Mater semper certa … pater unquam: questo celeberrimo brocardo sembrerebbe, inaspettatamente, addirsi alla condizione del padre, ristretto in vinculis, che, in un’ottica del tutto prevedibile, aspiri a vedere eseguita la propria sentenza di condanna in un habitat extramurario, nella specie “nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza” (così gli artt. 47 ter comma 1 e 47 quinquies comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” – d’ora in innanzi, per acronimo, l. ord. penit.), non fosse altro per coltivare, o per ripristinare, un “sano” rapporto di genitorialità con i figli minori. Infatti, per accedere a quella misura alternativa alla detenzione intra moenia, il genitore di sesso femminile deve limitarsi a rappresentare detto status trattandosi di “donna incinta o madre di prole di età inferiore a dieci anni con essa convivente” [cfr. artt. 47 ter comma 1 lett. a) e 47 quinquies comma 1 l. ord. penit. – in quest’ultima evenienza, come osserveremo a breve, richiedendosi un surplus di garanzie -] laddove il genitore di sesso maschile, oltre a dimostrare che la madre è deceduta (ҫa va sans dire non ad esito di un suo atto omicidiario) od assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole [v. artt. 47 ter comma 1 lett. b) e 47 quinquies comma 7 l. ord. penit.], deve inoltre augurarsi, giusta il contesto di cui all’articolo da ultimo evocato, che non vi siano ulteriori persone (anche estranee al nucleo familiare di riferimento) idonee ad accudire l’under age. Ebbene: a distanza temporale ravvicinata – all’incirca un anno e mezzo – la Corte costituzionale, per mezzo di due sentenze riconducibili ad identico giudice relatore – il Professore Francesco Viganò – ha avuto occasione di riflettere sui delicati equilibri sottesi alla normativa de qua agitur: il già evidenziato τέλος (obiettivo) di mutua affezione genitori/figli contrappuntata dalle logiche esigenze di difesa sociale (recte, special-preventive e/retributive) “connesse o alla prevenzione della commissione di gravi reati […] o […] alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato” (v. Corte cost., sent. 8 novembre – 11 dicembre 2023, n. 219). Nella pronunzia testé menzionata la Corte ha dichiarato non fondate “le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3” (principio di uguaglianza: n.d.a.) “e 31, secondo comma, della Costituzione” (protezione della maternità, dell’infanzia, della gioventù: n.d.a.) “, dal Magistrato di sorveglianza di Cosenza”; nelle more di pubblicazione di questo contributo, invece, il giudice di legittimità delle leggi ha, ad epilogo di una articolata motivazione, dichiarato 1)  “l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»; 2) “inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, in riferimento all’art. 2 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia”; 3) “non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, complessivamente, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via principale, e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia” (così Corte cost., sent. 10 marzo – 18 aprile 2025, n. 52). Sempre in quest’ultimo frangente la Corte ha, nondimeno, ritenuto di non estendere, in via consequenziale, a mente dell’art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87, recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, “la dichiarazione di illegittimità costituzionale all’art. 21-bis ordin. penit., che disciplina l’assistenza all’esterno dei figli minori, e che parimenti subordina la concedibilità del beneficio alla condizione che la madre sia detenuta o impossibilitata, e non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre”. In estrema sintesi, ed anticipando successive messe a punto, la Consulta ritiene costituzionalmente conforme l’enunciato, assunto nella sua interezza, “quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole” [art. 47 ter comma 1 lett. b) l. ord. penit.) e, con formula quasi in toto sovrapponibile, “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre” (art. 47 quinquies l. ord. penit.) (quaestio de legitimitate avanzata in via principale) ma, del pari, ravvisandone la difformità “limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»” – ciò con esclusivo riguardo all’art. 47 quinquies l. ord. penit. (quaestio de legitimitate avanzata in via subordinata). Decisioni, in tutta franchezza, deludenti ed impacciate ma sulle quali oltre mostrandosi, allo stato, doveroso evidenziare i tratti identitari delle detenzioni domestiche alle quali, finora, si è in esclusiva fatto velati cenni.
