Commento a Cass. pen., Sez. V, n. 45680/2022

In una recente decisione (Cass. pen., Sez. V, n. 45680/2022), ad oggetto un’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa (nell’evenienza de qua, “stressando” legittimamente il concetto, viene ritenuta tale anche il blog personale del ricorrente), l’organo di nomofilachia, giusta l’articolazione del presentato ricorso, poi ritenuto infondato, viene investito di un profilo non di breve momento stante la visuale del processualpenalista ovverosia i presupposti normati onde riconoscere la legittimità dell’impedimento a comparire dell’imputato all’udienza ex art. 420-ter c.p.p.

Nel caso di specie la Corte di cassazione ha, nondimeno, gioco facile nel rigettare la censura giacché la patologia attestata non risultava dirimente ai fini dell’effettiva partecipazione tanto più considerando che il documento prodotto a sostegno dell’impossibilità a comparire neppure poteva qualificarsi come certificato medico “essendo una dichiarazione del responsabile della struttura ove l’imputato era ospite, sia pure per motivi di salute, privo di specifiche indicazioni sulla patologia da cui

[egli ] sarebbe [stato] affetto”. Al di là del fugace accenno in sentenza quanto tratteggiato dischiude una criticità per così dire “endemica” del giudizio penale (e non solo di quello odierno), che non per nulla già risale alla vigenza del codice di rito penale del 1930, id est come assicurare piena ed effettiva conoscenza del proprio processo all’imputato che non appaia dinnanzi all’organo di jus dicere: criticità, fra l’altro, “stretta” fra un caotico succedersi di novelle legislative, non sempre opportunamente meditate, pronunzie di indirizzo sia ad opera della Corte europea dei diritti umani che della Corte di cassazione a Sezioni Unite, ed annunziate ulteriori limature di disciplina (qui il riferimento corre al, ormai di imminente entrata in vigore – 30 dicembre p.v. – d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, per convenzione linguistica nota come ‘riforma Cartabia’), il che, purtroppo, avvalora quanto lo scrivente ebbe ad imprimere a titolo di un suo risalente contributo ovvero che si tratta di una “perenne incompiuta”.

Ma procediamo con ordine quantunque in esclusiva per mappe concettuali. A tale riguardo il codice di procedura penale del ventennio fascista incentrava il proprio focus sul cosiddetto rito contumaciale (ciò, nondimeno, si è “eternato” per un significativo intervallo di vigenza dell’attuale corpo normativo del 1988/1989) intendendosi, con ‘contumace’, il soggetto che risulti assente nel processo. Pur tuttavia l’impostazione disciplinare di cui al codice del 1930 mal dissimulava il significato etimologico del termine ossia, giusta il latino contumax, il riguardo sì prestato all’imputato assente ma tale giacché riottoso a comparire (contumax, infatti, sta per ‘arrogante’, ‘ostinato’, ‘riottoso’) di modo che quell’omissis veniva a ricondursi ad una scelta libera e volontaria. Traccia evidente del pregiudizio siffatto si ravvisava nel fatto che il legislatore del 1930 non indicava rimedi effettivi a fronte della “latitanza” di un soggetto che, ‘incolpevolmente’, non avesse partecipato alle udienze. A sanare la riscontrata carenza avrebbe provveduto, primum, in un’epocale decisum, la Corte di Strasburgo (Corte EDU, Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985) e, deinde, le Assemblee parlamentari con l. 23 gennaio 1989, n. 22, recante, significativamente, “Nuove norme sulla contumacia”. E ciò in quanto, in prima istanza, la Convenzione Europea per la Tutela dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (d’ora in innanzi, per acronimo, CEDU), perlomeno per implicito, attribuisce all’imputato il diritto (comunque rinunciabile benché solo con modalità inequivoche) ad essere presente durante lo svolgimento del processo a suo carico giacché, solo così predisponendosi, è consentito l’esercizio delle facoltà che descrivono il contenuto del cosiddetto fair trial ex art. 6 § 3 CEDU venendone che, aggirate le garanzie di specie, l’ordinamento nazionale deve apprestare “un tramite che con adeguatezza compensi i vulnera sofferti dal giudicato, ed eventualmente, condannato in assenza”. Di ciò si sarebbe fatto carico il legislatore, con l’intervento normativo summenzionato, offrendo però all’“incasso” una disciplina inappagante, fondata su di un rimedio che, a diritto violato, opera solo successivamente giusta il ripristino del termine per esercitarlo e non anche preventivamente stante una metodica che, invece, ripari le lacune di sistema (ad emblema di quanto assunto l’art. 183-bis c.p.p. 1930, a Rubrica “Restituzione in termini. Effetti della restituzione”, poi seguito, non fosse altro che come scelta di campo, dalla prima versione dell’art. 175 c.p.p. di attuale vigenza).

