È ben nota la storia recente di ciò che, con locuzione incongrua, viene ad appellarsi come ‘ergastolo ostativo’. Con ordinanza 15 aprile – 11 maggio 2021, n. 97, difatti, la Corte costituzionale, avvalendosi di uno strumento decisorio da essa medesima “ingegnato” al riguardo ovverossia la pronunzia di incostituzionalità differita o sentenza di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, che dir si voglia, giusta una quaestio de legitimitate ad oggetto gli “artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia”, sottoscriveva l’esito interlocutorio su adombrato. Premesso che il “catalogo” della prima fascia di reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. comprend
Al di là di questo resoconto non molto edificante sopravanza l’onere di elencare, benché solo per capita, i tratti salienti onde poi rapportarli con gli insegnamenti di cui alle ordinanze dei giudici costituzionali. A) Dal testo del primo comma dell’art. 4-bis l. ord. penit. viene espunto ogni riferimento a quell’insieme di reati, commessi da pubblici ufficiali od equiparati, contro la pubblica amministrazione la condanna per i quali, laddove non “affiancata” da contegno collaborativo, interdiceva l’accesso alle misure di favor ivi contemplate. Decliniamole una volta per tutte: l’assegnazione del lavoro all’esterno; i permessi premio; l’affidamento in prova al servizio sociale; la detenzione domiciliare; le misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria; la detenzione domiciliare speciale; la semilibertà; le licenze; B) nondimeno, giacché ciò che viene tolto con una mano viene “ripristinato” con l’altra, i benefìci de quibus sono preclusi “in caso di esecuzione di pene inflitte anche per delitti diversi da quelli ivi indicati, in relazione ai quali il giudice della cognizione o dell’esecuzione ha accertato che sono stati commessi per eseguire od occultare uno dei reati di cui al medesimo primo periodo ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati”, ergo, altrimenti detto, a fronte della commissione di un reato qualificato da nesso teleologico con il reato ostativo (sembrerebbe, compulsando la littera legis, non valere l’opposto). Qui l’incoerente legislatore sembra non avere bene a mente la ratio originaria della disposizione di cui all’art. 4-bis l. ord. penit. volta a porre un freno al crimine organizzato (reati necessariamente associativi) e non finanche a circoscrivere l’accesso ai benefits di specie una volta commessi reati “eterogenei” rispetto al fine dichiarato (reati eventualmente associativi) ai primi accomunati giusta le suggestioni del momento; C) il trattamento dei condannati, o degli internati, non collaboranti è regolato dal successivo comma 1-bis e dalle corrispondenti sue ulteriori articolazioni. Su tutto, per i reati propriamente associativi – la segnalata interdictio vale altresì per il reato ex art. 416 c.p. qualora finalizzato alla commissione di uno dei delitti ostativi, per così dire, di “prima fascia” (v. il comma 1-bis.2 dell’art. 4-bis cit.) -, mentre prima della riforma vigeva una presunzione assoluta di inaccessibilità ai benefìci più volte enunziati (a meno che l’instante versasse in evenienze di collaborazione «impossibile», quando i fatti o le responsabilità di cui il condannato potrebbe avere contezza sono già state rivelate e specificate, di collaborazione «inesigibile», allorché il condannato, a fronte del suo ruolo marginale in seno all’organizzazione criminosa, non si mostrava in grado di avere conoscenza dei fatti e delle responsabilità ascrivibili alle posizioni apicali del sodalizio de quo, di collaborazione «irrilevante», giacché il contributo offerto risulterebbe di nessun utile per l’accertamento dei fatti e per l’assicurazione alla giustizia dei responsabili – così il testo pre-legge n. 199 del 2022), ora è possibile fruirne purché si dimostri “l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento” e si alleghino “elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Al fine della concessione dei benefici, il giudice accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa” così mutando la presunzione da assoluta a relativa (cfr. l’attuale testo dell’art. 4-bis, comma 1-bis, l. ord. penit.); idem dicasi, in buona sostanza, per i reati di non stretta osservanza associativa per i quali, prescindendo, ça va sans dire, dalla estraneità degli elementi addotti a supporto dell’istanza dal mostrarsi ulteriori rispetto “alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza” da cui consentire “di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, si ripetono le pre-condizioni di cui supra (v. il “novello” comma 1-bis.1) – ante-riforma, per le vicende da ultimo indicate, si subordinava l’“usufrutto” delle misure de quibus all’insussistenza di “elementi tali da far ritenere … collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica od eversiva”. Qui, se da un canto va salutato con favore l’abbandono, per i reati ostativi, per così dire, di “seconda fascia”, della necessità di dimostrare l’insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, va, del pari, biasimato il mancato riconoscimento di “corsie preferenziali” a fronte di collaborazioni qualificabili o come impossibili o come inesigibili o come irrilevanti. Tertium non datur: o si collabora o non si collabora … ma non vi è chi non veda come ben altro sia non volere collaborare