L’art. 47 ter l. ord. penit., a Rubrica normativa “Detenzione domiciliare”, per quanto di Nostro interesse (giacché i beneficiati da quell’affidamento esterno al carcere vanno ben oltre il circoscritto perimetro degli esercenti la responsabilità genitoriale), è stato introdotto, nel quid dell’esecuzione penitenziaria, dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663, recante “Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”: giusta quell’“innesto” potevano in allora usufruire, con formula tralatizia, di detto utile solo le donne incinte, o che allattassero la prole, o, ancora, madri di prole di età inferiore a tre anni con esse conviventi. Del padre, come è agevole osservare, nessuna traccia: sarà la Corte costituzionale (sent. 4 – 13 aprile 1990, n. 215) ad equiparare, lato sensu, le condizioni genitoriali dichiarando l’illegittimità dell’art. 47 ter comma 1 n. 1, come allora formulato, l. ord. penit. “nella parte in cui non prevede che la detenzione domiciliare, concedibile alla madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, possa essere concessa, nelle stesse condizioni” (la sottolineatura è Nostra: n.d.a.) “, anche al padre detenuto, qualora la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole” (l’apposta sottolineatura viene a giustificarsi una volta osservato che, Corte costituzionale non obstante, le condizioni non sono affatto le medesime esse come tali riducendosi all’entità della soglia di pena funzionale all’accesso alla misura – su cui a breve -: il padre deve comprovare il decesso o l’assoluta impossibilità della madre di provvedere al riguardo; quest’ultima non è gravata di onere dimostrativo/allegativo veruno, invece: sufficit lo stato di convivenza, per vero). Stante ulteriori rimaneggiamenti l’età del minore bisognoso di accudienza è stata innalzata (fra l’altro è stata altresì ritenuta la congiuntura del figlio, e minorenne e maggiorenne, affetto da handicap in situazione grave: v. art. 21 ter l. ord. penit. come interpolato dalla l. 21 aprile 2011, n. 62, recante “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”); in primis a cinque anni giusta il d.l. 14 giugno 1993, n. 187, recante “Nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sull’espulsione di cittadini stranieri”, convertito, con modificazioni, in l. 12 agosto 1993, n. 296; deinde a dieci anni a fronte della promulgazione della l. 27 maggio 1998, n. 165, recante “Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni” (si deve a questo provvedimento normativo la equiparazione, tendenziale, beninteso, fra  genitore di sesso femminile e genitore di sesso maschile). Come accennato en passant non ogni inflizione sanzionatoria giustifica il ricorso alla detenzione domiciliare: invero possono essere espiate“nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza” la “pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto” (art. 47 ter comma 1 l. ord. penit.) (vedremo che detto limite avrà, invece, rilievo non secondario nelle eccezioni proposte dall’Avvocatura generale dello Stato a fondamento della conformità costituzionale dell’art. 47 quinquies l. ord. penit.). In sovrappiù “[l]a detenzione domiciliare può essere applicata per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati” – esonerati dal benefit i condannati per i reati ostativi di cui all’art. 4 bis l. ord. penit.
L’art. 47 quinquies l. ord. penit., a sua volta emblema di un atout riservato in esclusiva ai genitori reclusi intra moenia (Detenzione domiciliare speciale), è stato inserito, nel contesto penitenziario, dalla l. 8 marzo (data “simbolica” …) 2001, n. 40, recante “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto fra detenute e figli minori” (qui, al di là del silenzio dell’intitolazione di legge, i padri sono tutelati, sempre sub condicione, nevvero, già a far tempo dalla data di entrata in vigore di quel provvedimento ovvero dal 23 marzo 2001). Nessun limite di pena da “scontare”: lo dice, benchéinexpressis verbis, l’inciso di cui ad esordio dell’art. 47 quinquies comma 1 l. ord. penit. (“Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter” cioè a prescindere dai quattro anni, totale o residuo di importo sanzionatorio maggiore). Dunque le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo”. Inoltre, stante il novum di cui al comma 1 bis (come “interposto, fra il comma 1 ed il comma 2, dalla l. 62/2011 cit.), “[s]alvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis, l’espiazione di almeno un terzo della pena o di almeno quindici anni, prevista dal comma 1 del presente articolo, può avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. In caso di impossibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa può essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite”. Idem dicasi per i “padri ristretti” con l’usuale avvertenza, beninteso, che la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare speciale è condizionata 1) al decesso o, in alternativa, all’impossibilità (qui, curiosamente, non più assoluta), di provvedere ai bisogni dei figli infradecenni; 2) al fatto che non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre (‘vicario’ ed ‘ancillare’ nella mandata ad effetto di quei presìdi di cura e di assistenza che la normativa penitenziaria reputa co-essenziali ad un’effettiva implementazione della genitorialità).