Come segnalato en passant il modulo contumaciale aveva finanche trovato “ospitalità” nell’articolato codicistico del 1988 in un insieme di disposizioni (artt. 485-488 c.p.p.) che culminavano in quella a numero d’ordine 487, giustappunto dalla Rubrica rivelatrice “Contumacia dell’imputato” ivi per vero dettandosi che “1. Se l’imputato, libero o detenuto, non compare all’udienza e non ricorrono le condizioni indicate negli articoli 485 e 486 commi 1 e 2, il giudice, sentite le parti, ne dichiara la contumacia, salvo che risulti la nullità dell’atto di citazione o della sua notificazione. In tal caso il giudice pronuncia ordinanza con la quale rinvia il dibattimento e dispone la rinnovazione degli atti nulli. 2. L’imputato, quando si procede in sua contumacia, è rappresentato nel dibattimento dal difensore. 3. Se l’imputato compare prima della decisione, il giudice revoca l’ordinanza che ha dichiarato la contumacia. In tal caso l’imputato può rendere le dichiarazioni previste dall’articolo 494 e, se la comparizione avviene prima dell’inizio della discussione finale, può chiedere di essere sottoposto all’esame a norma dell’articolo 503. In ogni caso il dibattimento non può essere sospeso o rinviato a causa della comparizione tardiva. 4. L’ordinanza dichiarativa della contumacia è nulla se al momento della pronuncia vi è la prova che l’assenza dell’imputato è dovuta a mancata conoscenza della citazione a norma dell’articolo 485 comma 1, ovvero ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento. 5. Se la prova indicata nel comma 4 perviene dopo la pronuncia dell’ordinanza prevista dal comma 1, ma prima della decisione, il giudice revoca l’ordinanza medesima e, se l’imputato non è comparso, sospende o rinvia anche di ufficio il dibattimento. Restano comunque validi gli atti compiuti in precedenza, ma se l’imputato ne fa richiesta e dimostra che la prova è pervenuta con ritardo senza sua colpa, il giudice dispone l’assunzione o la rinnovazione degli atti che ritiene rilevanti ai fini della decisione. 6. Quando si procede a carico di più imputati, si applicano le disposizioni dell’articolo 18 comma 1 lettere c) e d)”.

I contenuti de quibus, alla luce della sopravvenienza di una legge ritenuta di sistema ma mostratasi, poi, disfunzionale all’obiettivo alla prova dei fatti (cfr. l. 16 dicembre 1999, n. 479, nella “vulgata” riconosciuta come legge Carotti), venivano riversati, con gli opportuni e necessari adattamenti, nel contesto di cui alla udienza preliminare, ormai vieppiù cuore nevralgico di ogni accertamento di responsabilità penale (cfr. artt. 420 bis-420 quinquies c.p.p. – v., ai nostri fini, l’art. 420-quater, “specchio fedele” dell’, in parallelo, abrogato art. 487 di cui sopra), con ciò sottoscrivendo il ruolo ormai marginale assunto dal giudizio penale di primo grado tanto più una volta considerato che il nuovo comma 2-bis dell’art. 484 c.p.p. expressis verbis detta che “Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 420-bis, 420-ter, 420-quater e 420-quinquies”.

Giusta un profilo collaterale, anche questo nondimeno già evidenziato, l’art. 175 c.p.p. muoveva a fornire contenuto ai diktat sovranazionali di cui all’arrêt Colozza valorizzando la rimessione in termini di chi, ‘incolpevolmente’, non avesse avuto contezza della sentenza contumaciale, o del decreto penale di condanna, emessa nei suoi riguardi (alquanto improvvidamente, a dire il vero, in quanto si gravava l’interessato di una vera e propria probatio diabolica attribuendosi a costui di dimostrare “di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l’impugnazione non [fosse] stata già proposta dal difensore e il fatto non [fosse] dovuto a sua colpa ovvero, quando la sentenza contumaciale è stata notificata mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161, comma 4 e 169, l’imputato non si [fosse] sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento”).

