Di siffatte “deviazioni” dal modulo, tendenzialmente accusatorio, di cui al codice del 1988 la riforma effonde: scendendo allora, dal mondo delle rationes a quello, parimenti nobile, dei tratti distintivi vediamone ordunque le linee costitutive quantunque solo in modalità rapsodica.

DIGITALIZZAZIONE

La transizione al digitale (il cosiddetto ‘processo 2.0’) si esprime lungo tre assiali ben definite: a) la formazione del fascicolo degli atti processuali; b) la rinnovata disciplina delle notifiche; c) la partecipazione a distanza. Giusta il primo versante rilevano gli interpolati artt. 110 e 111 c.p.p. nonché quelli di nuovo conio a numero d’ordine 111-bis e 111-ter. A regola generale si elegge il fatto che, “Quando è richiesta la forma scritta, gli atti del procedimento penale sono redatti e conservati in forma di documento informatico, tale da assicurarne l’autenticità, l’integrità, la leggibilità, la reperibilità, l’interoperabilità e, ove previsto dalla legge, la segretezza” (art. 110, comma 1, c.p.p.). Si “positivizza” quindi il ricorso obbligato alla modalità digitale benché il novum non sia scevro da eccezioni: il comma 3 dell’art. 110 c.p.p., difatti, si premura di chiosare che “La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli atti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere redatti in forma di documento informatico”; l’immediatamente successivo comma 4, a sua volta, indica che “Gli atti redatti  in forma di documento analogico sono convertiti senza ritardo in copia informatica ad opera dell’ufficio che li ha formati o ricevuti, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici”. Per la tavola definitoria è “salutare” fare rinvio al D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, recante “Codice dell’amministrazione digitale” stante cui, con ‘documento informatico’, si intende il “documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” mentre il ‘documento analogico’ richiama “la rappresentazione non informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti

[rispettivamente lettere p) e p-bis art. 1 d. lgs. cit.]. Inoltre le lettere da i-bis) ad i-quinquies del medesimo articolo completano il quadro così disponendo: “i-bis) copia informatica di documento analogico: il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento analogico da cui è tratto; i-ter) copia per immagine su supporto informatico di documento analogico: il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto; i-quater) copia informatica di documento informatico: il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari; i-quinquies) duplicato informatico: il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”. L’art. 111 c.p.p., a sua volta, adatta il profilo della data e della sottoscrizione degli atti alla nuova modalità digitale, ormai forma ordinaria della documentazione degli atti: di peculiare rilievo, laonde per cui, il comma 2-bis giusta cui “L’atto redatto in forma di documento informatico è sottoscritto, con firma digitale o altra firma elettronica qualificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione degli atti e dei documenti informatici”. Il nuovo art. 111-bis, fatte salve le eccezioni di cui ai commi 3 e 4, introduce la regola dell’obbligatorietà e dell’esclusività del deposito telematico nel rispetto della “certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione, nonché [del]l’identità del mittente e del destinatario” avendosi riguardo alla “normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”. Ad esito di questa articolata transizione il parimenti nuovo art. 111-ter c.p.p. “consegna” la disciplina di cui alla formazione e tenuta dei fascicoli informatici in modalità digitale “in maniera da assicurarne l’autenticità, l’integrità, l’accessibilità, la leggibilità, l’interoperabilità nonché l’agevole consultazione telematica” il che, sia detto per inciso, dovrebbe conferire maggiore effettività al diritto di difesa delle parti rendendo più spedita l’acquisizione di copia degli atti di interesse. A corollario va poi segnalata l’innovazione di cui all’art. 175-bis c.p.p. in ordine al malfunzionamento dei sistemi informatici, ‘certificato’ laddove si tratti di crack generalizzato dei domini del Ministero della giustizia e ‘non certificato’ nell’ipotesi di disfunzioni che afferiscano a singoli uffici e/o ad ambiti territorialmente circoscritti. In ambedue le evenienze i rispettivi referenti comunicano, “con modalità tali da assicurarne la tempestiva conoscibilità ai soggetti interessati”, data di inizio del malfunzionamento e data di cessazione dello stesso; in quell’intervallo problematico atti e documenti sono redatti in forma analogica e depositati con modalità non telematiche. Ciò, con buona plausibilità, onde evitare “stalli” processuali e che, di conseguenza, i tempi processuali vengano ad ulteriormente dilatarsi ed onde garantire continuità al fascicolo informatico.