Rebus sic stantibus è ormai giunto il momento di analizzare le coordinate decisorie degli evocati interventi costituzionali muovendo, di necessità, da quello del 2023. Colà il giudice rimettente – il magistrato di sorveglianza di Cosenza – adduceva ad osservatorio delle proprie doglianze il best interest of the child ovvero l’intérêt supérieur du mineur nel verso che “[l]a più severa disciplina prevista per il padre contrasterebbe anzituttocon l’interesse del minore, fondato sull’art. 31, secondo comma, Cost. e «di valenza tale da atteggiarsi alla stregua di valore/guida “preminente” anche in forza di fonti di rango sovranazionale», tra cui in particolare l’art. 9, paragrafo 3, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176”. La Corte costituzionale “avrebbe poi costantemente ribadito, in numerose pronunce, lo speciale rilievo dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, fondato – oltre che sull’art. 31, secondo comma, Cost. – sulle norme della citata Convenzione dei diritti del fanciullo e sull’art. 34, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). Ciò posto, non vi sarebbe dubbio che tale interesse del minore debba essere «declinato in maniera uguale e paritaria avuto riguardo al rapporto del minore con entrambe le figure genitoriali e senza possibilità, pertanto, di diversificare la disciplina posta a tutela di siffatto “preminente” interesse in relazione ai diversi ruoli» spettanti paritariamente a ciascun genitore. In capo ai minori dovrebbe anzi riconoscersi «un diritto inviolabile alla “bigenitorialità”», «da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi i genitori i quali sono tenuti a cooperarenell’assistenza, educazione ed istruzione dei figli minori di età». … Tale diritto sarebbe leso dalla disciplina censurata, che sarebbe orientata nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre, come del resto riconosciuto anche dal giudice di legittimità delle leggi. La disciplina in parola contrasterebbe, inoltre, con il «canone di rango costituzionale della “ragionevolezza”», «sotto il profilo della intrinseca incoerenza, contraddittorietà ed illogicità rispetto al vigente ordinamento il quale riconosce un diritto inviolabile alla “bigenitorialità”», laddove, «in assenza di plausibili e giustificate ragioni, pone nel campo delle misure alternative alla detenzione intramuraria una disciplina normativa che privilegia, in via primaria, la conservazione del rapporto genitoriale materno anche a fronte di condotte illecite che abbiano giustificato la limitazione della libertà personale della madre di prole minore degli anni dieci», così come del resto accade … con riguardo alla detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit.” (a formante costituzionale suppostamente violato il combinato disposo degli artt. 3 e 31 comma 2 della legge sovra-ordinaria). La Consulta, a Nostro modo di vedere, imposta bene ma, poi, si perde in un loop di dimensioni non “governate”. “Il «diritto del minore di mantenere un rapporto con entrambi i genitori […] riconosciuto oggi, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 315-bis, primo e secondo comma, cod. civ., ove si sancisce il diritto del minore a essere “educato, istruito e assistito moralmente” dai genitori, nonché dall’art. 337-ter, primo comma, cod. civ., ove si riconosce il suo diritto di “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori” e “di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” – è affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali e dell’Unione europea, al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato è affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali e dell’Unione europea … Sul piano costituzionale, il diritto in questione costituisce una specifica declinazione del più generale principio dell’interesse “preminente” del minore … espressione con cui la giurisprudenza di questa Corte è solita tradurre il «principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore … È però altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il principio in parola impone sì una considerazione particolarmente attenta degli interessi del minore in ogni decisione – giudiziaria, amministrativa e legislativa – che lo riguarda, ma non ne assicura l’automatica prevalenza su ogni altro interesse, individuale o collettivo. In particolare, a proposito della relazione tra genitori condannati a pena detentiva e figli minori si è costantemente ribadito che «l’interesse del minore “non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena””. Nondimeno “la speciale importanza, dal punto di vista costituzionale, degli interessi del minore esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori … la scelta di fondo