice territoriale (la Corte di appello di Milano) di avere “tradito il criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nel valutare diversamente posizioni analoghe; nonché per avere omesso di rispondere alle censure difensive inerenti alla posizione dell’agente Mario …” – nei cui riguardi si era indotto lo “sviamento” costitutivo del depistaggio di cui al capo di accusa – “, che per un’intera notte aveva avuto la materiale disponibilità del portafoglio in questione e che della relativa marca non aveva fatto menzione negli atti di servizio a sua firma; non potendosi, dunque, escludere che il portafoglio consegnato … fosse quello Prada e non quello Fossil” – stante la dinamica dei fatti contestata l’imputato avrebbe sostituito il portafoglio di valore, e facilmente identificabile (quello Prada, giustappunto), smarrito dal legittimo proprietario in un taxi il cui conducente esso aveva tradotto presso la locale Questura, impossessandosene, fra l’altro, del contenuto (250 Euro), con un uno più dozzinale (quello Fossil, giustappunto), provvisto dei documenti dell’interessato e della “misera” somma di 10 Euro. La suprema Corte di cassazione ha buon gioco nel rigettare le sopravanzate doglianze ad esito di una diffusa motivazione nella quale, pur tuttavia, neppure una volta, quand’anche incidenter tantum, si fa menzione della regola di giudizio oggetto delle Nostre riflessioni. Il giudice di legittimità si “riduce” difatti a scrivere che “
Ora pare inerte speculare sulle rationes profonde che hanno consigliato gli “ermellini” a tacere al riguardo. Di certo la formula BARD (‘beyond any and all reasonable doubt’, alle nostre latitudini, come già sottolineato, ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’) identifica un forte presidio di garanzia. Si mediti, tanto per esemplificare, sulla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in fase di appello [ormai vera e propria “fata morgana” una volta elevata a regola di sistema la conduzione non partecipata del giudizio in quel momento di controllo (cfr. 598-bis, comma 1, c.p.p.) al punto che, alquanto provocatoriamente, si potrebbe assumere che quel novum si innesti in esclusiva laddove l’imputato, in prime cure, sia stato dichiarato ingiustamente, ed ingiustificatamente, assente (v. il combinato disposto degli artt. 598-ter, 603, comma 3-ter, 604, commi 5-ter e 5-quater del codice di rito penale)] e, ancor più nello specifico, laddove, a fronte di esito assolutorio in primo grado, il pubblico ministero appelli per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa nel qual caso “il giudice … dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5 ” c.p.p. [così il testo del vigente art. 603, comma 3-bis, come novellato dall’art. 34, comma 1, lett. i), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, cosiddetta riforma Cartabia dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia). Ebbene: chiamata a pronunziarsi sulla “conversa” (ovvero se, ad esito “condannatorio” in primo grado, dovessero operare le medesime regole per volgere in senso assolutorio le risultanze di cui al primo grado di giudizio) la Corte di legittimità, nella sua massima espressione (Cass. pen., S.U., n. 14800/2017), declinava che “Presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell’epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione. Analoghe le conseguenze sulla estensione dell’obbligo di motivazione, che, in caso di totale riforma in grado di appello, si atteggia diversamente a seconda che si verta nell’ipotesi di sovvertimento della sentenza assolutoria ovvero in quella di totale riforma di una sentenza di condanna. Mentre nel primo caso, infatti, al giudice d’appello si impone l’obbligo di argomentare circa la plausibilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizi, per il ribaltamento della sentenza di condanna, al contrario, il giudice d’appello può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo. Deve trattarsi, peraltro, di ricostruzioni non solo astrattamente ipotizzabili in rerum natura, ma la cui plausibilità nella fattispecie concreta risulti ancorata alle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza. È dunque necessario che il dubbio ragionevole risponda non solo a