Rebus sic stantibus il quadro declinato non poteva non attirare l’interesse della Corte Europea dei Diritti Umani la quale, con i twin judgments Somogyi (Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004) e Sejdovic (Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004), provvede a condannare lo Stato italiano per violazione dell’art. 6 CEDU. Rapidissimamente i fatti di causa. Somogyi, cittadino ungherese, era stato condannato in contumacia pur egli dichiarando di non avere avuto mai conoscenza dell’imputazione elevata, contestando l’autenticità della firma di cui alla relata di notifica della data di fissazione dell’udienza preliminare, tradotta in lingua magiara, nonché denunziando taluni errori nell’indicazione dell’indirizzo a cui la medesima avrebbe dovuto essere effettuata; Sejdovic, invece, con buona probabilità autore di un omicidio intervenuto a seguito dello scatenarsi di una rissa virulenta, era stato condannato in contumacia con sentenza passata in giudicato a fronte del mancato appello interposto dal suo difensore. Arrestato in Germania ne veniva rifiutata l’estradizione, domandata dallo Stato italiano, in quanto il Governo tedesco ipotizzava che lo Stato richiedente non avrebbe garantito, ad un sufficiente grado di certezza, la possibilità di ottenere la riapertura del processo. Ebbene: in ambedue le vicende la Corte di Strasburgo è estremamente severa con lo Stato italiano. In Somogyi viene difatti ad individuarsi un obbligo positivo di intervento a carico delle autorità nazionali nel dettaglio a queste imponendosi di assicurarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, che l’imputato sia stato informato della natura e dei motivi delle accuse a carico nonché del giorno e del luogo in cui egli godrà della possibilità di presentare, personalmente o tramite un avvocato, le proprie difese procedendo, ove necessario, alle verifiche richieste allo scopo di fugare ogni incertezza plausibile al riguardo (ricordiamo che il testo in allora vigente dell’art. 175 c.p.p. “delegava” al prevenuto l’onere di comprovare di non avere avuto contezza del provvedimento); in Sejdovic, a sua volta, pragmaticamente il giudice dei diritti umani ritenne il meccanismo apprestato ex art. 175, comma 2, c.p.p. carente e sotto il profilo dell’efficacia (in astratto) e sotto quello dell’accessibilità (in concreto).

Giusta il primo versante, se infatti il rimedio sembra astrattamente funzionale ad eliminare gli inconvenienti determinati da una sentenza contumaciale, tutelando l’instante per tramite della presentazione, apparentemente tardiva, di reclami prima facie inibiti dal vincolo del giudicato, in evenienze “singolari” la tutela offerta può rivelarsi non del tutto piena ed appagante; giusta il versante dell’accessibilità, nella peculiare situazione in cui il ricorrente si trova, l’istanza non deve risultare, all’evidenza, destinata ad essere irricevibile. Ne viene, a conseguenza pratica, quella di esonerare i ricorrenti dall’onere di fornire giustifiche riguardo le azioni da loro perpetrate al fine di sottrarsi alla giustizia; ricostruzione, quella ipotizzata, che assommerebbe il vantaggio di fare “pendere” il dubbio a beneficio dell’imputato. A sintesi finale – sempre Sejdovic – lo Stato convenuto deve allora “rimuovere ogni ostacolo legale che possa precludere a chi sia stato condannato in contumacia – sempre che questi non fossero stati informati “a pieno titolo” in merito al procedimento e, al riguardo, non avessero inequivocabilmente rinunziato a comparire – o un’occasione per essere rimesso in termini o un nuovo giudizio … Lo Stato … deve quindi garantire, per mezzo di misure appropriate, procedure idonee ad assicurare una realizzazione effettiva di quanto supra contemplato”.