del legislatore che emerge dal quadro così tracciato – non solo nell’ordinamento penitenziario, ma anche nel codice di procedura penale (e in particolare dagli artt. 275 e 285-bis) – è stata quella «di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre»”. Ammesso e non concesso che sia sufficiente promuovere una relazione stabile con uno qualsivoglia dei due genitori, poziore la madre, se così fosse (e “centoni” di giurisprudenza costituzionale, sia intra– che extrapenali, sembrerebbero avvalorare l’opposto) proprio qui sta il busillis: perché ciò? Al di là delle affannosamente ricercate coperture normative – su tutto strumenti internazionali adottati giusta l’egida delle Nazioni Unite – la risposta di cui al giudice di legittimità delle leggi è, con rispetto parlando, imbarazzante. La raison d’être della riscontrata pare, verosimilmente, annidarsi in un inopinato dato statistico. Al 30 novembre 2023, ci dice “Palazzo della Consulta”, erano “ospitati”, presso i vari stabilimenti penitenziari, 60.166 detenuti dei quali 2.549 donne (circa il 4% dell’intera popolazione carceraria); laonde per cui i numeri non sarebbero tali da destare particolari preoccupazioni, avendo riguardo alle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica, le forze dell’ordine potendo, senza soverchie ambasce, controllare il rispetto delle prescrizioni connesse alla detenzione domiciliare in capo alle detenuti madri. A contrario l’enorme platea di detenuti uomini (di cui all’incirca la metà è anche padre) renderebbe ingestibile l’adempimento di quelle istanze securitarie volte a contro-bilanciare la concessione per automatismo del benefit. Venendone, pertanto, che l’estensione delle medesime regole vigenti oggi per le detenute madri anche ai detenuti padri “potrebbe certamente essere valutata dal legislatore, nel quadro di un complessivo bilanciamento tra tutti gli interessi individuali e collettivi coinvolti; ma non può, a giudizio di questa Corte, essere allo stato ritenuta costituzionalmente necessaria dal punto di vista, che in questo giudizio unicamente rileva, della tutela degli interessi del bambino, la quale richiede soltanto che – di regola – sia assicurato al bambino stesso un rapporto continuativo con almeno uno dei due genitori. Ciò che la disciplina censurata indubitabilmente assicura”. Un argomento empirico alquanto misero, a tutto concedere, in ordine al quale, ad ogni buon conto, è la Corte costituzionale medesima a garantire, al giudice riottoso, un commodus discessus nell’evenienza, sembrerebbe leggersi in filigrana, di un diverso approccio ad una quaestio de legitimitate prossima ventura. Il giudice rimettente, id est il magistrato di sorveglianza di Cosenza, difatti, non aveva censurato “la disciplina vigente in relazione alla diversa considerazione dei diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli che fanno capo alla madre; né solleva una questione di discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso a misure alternative alla detenzione. Per affrontare questa tematica, peraltro, sarebbe stato necessario confrontarsi funditus, quanto meno, con il significato e la portata della protezione offerta alla «maternità» dall’art. 31, secondo comma, Cost., nonché con le fonti internazionali in materia, oltre che con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di discriminazioni nel trattamento sanzionatorio e nel trattamento penitenziario di donne e uomini” i limiti del devolutum in allora imponendo di esaminare le questioni esclusivamente dall’angolo visuale dell’interesse del minore a una relazione continuativa con entrambi i genitori. Di questa prospettiva, per così dire, “rovesciata” hanno approfittato i giudici a quibus – il Tribunale di sorveglianza di Bologna ed il Tribunale di sorveglianza di Venezia – nelle vicende che hanno dato occasione alla Corte costituzionale di esprimersi con l’intervento del 2025. Pur riformulando le doglianze addotte eleggendo a focus l’interesse del minore (su ciò, come avremo modo di osservare, la Corte ha gioco semplice nel dichiarare non fondate le censure proposte) giusta l’inedita angolatura testé prefigurata stabilire una cornice normativa evidentemente più favorevole per le detenute di sesso femminile rispetto ai detenuti di sesso maschile, in cui l’elemento discretivo è dato esclusivamente dal genere del genitore, “si tradurrebbe in una discriminazione irragionevole, tenuto conto dello scopo della disposizione censurata, «in cui l’interesse costituzionale prevalente non è tanto quello della tutela della maternità, bensì quello di garantire assistenza al soggetto bisognoso di cura in modo da non pregiudicarne lo sviluppo psico-affettivo» … Peraltro, il legislatore, in un contesto