In tema di partecipazione a distanza, ad una clausola generale di apertura (l’art. 133-bis c.p.p.) che legittima quella modalità di intervento sulla scena processuale 1) quando l’autorità giudiziaria dispone che un atto possa essere compiuto “da remoto”, 2) quando una o più parti possono partecipare, sempre “da remoto”, al compimento di un atto o, infine, 3) quando risulti possibile celebrare un’udienza da distanza segue, immediatamente, un’articolata norma di dettaglio (art. 133-ter c.p.p.). In estrema sintesi, ogniqualvolta si intenda procedere nel verso summenzionato, si dovrà attivare un collegamento audiovisivo onde “interfacciare” l’aula di udienza o l’ufficio giudiziario, da un lato, con il luogo fisico dove si trovano le persone che devono prendere parte all’udienza o coloro che devono “manifestarsi” al fine del compimento di un determinato atto, dall’altro (locus fisiologicamente da individuarsi in un diverso ufficio giudiziario o in un ufficio di polizia giudiziaria ravvisato dall’autorità giudiziaria: così il comma 4 dell’art. 133-ter c.p.p. testé menzionato). Detto quadro complessivo soffre, nondimeno, di più di una eccezione avuto riguardo ai luoghi di collegamento dei “remoti”: I) se si tratta di persone ristrette de libertate esse si collegano dal luogo in cui si trovano (usualmente l’istituto penitenziario); II) per i difensori vale, in un’ottica di favor, il loro ufficio (così salvaguardandosi la possibilità, per essi, di presenziare a più udienze nella medesima giornata) nondimeno assicurandone il diritto, esteso ai loro sostituti, “di essere presenti nel luogo dove si trova l’assistito” (comma 7); III) per la generalità dei consociati, dietro autorizzazione dell’autorità giudiziaria, un’altra “postazione” rispetto a quella indicata ex art. 133-ter, comma 4, c.p.p. Acciocché la procedura possa qualificarsi come corretta è necessario che si utilizzino modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio; che si garantisca l’effettiva partecipazione delle parti all’atto e/o all’udienza giusta la “contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti nei diversi luoghi e la possibilità per ciascuna di esse di udire quanto viene detto dalle altre”; che si fornisca adeguata pubblicità degli atti compiuti a distanza qualora si tratti di udienza pubblica; che si provveda alla registrazione dell’atto compiuto o dell’udienza svolta. E ciò a fronte di dotazioni tecniche adeguate e condizioni logistiche idonee per mandare ad effetto il collegamento. Molto favorevolmente, ad inciso finale, va sottolineato come il legislatore abbia trasposto nel “corpo” del codice di rito penale modalità e garanzie de quibus, prima “offuscate” dalla loro periferica collocazione nelle norme attuative (cfr. gli artt. 146-bis e 147-bis n. att. c.p.p., ancora in vigenza in parte qua per quanto non regolato dall’avvenuta interpolazione).

La rinnovata disciplina in materia di notificazioni emerge dal chiaro intendimento di cui all’art. 148, comma 1, c.p.p. stante cui “Salvo che la legge disponga altrimenti, le notificazioni degli atti sono eseguite, a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche che, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, assicurano la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione”; venendone a conseguenza che le già “ordinarie” modalità di notifica, a mezzo di ufficiale giudiziario od equipollente (si mediti sulle evenienze disciplinate, ai commi 7 e 8 dell’identico articolo, ad oggetto, rispettivo, la polizia giudiziaria e la polizia penitenziaria), sono azionabili solo in via suppletiva. A tale proposito (regole peculiari sono comunque dettate per l’imputato detenuto ex art. 156 c.p.p.) “La  polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini, se è nelle condizioni di indicare le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto e l’autorità giudiziaria  procedente, ne dà comunicazione alla persona sottoposta alle indagini e la avverte che le successive notificazioni, diverse da quelle riguardanti l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, la citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601 e il decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio. Contestualmente la persona sottoposta alle indagini è altresì avvertita che ha l’onere di indicare al difensore ogni recapito, anche telefonico, o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché di informarlo di ogni successivo mutamento. Il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato non detenuti o internati, li invitano a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi  degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna. Contestualmente la persona sottoposta alle indagini o l’imputato sono avvertiti che hanno l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, nonché nel caso in cui il  domicilio sia o divenga inidoneo, le notificazioni degli atti indicati verranno eseguite mediante consegna al difensore, già nominato o che è contestualmente nominato, anche d’ufficio” [cfr. art. 161, commi 01 (sic!) e 1, c.p.p.] (con domicilio dichiarato intendendosi una manifestazione di scienza intesa ad indicare un luogo che può essere solo la propria casa di abitazione o la sede del proprio lavoro mentre, con domicilio eletto, si fa riguardo altresì ad un domiciliatario che fiduciariamente si impegna, nei confronti dell’indagato/imputato, a ricevere gli atti ad egli destinati oltre che a tenerli a sua disposizione – ora il prevenuto può segnalare, ai fini delle notificazioni, anche un proprio indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato). Laddove, invece, non sia possibile disporsi per via digitale, o per espressa previsione di legge, per l’assenza o per l’inidoneità di un domicilio omonimo in capo al destinatario o per la sussistenza di impedimenti tecnici, soccorre quanto contemplato dall’art. 157 c.p.p. ovvero si provvede “mediante consegna di copia dell’atto in forma di documento analogico” all’interessato (cfr. art. 157, comma 1, primo periodo, c.p.p.); laddove ciò risultasse inesigibile la notificazione è eseguita, in alternativa, o presso la casa di abitazione (qui supplisce, ante omnia, una persona che conviva, anche solo temporaneamente, con l’imputato, deinde, una persona addetta alla casa oppure al servizio del destinatario e, denique, in mancanza di questi, dal portiere o da chi ne fa le veci) o presso il luogo presso cui l’imputato esercita abitualmente la propria attività lavorativa (in prima battuta mediante consegna al datore di lavoro, in second’ordine a persona addetta al servizio del destinatario, in terza istanza a persona addetta alla ricezione degli atti, da ultimo, ed in mancanza dei suddetti, al portiere o a chi ne fa le veci) – una prospettiva similare è poi “coltivata” con riguardo al querelante, alla persona offesa dal reato e agli “accessori civilistici”  (v. artt. 153-bis e 154 c.p.p.). Infine di peculiare significato, in quanto consente di “vincere” restrittivi indirizzi giurisprudenziali, il disposto di cui all’art. 152 c.p.p. il quale legittima i privati, oltre ad avvalersi della tradizionale raccomandata (con avviso di ricevimento), ad essa sostituire “la notificazione con modalità telematiche eseguita dal difensore a mezzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato” (cfr., per quest’ultimo, Regolamento UE 23 luglio 2014, n. 910, “in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE”).