In tempi non consueti (cfr. d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito, con modificazioni, in l. 22 aprile 2005, n. 60) il legislatore manda ad effetto gli insegnamenti/moniti di cui alle pronunzie da ultimo significate, benché in esclusiva a livello di “soglia”. Parturient montes, nascetur ridiculus mus, per citare Orazio: un “evento” ben lungi inferiore alle attese, contrassegnato da deficit (uno per tutti: il difetto di coordinamento fra gli artt. 175, comma 2, e 603, comma 4, c.p.p., votato, quest’ultimo, alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado di appello ove si persiste ad insistere sul ricorrente, contumace in primo grado, quale soggetto che deve provare di non essere potuto comparire – l’incongruenza è stata rimediata nel 2014 ma, per ciò, v. infra) e da lacune foriere di ulteriore “nebulosità”. Qui si annida, difatti, una significativa “turbolenza” – l’ennesima – che riconduce all’ipercredito riconosciuto al ruolo defensionale, unico ufficio su cui canalizzare le avvertite esigenze di effettiva conoscenza dell’atto di procedura.

Da un lato, nevvero, si prescrive di indirizzare le notificazioni, successive alla prima, a destinatario l’imputato libero pede mediante consegna al difensore di fiducia nominato ai sensi dell’art. 96 c.p.p. (cfr. art. 157, comma 8-bis, codice di rito penale); dall’altro, e più significativamente, giunti a detto punto della trattazione, ci si interroga se l’atto di impugnazione proposto da uno qualsiasi dei soggetti legittimati (nella fattispecie il difensore) “consumi” il corrispondente diritto astrattamente riconosciuto ad altri (nella fattispecie il condannato in absentia) con l’effetto di precluderne, nei fatti, l’esercizio. Stante la molteplicità degli scenari ipotizzabili (a consumazione vs non consumazione del diritto del secondo legittimato va nondimeno aggiunta l’eventuale trattazione simultanea delle due impugnazioni – a patto, beninteso, che non sia già intervenuta una decisione sulla prima) il casus belli viene rimesso alla “lungimiranza” delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (n. 6026/2008) le quali, pronunziandosi per la prima evenienza, hanno statuito che il principio di unicità del diritto di impugnazione rappresenta un momento cardine del sistema processuale vigente tanto più riflettendo che un’eventuale duplicità delle impugnazioni confliggerebbe con l’obiettivo della ragionevolezza temporale dei processi, ormai costituzionalizzato ex art. 111, comma 2, secondo periodo, Cost.

A nulla, quindi, rileverebbe il fatto che, nell’art. 175 c.p.p., non sia stato ribadito, come nella versione antevigente di quel disposto, che l’impugnazione del difensore impedisce la proposizione dell’istanza per essere rimesso in termini in quanto, a detto silenzio, ben può annettersi il significato della ritenuta superfluità di una regola già insita nelle disposizioni generali in tema di impugnazioni [sia detto incidenter tantum: l’orientamento “a ranghi compatti” è stato clamorosamente disatteso, in prima battuta, dal giudice di legittimità delle leggi (Corte Cost. n. 317/2009) che ha dichiarato la non conformità al dettato fondamentale dell’art. 175, comma 2, c.p.p. “nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato” e, a seguire, dalla Corte EDU giusta un ricorso azionato dalla “vittima” del decisum di cui alla Corte di cassazione (Corte EDU, Huzeneanu c. Italia, 10 settembre 2016). Anzi: il giudice dei diritti umani “bolla”, con “lettere di fuoco”, l’atteggiamento manifestato dall’organo di nomofilachia. “È vero che un imputato può rinunciare ai diritti della difesa. Tuttavia, quest’ultimo non ne perde il beneficio soltanto in quanto assente al dibattimento. In effetti, è di fondamentale importanza per l’equità del sistema penale che l’imputato sia difeso in maniera adeguata sia in primo grado che in appello. Nel caso di specie, il ricorrente ha presentato un ricorso dinanzi alla Corte di cassazione dopo aver ottenuto, in applicazione della legislazione pertinente, la restituzione nel termine. Con la sentenza del 7 febbraio 2008, la Corte di cassazione ha ritenuto che il ricorrente non potesse beneficiare della riapertura del processo e prendervi parte per presentare la sua difesa, in quanto l’avvocato nominato d’ufficio aveva già esaurito le vie di ricorso disponibili. Una siffatta interpretazione della legge ha messo il ricorrente nella impossibilità di contestare la sua condanna e di essere presente al processo che lo riguardava. Di conseguenza, la questione che si pone nella fattispecie è stabilire se la difesa da parte di un avvocato d’ufficio abbia costituito una garanzia sufficiente contro il rischio del processo iniquo. A questo proposito, la Corte osserva che la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione e ha concluso che un sistema che permette di privare un imputato della possibilità di interporre appello avverso la propria condanna solo perché l’avvocato nominato d’ufficio aveva esperito i ricorsi disponibili – all’insaputa dello stesso imputato – sollevava dei problemi. Essa ha ritenuto in particolare che fosse incompatibile con la Costituzione italiana privilegiare principi come quello della non duplicazione del processo a scapito delle garanzie dell’imputato. La Corte ritiene che i diritti della difesa di un imputato – che non si è sottratto alla giustizia e non ha rinunciato inequivocabilmente alle sue garanzie procedurali – non possono essere ridotti al punto da renderli inoperanti con il pretesto di garantire altri diritti fondamentali del processo, come il diritto al «termine ragionevole» o quello del «ne bis in idem» o, a fortiori, per preoccupazioni legate al carico di lavoro dei tribunali. In effetti, la comparizione di un imputato è di fondamentale importanza sia a causa del diritto di quest’ultimo di essere sentito che della necessità di controllare l’esattezza delle sue affermazioni e di confrontarle con la versione della vittima, di cui si devono proteggere gli interessi, nonché dei testimoni. Nel caso di specie, il ricorrente non ha avuto la possibilità di ottenere una nuova decisione sulla fondatezza dell’accusa sia in fatto che in diritto, sebbene la sua assenza al processo non gli fosse imputabile”].