storico in cui ancora «il lavoro di cura era culturalmente prerogativa della madre-donna», avrebbe «scelto di non realizzare una esatta parificazione tra i due sessi, attribuendo al padre un ruolo di mera supplenza rispetto alla madre». Tale scelta normativa risulterebbe oggi inadeguata rispetto alle recenti acquisizioni della letteratura scientifica, che avrebbero «messo in discussione l’assunto per cui le funzioni dei genitori siano biologicamente determinate in ragione del genere del soggetto accudente». Se è pur vero … «che nella maggior parte delle società umane in genere è una donna – ma non sempre la madre biologica – o un gruppo di donne ad occuparsi dei bambini, si sono registrate anche opzioni sociali differenti, in cui il ruolo di cura della prole (parenting) è o affidato direttamente al padre (raramente) o modellato su una cooperazione tra i genitori, fino a forme di intercambiabilità diffusa tra le figure genitoriali». Sebbene «non possa negarsi che la madre può avere, quantomeno in una fase iniziale dello sviluppo del bambino, un ruolo di cura primario, legato prevalentemente all’allattamento al seno, successivamente le differenze nel rapporto di interazione tra le figure genitoriali e la prole» sarebbero «più propriamente condizionate da condizioni ecologiche […] e da costrutti sociali-ambientali, piuttosto che dal sesso del genitore». Gli studi più recenti evidenzierebbero inoltre che «l’ambiente più confacente all’armonico sviluppo della personalità del minore è quello in cui si realizza il cosiddetto coparenting, vale a dire la cooperazione tra i ruoli genitoriali fondata sulla intercambiabilità e condivisione del ruolo di cura, piuttosto che su una rigida separazione di funzioni fondata sul genere»” … Alla luce di tutto ciò, allora, “dovrebbe ritenersi che «la inesatta parificazione del padre e della madre detenuti per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale sia il frutto di una scelta intrinsecamente irragionevole e fondata su una tradizione culturale priva di effettivo portato empirico». In assenza di pericoli per la collettività, «un’esecuzione penale esterna che mediante il ripristino della convivenza con il figlio bisognoso di cura consenta l’esercizio della genitorialità» sarebbe in via generale «da ritenersi costituzionalmente preferibile ad una esecuzione inframuraria che, irragionevolmente, sacrifichi la tutela della prole in età di sviluppo e dei soggetti affetti da handicap». In un siffatto contesto, una «differenziazione uomo-donna» risulterebbe «ingiustificata rispetto all’oggetto di tutela», dal momento che la figura maschile e quella femminile sarebbero entrambe adeguatamente in grado di assolvere al ruolo genitoriale”. Al tirar delle somme “la disposizione censurata sarebbe viziata in effetti da una «impostazione discriminatoria», che assegnerebbe alla madre «l’indefettibile ruolo di genitore deputato alla cura della prole», e al padre «un ruolo meramente vicario e subalterno, addirittura rispetto anche ad altre “terze” persone». Tale discriminazione si tradurrebbe, d’altra parte, anche in un «vulnus alla tutela del minore (non sotto il profilo della bigenitorialità) ma sotto il profilo educativo e assistenziale in sé, posto che egli di fatto potrà fruire dell’unica figura materna – vulnus che si amplifica solo a considerare le ipotesi in cui vi siano più figli minori da accudire”. Venendone, a logico corollario della domanda, l’incostituzionalità dell’art. 47 quinquies l. ord. penit. in parte qua stante i formanti di cui agli artt. 2, 3 comma 1, 27 comma 3, 29, 30, 31 comma 2, 117 comma 1 della legge fondamentale, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (per acronimo CEDU). Giusta il petitum, poi, o si potrebbe omologare la condizione della madre a quella del padre – altrimenti detto finanche per la genitrice opererebbero quei limiti di cui al comma 7 dell’art. 47 quinquies l. ord. penit. (padre deceduto od impossibilitato; nessun modo di affidare la prole ad altri che non sia la madre) – oppure equiparare la posizione del padre a quella del madre – accesso al benefit nella misura in cui il figlio minore (al di là della situazione della “creatura” affetta da handicap grave) sia infradecenne e sia con egli convivente. “La prima opzione comporterebbe una pronuncia additiva in malam partem … in materia penale, ciò che renderebbe manifestamente inammissibili le questioni prospettate. A dire dei giudici a quibus “[s]arebbe invece «preferibile e costituzionalmente vincolata» la seconda opzione, che garantirebbe la massima espansione dell’interesse alla tutela della prole, salvaguardando al tempo stesso la sicurezza della collettività e gli interessi sottesi all’esecuzione della pena”.