criteri dotati di intrinseca razionalità, ma sia suscettibile di essere argomentato con ragioni verificabili alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo” (per una ratifica successiva Cass. pen., Sez. V, n. 25949/2020, in cui l’organo di nomofilachia interviene sul tema dell’operatività dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, come disposto dall’art. 603, comma 3-bis c.p.p., nella ipotesi di sentenza di secondo grado che confermi la decisione assolutoria di primo grado. Nell’affermare l’insussistenza di un tale obbligo, non ponendosi colà una questione di rispetto del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio né del principio costituzionale della presunzione di innocenza in una prospettiva garantistica per l’imputato, la Corte enfatizza la necessità della rinnovazione istruttoria, in applicazione della regola dell’immediatezza nell’assunzione della prova dichiarativa decisiva, nel solo caso in cui sia emessa in appello una pronuncia di condanna a fronte di una assolutoria di primo grado coerentemente, fra l’altro, ai principi dettati dalla giurisprudenza della Corte EDU [ex multis cfr. Dan v. Moldova, (no. 1), terza sezione Corte EDU, 5 luglio 2011 e Dan v. Moldova, (no. 2), seconda sezione Corte EDU, 10 novembre 2020]. Ma già in un più risalente leading case (Cass. pen., S.U., n. 27620/2016) le medesime Sezioni Unite avevano assicurato che “La disposizione che ha introdotto nel sistema codicistico il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio è stata, non a caso, riferita dal legislatore all’esclusivo ambito di applicazione dell’art. 533 cod. proc. pen., che attiene alla pronuncia di una sentenza di condanna, mentre dall’art. 530 cod. proc. pen., che disciplina il diverso esito assolutorio, non soltanto non emerge un criterio di giudizio analogo, ma ne affiora, nella sostanza, uno opposto. Nel comma 2 di tale articolo, infatti, si prevede che il giudice debba pronunciare assoluzione in tutti i casi in cui un dubbio sussiste e non può essere superato, ciò che equivale a descrivere – dalla prospettiva dell’assoluzione – il mancato soddisfacimento della regola del ragionevole dubbio”. Altrimenti detto, con indovinata sintesi, si può compendiare che, “nel giudizio di appello, in caso di diversa valutazione del materiale probatorio in primo grado ritenuto idoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, per la riforma della sentenza non occorre che la motivazione esprima una forza persuasiva superiore, ma è sufficiente che la diversa valutazione sia dotata di pari o addirittura minore plausibilità di quella operata dal primo giudice, perché l’assoluzione a differenza della condanna non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della condanna” (la sottolineatura è nostra) (Cass. pen., Sez. IV, 39129/2022).
Al postutto, dunque, la regola di giudizio ex art. 533, comma 1, c.p.p., manda compiutamente ad effetto il brocardo in dubio pro reo suggellandone il “carisma” anche “quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile” nonché laddove “vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse” (così i commi 2 e 3 dell’art. 530 del codice di rito penale). In dette evenienze, senza margine veruno, si deve assolvere; e ciò proprio in quanto non si è concretata, al di là del ragionevole, la prova della colpevolezza del prevenuto attestandosi invero, giusta quella verifica, ben “sotto soglia”. Di tal che, secondo la prospettiva ripromessasi, il giudice dovrebbe condannare solo quando la probabilità della colpevolezza (p) moltiplicata per l’utilità di condannare un colpevole (Ucc) e sommata per la probabilità di innocenza (1 – p), a sua volta moltiplicata per la disutilità di condannare un’innocente (Dci), è maggiore della probabilità dell’innocenza (1 – p), moltiplicata per l’utilità di assolvere un innocente (Uai) e sommata alla probabilità della colpevolezza (p), a sua volta moltiplicata per la disutilità di assolvere un colpevole (Dac). Questa operazione, all’apparenza contorta, può essere sinteticamente espressa con la seguente disuguaglianza: pUcc +(1 – p)Dci > (1 – p)Uai +pDac da cui ulteriormente inferire p ovvero la probabilità della colpevolezza necessaria per potere condannare un imputato.