Ma il punto è un altro: è il medesimo estensore della pronunzia n. 6026/2008 a mostrarsi spazientito giusta il quadro normativo di riferimento al punto da orientare il futuro legislatore addirittura ad andare oltre escludendo “la stessa ammissibilità del giudizio in contumacia” e dunque prevedendo “ante portas un meccanismo di sospensione del procedimento, salva – eventualmente – la rinuncia dell’imputato a comparire”. E ciò alla luce della constatazione di una deprecabile incompatibilità fra giudizio contumaciale ed art. 111 Cost. come rinnovato con l. cost. 23 novembre 1999, n. 2: è palese, difatti, come il giudizio contumaciale astragga dal momento euristico del contraddittorio; né si può fondatamente supporre che esso tipicizzi una delle eccezioni, di cui al comma 5, all’operatività di quella regola – si va in sofferenza proprio perché non è dato accertare la volontà dell’imputato ad essere giudicato in absentia ovvero a prestare consenso ad un esito processuale ottenuto al di fuori della dialettica fra tesi di accusa e tesi di difesa.

Bréf: non è dato sapere se per fornire seguito ai desiderata de quibus o per prevenire eventuali, ulteriori, strali ad origine dall’Europa ma, nondimeno, il legislatore si è disposto ad agire con l. 28 aprile 2014, n. 67 – l’ultimo intervento, allo stato registrabile, de jure condito, nella materia che ci occupa, con cui, con decisione “gordiana”, si è provveduto a non lasciare traccia alcuna del vocabolo ‘contumacia’, e derivati, nell’articolato codicistico del 1988 (il che giustifica, al postutto, l’intervenuta espunzione dell’art. 603, comma 4, c.p.p., di cui sopra – non quindi per la lampante antinomia con l’art. 175, comma 2, medesimo codice di rito, bensì per il superamento di quel modulo processuale). Le interpolazioni rese trovano luogo nell’incessante “fioritura” di avverbi numerali a margine dell’art. 420 c.p.p. (da 420-bis a 420-quinquies, nel dettaglio) che, quindi, sono stati fatti oggetto di un “vigoroso” restylingPer sommi capi:

1) l’art. 420-bis c.p.p. – ‘Assenza dell’imputato’ – stipula, al primo comma, che si proceda in assenza dell’imputato laddove questi abbia espressamente rinunciato a partecipare alle udienze mentre il secondo comma evidenzia taluni indici stante i quali si procede ugualmente in absentia pur anche non vi sia stata alcuna manifestazione espressa, in capo all’imputato, di così motivarsi;

2) l’art. 420-ter c.p.p. – ‘Impedimento a comparire dell’imputato o del difensore’ – enumera le ipotesi in cui i soggetti de quibus non presenzino alle udienze per caso fortuito, per forza maggiore o per altro legittimo impedimento disponendo, ad effetto, il rinvio a nuova udienza oltre che la rinnovazione dell’avviso di cui all’art. 419, comma 1, c.p.p. (fissazione dell’udienza preliminare);