La Corte costituzionale risponde un “no tagliente” ad ogni doglianza proposta. Facile “cassare” le quaestiones che ancora fanno perno sul best interest of the child: basta rileggere l’apparato motivazionale di cui alla sentenza 219/2023 e sottoscriverlo una volta di più onde cavarsi di impaccio (del resto il giudice relatore, nei due arrêts, coincide). Colà difatti si asseriva “che «i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena [devono], di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori». E ciò sempre che il genitore condannato che si trovi nelle condizioni previste dalla legge per fruire della misura non sia socialmente pericoloso – ipotesi, quest’ultima, in cui gli interessi del bambino dovranno necessariamente essere assicurati in forma diversa dall’affidamento a uno dei genitori la scelta del legislatore di assicurare in via primaria il rapporto del bambino con la madre, attribuendo al padre il compito di occuparsi del bambino allorché la madre non sia in condizioni di provvedervi è stata giudicata immune da censure sotto lo specifico profilo della sua idoneità ad assicurare, comunque, il rapporto del bambino con uno almeno dei genitori Tali considerazioni devono essere integralmente confermate anche con riferimento alla disciplina in questa sede censurata, strutturalmente analoga a quella risultante dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit. allora esaminata. Dal che la non fondatezza delle questioni, aventi ad oggetto l’intero inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», formulate dagli odierni rimettenti in riferimento agli artt. 30 e 31 Cost.”. È invece opportuno dedicare maggiore spazio alle “giustificazioni” addotte per dichiarare non fondate “le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, complessivamente, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via principale, e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia” laddove incentrate sul profilo della cosiddetta bi-genitorialità. La Corte, qui, valorizza tre argomenti. A) Il primo, di natura storica, è self-annoying. “Giova riflettere sulla circostanza che l’art. 31, secondo comma, Cost. impone alla Repubblica di tutelare «la maternità»: e dunque di introdurre specifiche previsioni che favoriscano l’assunzione e il concreto svolgimento della responsabilità materna nei confronti dei figli. Il che implica necessariamente l’adozione di misure calibrate sulla figura materna e non su quella paterna; misure che – peraltro – non mettono di per sé in discussione il principio della parità morale e giuridica «dei coniugi» stabilito dall’art. 29, secondo comma, Cost., per la semplice ragione che operano su un piano diverso: non quello dei rapporti tra i coniugi, ma quello dei rapporti tra i genitori – non necessariamente uniti in matrimonio – e i figli”. Tutto vero, sine dubio. Ma sarebbe come dire che, in quanto l’art. 29 comma 1 Cost. assume che “[l]a Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” senza specificare che quest’ultimo elegge a nubendi un uomo ed una donna, i “Padri Fondatori” lo abbiano legittimato finanche tra persone dello stesso sesso. In allora neppure ci si poneva l’interrogativo [sempre meglio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, fino al 1978 – v. l’ICD (International Classification of Diseases)-9 – qualificava l’omosessualità come disturbo mentale, nevvero]; le tradizionali ruolizzazioni di quei tempi neppure permettevano di ipotizzare un genitore-uomo accudiente e curante (altrimenti detto, ad istinto materno); B) il secondo, normativistico, è autoconfutante. A tale proposito “merita di essere ricordato l’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, rilevante nell’ordinamento costituzionale nazionale in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. Tale disposizione prevede, testualmente, che «[l]’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio». Di questi dati normativi non può non tenersi conto quali punti di riferimento significativi nella valutazione della legittimità costituzionale di trattamenti stabiliti dalla legge specificamente in favore delle madri: anche con riguardo alla materia penitenziaria, che viene qui in considerazione”. Ma nessuno, qui, vuole suscitare forme di discriminazione nei riguardi della donna-madre; vale la “conversa”, piuttosto, nulla ostando ad un trattamento equi-orientato per l’uomo-padre con ciò impedendosi la cosiddetta reverse discrimination (tutto da dimostrare, poi, che il focus su quest’ultimo implichi, di per sé, una rappresentazione deteriore di quella); C) il terzo, pragmatico-operativo, sottolinea “come il cammino verso un’espansione dei diritti proceda, realisticamente, in modo graduale; ciò che impone di tollerare situazioni di – transitoria – ineguale distribuzione di nuovi benefici, sempre che nessun gruppo sia privato del livello minimo di tutela convenzionalmente garantito. In ogni caso, non si potrebbe rimproverare uno Stato per non avere garantito subito a tutti i consociati i nuovi e più elevati livelli di tutela … Considerazioni analoghe possono formularsi, mutatis mutandis, anche in relazione alle questioni ora all’esame … il livello minimo di tutela costituzionalmente necessario per gli interessi del minore … è quello che assicura al bambino, di regola, la presenza di almeno uno dei genitori. La scelta compiuta dal legislatore di assicurare la presenza anche della madre condannata a una pena detentiva, pur laddove il padre sia in condizione di farsi carico della cura e dell’educazione del minore, è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse all’esecuzione della pena detentiva – e quindi della pretesa punitiva dello Stato – e l’interesse del minore alla relazione genitoriale. È sempre dalla prospettiva della tutela del minore che occorre, dunque, valutare la scelta normativa: il legislatore, che in linea di principio è costituzionalmente obbligato ad assicurare la presenza di almeno uno dei genitori, ha scelto di riconoscere al minore stesso un livello addizionale di tutela, non costituzionalmente obbligato e però certamente attuativo dei principi costituzionali. La scelta ha innegabilmente dei riflessi sull’omogeneità di trattamento dei genitori, ma non al punto da debordare nella discriminazione ingiustificata, non potendosi ritenere irragionevole la scelta di procedere gradualmente nella direzione di una più piena attuazione dei principi costituzionali menzionati, attraverso la selezione di una platea, peraltro numericamente ridotta, di persone condannate oggetto di specifiche direttive di tutela da parte della stessa Costituzione e di varie fonti internazionali di hard e soft law”. Seducente ma, al contempo, grazioso fin de non recevoir: a monte ci si dovrebbe interrogare perché, al di là di tradizioni, di assunti generali o di attitudini sociali prevalenti in un determinato Paese (è la medesima Corte costituzionale così a deporre …), sul ruolo della “madre-chioccia”, il gradualismo debba avere un verso obbligato e non modularsi giusta le necessità del sub-settore disciplinare di interesse (qui l’ordinamento penitenziario). E su tutto ciò non può non aleggiare l’empiria del dato venendo ribadito che, questa volta invocando a time limit il 28 febbraio 2025, alla luce di 62.165 reclusi, la percentuale di donne ristrette si conferma al 4% (numero “grezzo” 2.729) – con tutte le sconsolate considerazioni di cui alle pagine che immediatamente precedono.