dal volere a contrario così disporsi ma, stante le risultanze di fatto, non poterlo fare – di tale “impedienza” si potrà eventualmente fare cenno nell’addurre “ragioni … a sostegno della mancata collaborazione” (per una disposizione transitoria che nondimeno fa salve quelle pre-condizioni ulteriormente “agevolanti” cfr. art. 3 l. 199/2022 cit.); D) infine viene, e non di poco, accresciuta la “provvista” di informazioni, ed introdotto ex novo un sovrannumero di pareri, per la concessione dei benefìci richiesti: difatti “il giudice acquisisce, anche al fine di verificare la fondatezza degli elementi offerti dall’istante, dettagliate informazioni in merito al perdurare dell’operatività del sodalizio criminale di appartenenza o del contesto criminale nel quale il reato è stato consumato, al profilo criminale del detenuto o dell’internato e alla sua posizione all’interno dell’associazione, alle eventuali nuove imputazioni o misure cautelari o di prevenzione sopravvenute a suo carico e, ove significative, alle infrazioni disciplinari commesse durante la detenzione. Il giudice chiede altresì il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado o, se si tratta di condanne per i delitti indicati all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, acquisisce informazioni dalla direzione dell’istituto ove l’istante è detenuto o internato e dispone, nei confronti del medesimo, degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate, accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali. I pareri, le informazioni e gli esiti degli accertamenti di cui al quinto periodo sono trasmessi entro sessanta giorni dalla richiesta. Il termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni in ragione della complessità degli accertamenti. Decorso il termine, il giudice decide anche in assenza dei pareri, delle informazioni e degli esiti degli accertamenti richiesti. Quando dall’istruttoria svolta emergono indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di ripristino di tali collegamenti, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria. In ogni caso, nel provvedimento con cui decide sull’istanza di concessione dei benefici il giudice indica specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza medesima, tenuto conto dei pareri acquisiti ai sensi del quinto periodo. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi al detenuto o internato sottoposto a regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41-bis solamente dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato” (così i nuovi periodi, dal quarto all’undicesimo, del comma 2 art. 4-bis l. ord. penit.). Una pletora di viluppi che, al di là di inesattezze (il rinvio all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. è del tutto un “fuor d’opera”, tanto per esemplificare) e di ridondanze (è un’ovvietà sottolineare la lontananza fra beneficio penitenziario e “carcere duro” ex art. 41-bis l. ord. penit.), rende alquanto difficoltoso provare la meritevolezza delle misure di favor a più riprese evocate.
L’art. 2, a sua volta, incide, fra l’altro, sul comma 2 dell’art. 2 d.l. 152/91 cit. stipulando che “Fermi restando gli ulteriori requisiti e gli altri limiti di pena previsti dall’articolo 176 del codice penale e fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 8 della legge 29 maggio 1982, n. 304, i soggetti di cui al comma 1 non possono comunque essere ammessi alla liberazione condizionale se non hanno scontato almeno due terzi della pena temporanea o almeno trenta anni di pena, quando vi è stata condanna all’ergastolo per taluno dei delitti indicati nel comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso, la pena dell’ergastolo rimane estinta e le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo sono revocate, ai sensi dell’articolo 177, secondo comma, del codice penale, decorsi dieci anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale e la libertà vigilata, disposta ai sensi dell’articolo 230, primo comma, numero 2, del codice penale, comporta sempre per il condannato il divieto di incontrare o mantenere comunque contatti con soggetti condannati per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale o sottoposti a misura di prevenzione ai sensi delle lettere a), b), d), e), f) e g) del comma 1 dell’articolo 4 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, o condannati per alcuno dei reati indicati nelle citate lettere”. Altrimenti detto, i condannati non collaboranti per reati ostativi, sia di “prima fascia” che di “seconda fascia”, possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo una volta decorsi almeno i 2/3 in executivis, se attinti da pena detentiva temporanea, oppure trenta anni, se attinti dalla pena dell’ergastolo. Di tal che, a proposito di questa ultima “singolare” macro-classe in reclusi, il termine di accesso al beneficio de quo viene elevato dagli ordinari ventisei anni di cui all’art. 176, comma 3, c.p. agli indicati trenta anni (sia detto per inciso: trattasi di un’aspettativa di liberazione finanche maggiore di quanto contemplato ab origine dal legislatore del 1930 – prima del novum addotto con l. 25 novembre 1962, n. 1634, recante “Modifiche alle norme del Codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale” nel verso poc’anzi evidenziato – termine che, in temporibus, si fissava a ventotto anni (nondimeno va