3) l’art. 420-quater c.p.p. – ‘Sospensione del processo per assenza dell’imputato’ – assicura che, in difetto delle condizioni di cui agli articoli che immediatamente precedono, “il giudice rinvi[i] l’udienza e dispong[a] che l’avviso sia notificato all’imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria” venendone che tutte le pre-condizioni regolate ex art. 420-bis c.p.p. onde procedere in assenza riconducono ad una piena conoscenza personale (o ad un “documentato” rifiuto) della chiamata in giudizio. Laddove ciò fosse inesigibile “il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente”;

4) a norma di chiusura l’art. 420-quinquies c.p.p. – ‘Nuove ricerche dell’imputato e revoca della sospensione del processo’ – ove si detta che, alla scadenza di un anno dalla pronuncia dell’ordinanza sospensiva, “o anche prima quando se ne ravvisi l’esigenza, il giudice dispone nuove ricerche dell’imputato per la notifica dell’avviso”. E così via seguitando fintanto che il procedimento non abbia ripreso il suo corso “regolare” – quanto precede rileva anche in fase di giudizio ordinario di primo grado (cfr. il conservato rinvio alla disciplina de qua ex art. 484-bis, comma 2, c.p.p). A livello ripristinatorio/riparatorio, infine, viene in gioco l’art. 629-bis c.p.p., come introdotto dalla l. 23 giugno 2017, n. 103, a Rubrica ‘Rescissione del giudicato’ (l’istituto di specie era comunque già “governato” a muovere dal 2014 pur se giusta una diversa collocazione sistematica – v. art. 625-ter c.p.p. poi, ovviamente, abrogato dalla novella del 2017) stante cui il condannato in assenza può ottenere, giustappunto, la rescissione del giudicato, con consequenziale trasmissione degli atti al giudice di primo grado, “qualora provi che l’assenza è stata dovuta ad un’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo”. Di necessità è cancellato in parte qua il disposto di cui all’art. 175, comma 2, c.p.p. ove si garantiva un diritto incondizionato all’impugnazione avverso la sentenza contumaciale.

Già all’evidenza risalta il vero punctum dolens di quel novum disciplinare ovvero la qualifica da assegnare a quegli “indici di conoscenza” ex art. 420-bis, comma 2, c.p.p. (nello specifico, la dichiarazione od elezione di domicilio; l’applicazione di misure precautelari che abbiano “sfociato” nell’udienza di convalida o la sottoposizione a misura cautelare; la nomina di un difensore di fiducia) che, nei fatti, parificano quei momenti alla rinuncia espressa a presenziare alle udienze. Invero quelle disposizioni sono suscettibili di letture antitetiche: “se si parte dal presupposto della discontinuità nel nuovo sistema di processo in absentia rispetto all’ordinamento che valorizzava principalmente la regolarità formale delle notifiche, e quindi che si debba procedere soltanto nel caso di prova della piena consapevolezza dell’imputato, … gli “indici di conoscenza” (nomina difensore di fiducia, elezione di domicilio, applicazione di misura cautelare) di cui … hanno una data interpretazione. Se, invece, si parte dal ricercare una continuità rispetto alla tradizione del sistema legale delle notifiche … ed al sistema della contumacia e della restituzione nel termine pre 2005 le stesse disposizioni che vorrebbero semplificare la individuazione di casi che offrono la prova indiretta della conoscenza effettiva diventano invece (o tornano ad essere) delle insuperabili presunzioni” (così le Sezioni Unite n. 23948/2020).