In esclusiva il Tribunale di sorveglianza di Bologna proponeva, in via subordinata, l’ablazione dell’inciso “e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre” e di null’altro. Tale previsione frusterebbe irragionevolmente il ruolo del padre, «attribuendogli rilevanza solo quale extrema ratio normativa nell’affidamento dei figli». Essa sarebbe, inoltre, distonica rispetto ad altre disposizioni assunte a tertia comparationis, quali l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che consente la concessione della detenzione domiciliare “ordinaria” al padre laddove la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, e l’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, il quale, in presenza di tale condizione, esclude che possa essere disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti del padre, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Nessuna delle due disposizioni richiede la dimostrazione dell’assenza di terze persone in grado di prendersi cura dei minori. Né si potrebbe sostenere che il più restrittivo requisito previsto dalla disposizione censurata valga a «controbilanciare» l’assenza di limiti di pena per l’accesso alla misura da essa prevista, diversamente da quanto avviene per la misura di cui all’art. 47-ter ordin. penit. (così attestata, invece, l’Avvocatura Generale dello Stato giusta le proprie osservazioni in tema di infondatezza della questione di costituzionalità).  Infatti, «prevedere che, nonostante il padre risulti non pericoloso e possa eseguire all’esterno la propria pena, il suo ruolo di cura venga postergato a quello fornito dai terzi» costituirebbe «scelta illogica che sacrifica sull’altare di esigenze securitarie astratte il rapporto genitoriale contro l’interesse del padre (con lesione degli artt. 3 c. 2 e 30 Cost. rispetto alla madre) e del minore-figlio (con lesione dell’art. 31 c. 2 Cost.)”. Qui il giudice costituzionale non può esimersi dall’aderire alla doglianza proposta: sono proprio i tertia comparationis (nello specifico il primo) di cui sopra a fare volgere nella direzione indicata: esso è certamente omogeneo rispetto alla disciplina ora censurata, come questa Corte ha più volte sottolineato, evidenziando l’identità di ratio della detenzione domiciliare “ordinaria” e speciale, allorché siano disposte in funzione della cura dei figli minori o con disabilità Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, non pare d’altra parte a questa Corte che la sola circostanza che i condannati ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare speciale debbano scontare una pena detentiva (anche residua) più lunga rispetto a quelli ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare “ordinaria” valga a giustificare il sacrificio addizionale imposto a soggetti estranei rispetto al reato (i figli minori del condannato). Per effetto della disposizione censurata, essi si vedono attualmente, senza eccezioni, privati della possibilità di vivere una relazione continuativa con l’unico genitore ancora in vita, o comunque in condizioni di assolvere le proprie responsabilità di cura. Ciò che resta fondamentale è, piuttosto, l’attento accertamento, da parte del giudice della sorveglianza, con il necessario supporto dei servizi sociali, non solo che il padre condannato non manifesti «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (e di fuga, nelle ipotesi del comma 1-bis), ma altresì che il ripristino della convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi, alla cui tutela è finalizzata la misura alternativa in esame; e che tale rispondenza sia poi concretamente verificata durante l’esecuzione della misura, attraverso i controlli stabiliti dall’art. 284, comma 4, cod. proc. pen. nonché dal comma 5 dello stesso art. 47-quinquies ordin. penit. Ciò al fine, in particolare, di evitare ogni impropria strumentalizzazione dei minori al solo scopo di ottenere il beneficio da parte di un padre in realtà non idoneo alla cura degli stessi”. Venendone, inevitabilmente, l’incostituzionalità, in parte qua, dell’art. 47 quinquies comma 7 giacché in contrasto con gli artt. 3, 30 e 31 comma 2 del dettato costituzionale.