Bréf: è ottima cosa condividere il substrato di garanzia di cui alla regola BARD ma, parliamoci chiaro, qualora ci si volga a rivestire di contenuti la “nebulosa” di specie (id est, rendere l’operazione matematica di specie definitoriamente appetibile) l’impresa risulta non poco ardua. Ma prima di accingersi a ciò qualche considerazione di insieme. L’ ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ si afferma in contesti “altri” dalle realtà di civil law quantunque, per ciò che attiene all’esperienza italiana, più di uno studioso ne antivedesse in nuce le strutture portanti nel combinato disposto di taluni articoli del codice di rito penale: sarà difatti la Corte Suprema Federale Usa, nella nota vicenda In re Winship [397 U.S. 358 (1970)], ad individuare i tratti distintivi di una consolidata tradizione che risaliva agli albori della Nazione. Per bocca del giudice Brennan, estensore della majority opinion, i Brethrens di Washington concludevano che “l’accusato ha diritto ad essere assolto dallo specifico capo di imputazione che gli è notificato se, valutate tutte le prove, sussiste un ragionevole dubbio in ordine alla sua colpevolezza. Nessun essere umano dovrebbe essere privato della sua vita, o della sua libertà, se non nella misura in cui i giurati che in merito a ciò decidono siano in grado, stante il loro prudente apprezzamento, di “garantire” che le prove formate innanzi a loro risultino sufficienti a dimostrare, oltre il ragionevole dubbio, ogni elemento costitutivo del fatto-reato contestato” e che quel canone decisorio “identifica un supporto essenziale onde ridurre al minimo l’alea di condanne che si fondino su errori giudiziari. Lo standard in oggetto procura concretezza alla presunzione di innocenza – principio assiomatico e fondamentale che sta alla base del Nostro sistema di amministrazione della giustizia al quale, consequenzialmente, è doveroso dispensare tangibilità”. Il tutto, poi, inserito, in una “coperta” normativa di prim’ordine dacché la regola BARD esprimerebbe un valore che già si annida nelle pieghe della Due Process Clause di cui al XIV Emendamento alla Costituzione Federale USA. Ciononostante, a prescindere dalla blandizie comunicativa della locuzione (il lettore più avveduto avrà di certo osservato come i giudici supremi USA siano estremamente cauti …), l’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ suscita più di un imbarazzo. È più facile, difatti, scendendo in medias res, evocare nobili e preziosi principi di civiltà giuridica cui fare appello per giustificare il ricorso a tale formula che “imbrigliarne” le fluide coordinate entro margini definitori puntuali (così, a bene vedere, la sentenza In re Winship in cui si procede senza adeguata bussola orientativa al riguardo); e, specularmente, pare di maggiore immediatezza convergere su ciò che risulterebbe indimostrato al di qua della soglia fissata dalla regola piuttosto che individuare il discrimine, rispettato il quale, un elemento di conoscenza possa ritenersi convalidato al di là del ragionevole dubbio – pare, insomma, meno gravoso accertare che cosa “sta fuori” rispetto a ciò che “deve stare dentro” (v., a riprova, l’art. 530, commi 2 e 3, c.p.p.; e ciò proprio in quanto, come già suggerito, l’assoluzione, a differenza della condanna, non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della condanna).