Investite difatti di un ricorso ad oggetto una questione più circoscritta, ovvero se “ai fini della pronuncia della dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen., integri di per sé presupposto idoneo l’intervenuta elezione da parte dell’indagato di domicilio presso il difensore nominatogli o, laddove non lo sia, possa comunque diventarlo nel concorso di altri elementi indicativi con certezza della conoscenza del procedimento o della volontaria sottrazione alla predetta conoscenza del procedimento o di suoi atti”, esse, dopo avere ripercorso, con ammirevole dedizione, la microstoria dei vari steps, normativi e para-normativi, che si è avuto cura di compendiare, allargano il tiro sancendo sì, a risposta del quesito proposto, che “La sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, da parte dell’indagato, non è di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza di cui all’articolo 420-bis cod. proc. pen., dovendo il giudice in ogni caso verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso” ma, a chiosa, aggiungendo che “l’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., nell’ottica di una comprensibile “facilitazione” del compito del giudice, ha tipizzato dei casi in cui, a fini della certezza della conoscenza della vocatio in ius, può essere valorizzata una notifica che non sia stata effettuata a mani proprie dell’imputato. Letto nel contesto della disposizione, quindi, l’aver eletto domicilio, l’essere stato sottoposto a misura cautelare, aver nominato il difensore di fiducia, sono situazioni che consentono di equiparare la notifica regolare non a mani proprie alla effettiva conoscenza del processo. Non si tratta, quindi, di una presunzione che consenta di ritenere conosciuto il processo e non più necessaria la prova della notifica, ma di casi in cui, nelle date condizioni, è ragionevole ritenere che l’imputato abbia effettivamente conosciuto l’atto regolarmente notificato secondo le date modalità”. E ciò tanto più considerando che l’art. 420-quater c.p.p. “prevede che, quando il giudice non abbia raggiunto la certezza della conoscenza della chiamata in giudizio da parte dell’imputato, deve disporre la notifica «personalmente ad opera della polizia giudiziaria». La disposizione, quindi, dimostra come il sistema sia incentrato esclusivamente sulla effettività” (il corsivo è nostro) “di tale conoscenza, senza alcuna presunzione”.

Un fermo, e fiero, ripudio di ogni logica presuntiva, allora; un vero e proprio tsunami interpretativo, a detta di avvertita dottrina. Di tal che, quantunque to cut a long story short dovrebbe rappresentare il proposito che anima l’interprete, questa è una neverending story finanche la riforma Cartabia, di imminente, programmata, entrata in vigore, operando in materia. Il d.lgs. 150/2022, agendo sul “convitato di pietra” dei disegni riformistici finora succedutisi, ovvero la disciplina delle notificazioni, eleva il domicilio, dichiarato od eletto che sia, a luogo privilegiato per gli atti introduttivi del giudizio a destinatario l’imputato (cfr. art. 157-ter, comma 1, c.p.p.) – e ciò altresì nella sua “dimensione” telematica potendosi al riguardo valorizzare un indirizzo di posta elettronica certificata od altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato (v. art. 161, comma 1, c.p.p.). Siffatto novum di sistema, che si estende in ogni stato e grado del procedimento onde mandare ad effetto la notifica possibile/effettiva di cui al decisum a Sezioni Unite del 2020, “precipita” sul momento disciplinare ad oggetto il giudizio in absentia ex artt. 420-bis – 420-sexies (l’ultimo di nuovo conio) codice di rito penale. In estrema sintesi:

a) l’art. 420-bis c.p.p., al primo comma, illustra contesti in cui l’effettività della notifica appare indiscutibile (citazione a comparire a mezzo di notifica a mani proprie oppure di persona espressamente delegata al ritiro dell’atto; esplicita rinuncia a comparire o a fare valere un legittimo impedimento); superate le “presunzioni” (rectius, gli “indicatori sintomatici di conoscenza”) elencate al secondo comma del testo vigente dell’art. 420-bis c.p.p. la riforma assume che il giudice può ritenere altrimenti provata “l’effettiva conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza all’udienza è dovuta ad una scelta volontaria e consapevole” – a tale riguardo l’organo di jus dicere tiene conto, giusta una clausola aperta (“ogni altra circostanza rilevante”), di una serie di fattori colà esemplificati. Rebus sic stantibus, oltre a quelle evenienze in cui “l’imputato è stato dichiarato latitante o si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo” (art. 420-ter, comma 3, c.p.p.), è dato procedere in absentia – al di fuori di questa casistica “il giudice rinvia l’udienza e dispone che l’avviso di cui all’articolo 419” (fissazione dell’udienza preliminare: n.d.a.), “la richiesta di rinvio a giudizio e il verbale d’udienza siano notificati all’imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria”. All’obiettivo di una piena esplicazione dei diritti partecipativi, da ultimo, l’imputato è restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto laddove fornisca la prova che, per caso fortuito, per forza maggiore o per altro legittimo impedimento, si è trovato nell’impossibilità assoluta di comparire senza avere potuto trasmettere illico et immediate, senza sua colpa, dimostrazione al riguardo o, ancora, giusta le evenienze di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 420-bis c.p.p. fornisca la prova di non avere avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo oltre che di non poter essere intervenuto, senza sua colpa, onde esercitare le facoltà de quibus [v. il combinato disposto degli artt. 420, comma 6, lett. a) e b) e 489, comma 2-bis, lett. a) e b) c.p.p.]; se invece, a contraltare, “risulta che le condizioni per procedere in … assenza non erano soddisfatte” [art. 420, lett. c), c.p.p.] in udienza preliminare ci si limiterà a revocare l’ordinanza dichiarativa dell’assenza con consequenziale ripristino ad integrum per l’esercizio dei diritti “quesiti”, in dibattimento ci si volgerà a dichiarare la nullità del decreto di rinvio a giudizio e la restituzione degli atti al giudice dell’udienza preliminare benché, giusta una deriva di esasperato efficientismo, ed assai discutibilmente, pertanto, si chiosi che l’invalidità di specie può essere sanata se l’imputato è comparso o ha rinunciato a comparire – inoltre, con formula vacua, si regola la perdita del diritto ad eccepire la nullità se “risulta” (in dubio, parrebbe, regressione alla fase preliminare) che l’imputato era “nelle condizioni di comparire all’udienza preliminare” (cfr. art. 489, comma 2, c.p.p.);