L’ultimo legislatore, espressione dell’attuale compagine governativa, sembra invero porsi sulla medesima lunghezza d’onda (quantunque ispirato da rationes ben altre da quelle che hanno motivato il giudice costituzionale …). Stante il d.l. 11 aprile 2025, n. 48, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, in attesa di conversione (che sicuramente interverrà, proprio volendo con qualche aggiustamento, alla luce dei numeri di cui dispone la corrente maggioranza), ma già in vigore attesane la natura ‘necessaria’ ed ‘urgente’ – l’ennesimo pacchetto sicurezza -, si è intervenuti (cfr. art. 15 d.l. cit.), fra l’altro, sul testo degli artt. 146 e 147 del codice penale votati, rispettivamente, al rinvio obbligatorio ed al rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Ebbene: è previsto il rinvio obbligatorio in esclusiva al manifestarsi di malattie particolarmente gravi per effetto delle quali le condizioni di salute del detenuto risultino incompatibili con lo status captivitatis e non quand’anche la pena deve avere luogo nei confronti di donna incinta o di madre di infante di età inferiore agli anni uno – in queste ultime evenienze il differimento “degrada” a facoltativo come del resto accade laddove interessata al quid sia una donna madre di prole di età superiore ad un anno ed inferiore a tre anni (ricordiamo che ciò configura le soglie che il legislatore determinava al momento dell’interpolazione dell’art. 47 ter nella legge di ordinamento penitenziario). Nondimeno l’esecuzione della pena non può essere differita in alcun modo “
se dal rinvio derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. In tale caso, nell’ipotesi di cui al numero 3-bis)” (ovvero nell’evenienza di donna madre di prole di età superiore ad un anno ed inferiore a tre anni) “, l’esecuzione può avere luogo presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze di eccezionale rilevanza lo consentano; nell’ipotesi di cui al numero 3)” (ovvero nell’evenienza di donna incinta o di madre di prole di età inferiore ad un anno) “, l’esecuzione deve comunque avere luogo presso un istituto a  custodia attenuata per detenute madri”. Ed il padre? Manet in alta mente retentum. Certo è lecito ipotizzarne l’equiparazione alla detenuta madre stante le coordinate che, in precedenza, si è arrischiato a tracciare; certo se ne può immaginare la “neutralizzazione” presso uno dei quattro istituti a custodia attenuata (Lauro Avellino – di recente fatto oggetto di improvvida chiusura; Milano San Vittore; Torino Casa Circondariale Lorusso Cutugno; Venezia Giudecca) – per acronimo ICAM – dislocati nel territorio nazionale in cui finanche essi, in astratto, possono essere contenuti; certo si può supporre che un legislatore disattento non abbia tenuto conto delle inconvenienze, per l’ordine e per la sicurezza pubblici, derivanti da un’omessa normazione al riguardo. Comunque sia una Corte costituzionale timorosa, da un lato, ed un “nomoteta” governato da impulsi securitari, dall’altro, affidano all’interprete un quadro micidiale: parallele non euclidee che si intrecciano umiliando il detenuto padre. Esiste una differenza di trattamento tra padre e madri detenuti tali da lasciare evincere una discriminazione, basata sul sesso, per ciò che riguarda assistenza e cura dei figli? Se la linea di displuvio viene a rappresentarsi, come sembrerebbe, giusta l’“ingestibilità” delle cifre a fronte dei padri che potrebbero essere domiciliarmente seclusi, la risposta non può che essere affermativa. Ma,
rebus sic stantibus, allora esprimiamo l’ineffabile che non può più essere zittito: la parola ‘discriminazione’, con tutta la sua forza dialettica, conflagra: e ciò sia quando ad essere oggetto di quel trattamento ingiustificabile, ed ingiustificato, risultino macro-classi nozionali strutturalmente e tradizionalmente deboli (le donne) sia quando ad esserne vittime sono “attori” strutturalmente e tradizionalmente forti (gli uomini). Genitore 1 vs. genitore 2 verrebbe, con amarezza, a chiosarsi: ma non giusta la definizione stipulativa che quelle locuzioni sono venute ad assumere (anti-gender discourse tanto gradito all’attuale esecutivo) bensì stante il significato fatto proprio dalle parole ove ‘2’ è vicario ed ancillare (è secondo) rispetto ad ‘1’ (che è primo). E quel minus habens, piaccia o non piaccia, è il detenuto padre che vede negata la reductio adflictionis che garantirebbe il pieno esplicarsi della genitorialità; e ciò in quanto egli, solo al verificarsi di rigorose condizioni che andrebbero ri-postulate con ben altra “laicità” di approccio, può giovarsi della detenzione extramuraria.