soggiunto, en passant, che l’ergastolano “collaborante” inserito nel programma di protezione – il che usualmente accade – può beneficiare della liberazione condizionale della pena decorsi almeno dieci anni in espiazione di pena: cfr. art. 16-nonies, comma 4, d.l. 1991, n. 8, recante “Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”, convertito, con modificazioni, in l. 15 marzo 1991, n. 82. Ben tre volte in meno di quanto immaginato per l’ergastolano “non collaborante” onde fruire della riscontrata misura di favor, laonde per cui). A corollario di ciò, nondimeno, l’ergastolano “non collaborante”, sempre ammesso alla libertà vigilata se condizionalmente libero, è sottoposto a quella misura di sicurezza non detentiva per un periodo di dieci anni [il doppio di ciò che viene “fisiologico” ritenuto congruo stante la lettura degli artt. 177, comma 2, e 230, comma 1, n. 2) c.p.]. Sul punto il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato una quaestio de legitimitate ad oggetto gli articoli testé richiamati “nella parte in cui: 1) stabiliscono l’obbligatoria applicazione della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale; 2) stabiliscono la durata della libertà vigilata in misura fissa e predeterminata; 3) non prevedono la possibilità per il Magistrato di sorveglianza di verificare in concreto durante l’esecuzione della libertà vigilata l’adeguatezza della sua permanente esecuzione alle esigenze di reinserimento sociale del liberato condizionalmente e non ne consentono, per l’effetto, la revoca anticipata”. Pur tuttavia, anticipato che la recente novella non ha applicazione nella vicenda de qua trattandosi di reati commessi prima dell’entrata in vigore d.l. 8 giugno 1992, n. 306, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356, la Corte costituzionale (sent. 21 febbraio – 11 aprile 2023, n. 66) ha dichiarato non fondato il suscitato interrogativo. Sul presupposto che “[l]iberazione condizionale e libertà vigilata costituiscono … un tutt’uno e si delineano, unitamente considerate come una misura alternativa alla detenzione”, di guisa che la seconda non si identificherebbe con una misura di sicurezza stricto sensu, il giudice di legittimità delle leggi che “[d]a tutto ciò deriva, in primo luogo, l’erroneità della pretesa di applicare alla libertà vigilata ordinata in conseguenza dell’ammissione alla liberazione condizionale lo statuto proprio delle misure di sicurezza, che comporterebbe l’attribuzione al giudice di una valutazione in concreto della sussistenza, in fase genetica, della pericolosità sociale del soggetto e, in costanza di esecuzione della misura, della permanenza di tale requisito. In secondo luogo, il suo inscindibile legame con la liberazione condizionale e, di riflesso, con la pena principale in sostituzione della quale questa è stata disposta, comporta anche l’erroneità del predicare per questa forma di libertà vigilata il necessario rispetto del principio di mobilità della pena. Che sia indiziata di illegittimità costituzionale ogni sanzione fissa … resta ovviamente confermato: ma il principio è in questo caso erroneamente invocato. Infatti, l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio non è assente, ma è stata già assicurata in tutte le sedi necessarie: in quella di predeterminazione legale, ad opera del legislatore, in sede di condanna, dal giudice, che ha così potuto irrogare una pena di entità proporzionata al fatto da questi commesso. Non è un caso, d’altra parte, che, ai sensi dell’art. 177 cod. pen., la liberazione condizionale dischiuda l’accesso alla definitiva estinzione della pena una volta che sia decorso tutto il suo tempo, mentre per il condannato all’ergastolo si è ovviamente individuato un arco temporale ad hoc, ridotto rispetto all’orizzonte della pena perpetua. Nel disegno legislativo, dunque, la libertà vigilata si protrae per un periodo fisso proprio perché il soggetto ammesso alla liberazione condizionale sta espiando, in forma diversa, la pena originariamente inflittagli, questa sì doverosamente commisurata alle specificità della situazione concreta”. Ciò che rileva, da ultimo, all’obiettivo di assicurare valenza all’art. 27, comma 3, Cost. (principio di “tendenziale” rieducazione della pena), sta nel fatto che la libertà vigilata, pur “ingabbiata” nell’an e nel quantum, non lo è affatto nel quomodo: e ciò basti, per la Corte, per declinarne la compatibilità con la “legge suprema”. Preservata la legalità costituzionale (quantomeno nei sensi di cui in motivazione) del novum di cui al d.l. 162/2022 sopravanzano nondimeno incertezze giusta il profilo della legalità convenzionale stante il monito espresso dalla Corte EDU nel leading case Vinter and others vs. the United Kingdom (Grande Camera, 9 luglio 2013) in cui la Corte alsaziana riconosceva, finanche al condannato all’ergastolo, la “rivedibilità”, de jure e de facto, del “fine pena mai”. Venendone che quell’anelito alla libertà, sempre a detta del giudice dei diritti umani, imponeva la “creazione di un meccanismo ad hoc che garantisca un primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena contraria è stata inflitta”, a contrario assumendosi che, laddove il diritto nazionale non prevedesse una “dinamica” siffatta, l’ergastolo così “impiantato” costituirebbe trattamento inumano e/o degradante ex art. 3 Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali.