Sine dubio, ai fini del tentativo di offrire maggiore determinatezza al concetto, vanno banditi rinvii al dubbio cartesiano, di per sé coessenziale all’ergo sum, oltre che riferimenti al dubbio che investe di sé le opzioni fondamentali di cui alla vita umana: così opinando una perplessità la si ravvisa sempre. Tanto per esemplificare: se si prestasse effettivo orecchio al “recitativo” di diritti e di doveri ex art. 143 c.c. il numero dei matrimoni calerebbe in modalità esponenziale; nel giudizio penale, stando così le cose, si assolverebbe invece senza posa dal momento che, in rerum natura, un dubbio verrebbe di default a prodursi. Né, sempre valorizzando criteri qualificativi, otterrebbe maggiore fortuna affidarsi al dubbio sostanziale, serio, forte o ben fondato tanto più che è men che meno fecondo assumere a linee-guida dubbi immaginari o ombre di dubbi, del genere niente è certo a questo mondo. Neppure, in alternativa, soddisfano criteri quantitativi a matrice probabilistica emersi, non fosse altro, per tracciare l’opportuna “linea di displuvio” fra standard processualpenalistico e standard civilistico (in quell’area disciplinare si ragiona, in luogo di beyond any and all reasonable doubt, di preponderance of evidence, ai nostri “climi” locuzione resa con ‘più probabile che non’ – del resto minore la posta in gioco minore la soglia entro cui deve attestarsene il rispetto). La forza dei numeri, e delle percentuali, prima facie, difatti seduce ma, ad una riflessione meno epidermica, non appaga. Si mediti, tanto per esemplificare, su di una certezza del 95% ad oggetto la realizzazione di un factum sceleris e la sua attribuibilità al prevenuto. L’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ sembrerebbe ben garantito ma, meglio indagando, ci si avvede che, in un caso su venti, viene a determinarsi un errore giudiziario – od un colpevole è libero pede od un innocente è ristretto in vinculis: una ratio che, quantomeno a Noi, pare inaccettabile. Potrebbero, forse, ad estremo rassicurare percentuali con molti numeri dopo la virgola (99,999%, putacaso) ma, anche in quelle evenienze, sopravanzerebbe un margine opinabile di incertezza. E la vaghezza in merito nemmeno parrebbe a sufficienza dissolversi altresì a fronte dell’enunciato definitorio ritenuto il più funzionale all’obiettivo ovvero il §1096 del codice penale della California (lascito comune agli interpreti finanche al di qua dell’oceano dopo la sua esplicitazione nelle capillarissime instructions to the jury di cui al giudice Lance Ito nel “mediatizzato” processo al football hero O.J. Simpson) giusta cui il ragionevole dubbio palesa “quella situazione che, dopo tutti i bilanciamenti e tutte le valutazioni delle prove addotte, lascia la mente dei giurati nella condizione in cui non possono dire di nutrire un convincimento incrollabile in ordine alla verità dell’accusa ”. Di modo che, allora, e soprattutto, gli esiti conclamati imprimono disagio l’‘oltre il ragionevole dubbio’ astraendo da una qualsiasi chiarezza definitoria: constatata l’impossibilità di una desiderabile reductio ad unum verrebbe spontaneo convenire con i giudici supremi USA i quali, in un’ulteriore pronunzia [Victor v. Nebraska, 511 U.S. 1 (1994], pragmaticamente dettavano che nulla impone nulla proibisce di definire lo standard de quo tutto rimettendosi, quindi, alla buona volontà degli operatori pratici del diritto (incomodo che la Corte di Cassazione, nella sentenza da cui si è preso l’abbrivio per queste riflessioni, ha eluso). Un’immane fatica di Sisifo con un macigno (l’‘oltre il ragionevole dubbio’) che, più viene fatto avanzare sulla cima di una collina (l’approdo definitorio), vieppiù scivola verso il basso (l’offuscamento dei tratti).