b) mentre gli artt. 420-ter e 420-quinquies c.p.p. punto rilevano ai nostri fini, o perché “riproduttivi” del pregresso o ad essi eccentrici, un tratto distintivo della riforma emerge dalla lettura dell’art. 420-quater identico codice. Novum assoluto: se, allo stato, ci si orienta per la sospensione del processo per assenza dell’imputato (rectius, se l’imputato non è presente) a brevissimo ci si disporrà per l’emanazione di una sentenza, inappellabile, di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo ad opera dell’imputato (qui eleggendosi a tertium comparationis la sentenza, di non luogo o di non doversi procedere a seconda della fase processuale in cui quel vizio si annida, ricognitiva dell’irreversibilità dello stato mentale dell’imputato, in quanto tale ostativa, della cosciente partecipazione al procedimento ex art. 72-bis c.p.p. come interpolato dalla l. 103/2017). Provvedimento “curioso” dall’irrevocabilità condizionata al maturare del termine di prescrizione del reato (quanto segue, ovviamente, non vale per i reati cosiddetti imprescrittibili) entro il limite del doppio dei termini di cui all’art. 157 c.p. (cfr. art. 159, ultimo comma, c.p.), termine entro il quale, fra l’altro, è possibile vocare in jus il, fino ad allora, irrintracciabile: da un lato, difatti, “temerario” potere rivendicare le ipotesi di immediata declaratoria delle cause di non punibilità ex art. 129, comma 2, c.p.p.; dall’altro, ed invece, in malam partem, durante il corso del termine summenzionato, non perdono efficacia, laddove disposti, né gli arresti domiciliari né la custodia cautelare intra moenia né le varie forme di manifestazione del sequestro (probatorio; preventivo; conservativo). E tutto ciò al netto dell’anomalia del ricorso ad una sentenza di non doversi procedere in un contesto (preliminare) in cui, più linearmente, sarebbe più immediato valorizzare una pronunzia di non luogo;

c) last but not least, a compendio finale, l’art. 420-sexies c.p.p. ove ci si esprime sulla revoca dell’indicata sentenza di non doversi procedere dettando, al proposito, le coordinate entro cui l’interprete sarà chiamato ad orientarsi;

d) a margine, infine, giusta l’ulteriore implementazione della effettività delle notifiche, si provvedere ad eliminare, dal testo dell’art. 157 c.p.p., il comma 8-bis che tante incertezze aveva sollevato (v., nondimeno, il comma 8-ter stante il quale, “[c]on la notifica del primo atto … l’autorità giudiziaria avverte l’imputato … che le successive notificazioni, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio”).

Trattasi di riforma difficile da “digerire” … e non unicamente per i palesi infortuni lessico-sintattici, a tratti finanche autofagica: venendone che sarà solo l’esperienza delle aule di giustizia a dirci se il costante tug of war fra garanzia ed efficienza si sia, al postutto, tradotto in un bilanciamento che corrisponda al ricercato equilibrio processuale.