Al postutto sembrerebbe che la “dottrina Meloni” in subiecta materia mandi ad effetto i postulati di particolare rigore che la Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 97 del 2021, elegge a conditio sine qua non per l’operato del futuro legislatore (così orientata la Procura Generale della Corte di Cassazione a fronte della restituzione degli atti al giudice di legittimità per jus superveniens di cui all’ordinanza n. 227 del 2022, sempre della Corte costituzionale). La prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, a cui quegli atti erano trasmessi, si è di recente espressa al proposito (Cass. pen., sez. I., 15197/2023). Riconosciuto che il “quadro normativo è significativamente mutato” la “terza istanza” provvede a verificare se “i dubbi di costituzionalità della sostanziale preclusione, per via della mancanza di collaborazione con la giustizia, all’accesso ai benefici e misure alternative, in specie alla liberazione condizionale, che connotava il precedente assetto normativo, abbiano ancora ragione di essere, e quindi se la novella sia servita a ricondurre, dall’angolo visuale del rimettente, la legge ordinaria ad un rapporto di compatibilità con la Costituzione”. “La nuova disciplina ha fatto della mancanza di collaborazione con la giustizia una preclusione soltanto relativa e ha previsto la possibilità di accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione anche per i detenuti non collaboranti, ovviamente condannati per reati ostativi, seppure in presenza di “stringenti e concomitanti condizioni” …”. Ciò premesso la Cassazione reputa che una verifica effettiva sull’eventuale sussistenza, nella vicenda alla Sua attenzione, “di tutte le altre condizioni di ammissibilità può in concreto dirsi soltanto per mezzo dell’esercizio di poteri di merito, di cui il giudice di legittimità non dispone”; “si prospetta allora la necessità della mediazione valutativa del giudice del merito, affinché accerti, alla luce della nuova normativa, l’ammissibilità e fondatezza della pretesa fatta valere dal ricorrente o, di contro, l’assenza di tali qualità della sua domanda in ragione delle disposizioni limitatrici della nuova disciplina che agiscano in concreto con funzione impeditiva, con conseguente, per tale via, persistente rilevanza della questione incentrata sulla contrarietà ai principi di cui agli articoli 3, 27 e 117 Cost.” (la sottolineatura è nostra) “di un complesso di regole che finisce con l’escludere il condannato all’ergastolo cd. ostativo dall’accesso alla liberazione condizionale in violazione del principio di ragionevolezza, del principio della finalità rieducativa e risocializzante della pena e degli obblighi convenzionali assunti dallo Stato quanto al trattamento dei condannati alla cd. pena perpetua” – consequenzialmente la prima Sezione Penale ha annullato l’ordinanza impugnata rinviando, per nuovo giudizio, innanzi al Tribunale di sorveglianza competente (nel dettaglio, quello di L’Aquila). Come si possa, alla luce di ciò, platealmente asserire che la Corte di Cassazione ha “salvato” la riforma, come invece si è disposta a fare Maria Carolina Varchi, capogruppo di Fratelli d’Italia (per acronimo, FdI), presso la Commissione II (Giustizia) della Camera, manet, invero, in alta mente retentum. Sia come sia non è “tutto oro quel che luccica”: si mediti, senza nessuna pretesa di esaustività, sul venir meno di ogni disciplina in tema di collaborazione impossibile od oggettivamente irrilevante; sulla necessità di pareri, oltre che di informazioni, in capo alle singole Procure della Repubblica; sulle soglie temporali di accesso alla liberazione condizionale, estremamente differenziate per ergastolani “collaboranti” e per ergastolani “non collaboranti” (molto lavoro per il giudice abruzzese, a tacer d’altro). A glossa finale una riforma arcigna ed occhiuta che, formalmente, risponde ai desiderata della Corte costituzionale ma che, a bene vedere, trasforma in una steeple-chase, se non addirittura in una probatio diabolica, l’accesso ai benefìci di specie.
“Vaghe stelle dell’Orsa” … e, per ora, la Corte costituzionale sta a guardare.