Ma quand’anche la prospettiva indicata fosse soddisfatta (offrire chiarezza all’indecifrabile) subentrerebbe un ulteriore inconveniente, di rilievo ancor più decisivo. È noto che, per effettuare come si deve un’operazione definitoria, è imprescindibile individuare il definiens a cui rapportare il definiendum vale a dire, detto in altri termini, agire in una prospettiva genere-specie evidenziando la classe nozionale a cui ricondurre il singolo elemento da definire. Ora, asserire che ‘il cane è un utensile’, formalmente parlando, rappresenta un’attività di definizione ma, nondimeno, delinea un errore categoriale giacché mai e poi mai, per quanto si “stressino” i significanti, è concepibile predicare l’appartenenza del cane a quella classe. Ai nostri fini, pertanto, si rivela prioritario verificare se l’‘oltre il ragionevole dubbio’ afferisca alla classe dei ‘criteri di valutazione’ oppure ad un’ulteriore classe, allo stato imprecisata, onde evitare di incorrere in un’evidente petitio principî. Con criterio di valutazione, difatti, intendiamo qualsiasi parametro idoneo a veicolare il libero convincimento del giudice avuto riguardo ad un X (contenuto probatorio) utilizzabile; la formula analizzata, a bene vedere, sembra comunicare un qualcosa di diverso ovvero, tentando una sintesi, una regola di giudizio che, una volta esauritosi il vaglio prudenziale rimesso al giudice sul quantum di affidabilità della singola prova, faciliti l’approssimarsi alla decisione “giusta” e garantisca la tenuta delle formule terminative di cui agli artt. 530 e 533 c.p.p. Regola che, pertanto, funziona bene in un contesto di prova imponendo un onere di allegazione/produzione e di persuasione in capo ad ei qui dicit; funziona invece meno bene in un contesto di giustificazione negando al giudice un criterio di orientamento sul cui presupposto apprezzare il valore probante di elementi dall’efficacia dimostrativa instabile.
Se le cose stessero effettivamente così la regola BARD dovrebbe potersi ricondurre ad una “tenace” espressione della cosiddetta logica argomentativa nel senso che le parti processuali necessarie (indagato/imputato vs. pubblico ministero) consegnano, all’operato del giudice, una, o più, preposizioni atte a confermarne un’altra denominata ‘Tesi’ (nell’un verso l’estraneità ai fatti del supposto autore del reato nell’altro la conferma dell’addebito). Ebbene: nel gioco dialettico degli opposti l’‘oltre ogni ragionevole dubbio’, come normato ex art. 533, comma 1, primo periodo, c.p.p., impedisce ad un’ipotesi di trasformarsi in tesi. Altrimenti detto l’imputazione (credere che un qualcosa sia avvenuto e che quel qualcosa sia responsabilità di un soggetto determinato) resta tale non essendosene acclarata, giustappunto al di là del ragionevole dubbio, la corrispondenza al vero (processualmente inteso, sia ben chiaro); il polo difensivo, quindi, ha giocato meglio le sue carte instillando, nella mente dell’organo di jus dicere, diffidenza rispetto al teorema di accusa. Questo, nondimeno, è un mondo bucolico; solo ottimisticamente si può infatti ritenere che, nella realtà dei fatti, ciò venga ad accadere la “provvista dimostrativa” rimessa al polo di accusa mostrandosi ben più solida di quella garantita al patrocinatore legale del rinviato a giudizio. L’égalité des armes andrebbe dunque coltivata senza remora veruna. Di ciò avrebbe potuto farsi carico l’ordito riformistico di cui al d. lgs. 150/2022 summenzionato; nel comparto disciplinare di cui alle investigazioni difensive, prodromo per un’efficace ed efficiente logica argomentativa da “spendersi” in giudizio, pur tuttavia, ci si limita ad intervenire – beninteso: trattasi di un novum da sottoscrivere – sulle modalità di documentazione di saperi peculiari raccolti in quella sede (ad esempio, in ordine a dichiarazioni addotte da minorenni da infermi di mente o da soggetti che versino in condizione di particolare vulnerabilità, si esige che esse siano “documentate integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica, salvo che si verifichi una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico e sussistano particolari ragioni di urgenza che non consentano di rinviare l’atto”: così l’art. 391-ter, comma 3-ter, c.p.p.) nulla soggiungendosi su profili più prossimi a quanto di interesse. Ma allora, a desolante chiosa finale, viene “naturale” interrogarsi se, “stato dell’arte” non obstante, l’‘oltre il ragionevole dubbio’ si riveli … oltre ogni ragionevole dubbio … funzionale a mandare ad effetto quei valori di certezza del diritto e di giustizia sostanziale che si intende destinato a perseguire.