INDAGINI PRELIMINARI

Nella “partitura” qui impostata dal riformatore assume notevole pregio la dimensione della tempestività/intempestività dell’iscrizione delle notitiae criminis nell’omonimo registro. La giurisprudenza, nella sua massima espressione (a Sezioni Unite, altrimenti detto), aveva avuto l’opportunità di sciogliere l’enigma ma aveva fornito una risposta interlocutoria nel verso che “Per poter configurare un sindacato giurisdizionale sulla tempestività delle iscrizioni operate dal pubblico ministero, occorrerebbe, dunque, una espressa previsione normativa” (le sottolineature sono nostre) “che disciplinasse non soltanto le attribuzioni processuali da conferire ad un determinato organo della giurisdizione, ma anche il “rito” secondo il quale inscenare un simile accertamento “incidentale”. Basti pensare, ad esempio, alla esigenza di rispettare il contraddittorio, non solo tra i soggetti necessari, ma anche in riferimento agli altri eventuali “partecipanti” della indagine o del processo. Se si introducesse, infatti, un controllo ex post sul merito della “tempestività” delle iscrizioni, con possibilità di “retrodatazione” tale da compromettere la utilizzazione di atti di indagine, il relativo ius ad loquendum non potrebbe non essere riconosciuto anche agli eventuali altri indagati o persone offese, che dalla “postuma” dichiarazione di inutilizzabilità di atti di indagine potrebbero soffrire una grave compromissione, ove quegli atti fossero favorevoli alla loro posizione. L’esigenza di un innesto normativo per portare a soluzione i problemi, da tempo avvertiti, che scaturiscono dalla assenza di effettivi rimedi per le ipotesi di ritardi nella iscrizione nel registro delle notizie di reato, è, d’altra parte, chiaramente testimoniata dal recente disegno di legge n. 1440, presentato dal Ministro della giustizia al Senato della Repubblica il 10 marzo 2009 e recante, fra l’altro, varie disposizioni in tema di procedimento penale. In esso, infatti, si prevede una specifica disciplina che attribuisce al giudice, all’atto della richiesta di rinvio a giudizio, il compito di verificare l’iscrizione operata dal pubblico ministero nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. e determinare, se del caso, la data nella quale essa doveva essere effettuata, «anche agli effetti dell’art. 407, comma 3». In modo tale, puntualizza la relazione che accompagna l’iniziativa legislativa, da porre rimedio ad un meccanismo «che rischia di rimettere alle scelte discrezionali del pubblico ministero la concreta determinazione dei tempi processuali. Con le nuove norme – osserva ancora la relazione – non potranno più riverberarsi sull’imputato gli effetti della iscrizione tardiva, a lui non imputabili, con la conseguenza di rendere più certi i termini delle indagini preliminari, a fini sia acceleratori che di garanzia». … Allo stato della normativa vigente, occorre quindi ribadire il principio per il quale il termine per le indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha provveduto ad iscrivere, nel registro delle notizie di reato, il nominativo della persona alla quale il reato è attribuito, senza che al giudice sia consentito di stabilire una diversa decorrenza. Gli eventuali ritardi nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nominativo cui il reato è attribuito, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., anche se si tratta di ritardi colpevoli o abnormi, fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale” (così Cass., S.U., 20 ottobre 2009, L.). Ora quel momento è finalmente giunto il legislatore decidendosi ad intervenire, in un contesto di, forse non a sufficienza meditato, restyling in ordine alla configurazione delle notizie di reato, giusta il comma 1-ter dell’art. 335 c.p.p. e l’innovativo art. 335-quater medesimo codice di rito. A premessa, finanche culturale, si “staglia” pur tuttavia il profilo definitorio di cui al comma 1, come modificato dell’art. 335 c.p.p., giusta cui ogni notizia di reato contiene “la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice”, fattore che potrebbe rappresentare una consona “bussola orientativa” per il pubblico ministero all’obiettivo di una tempestiva iscrizione di quelle nell’apposito registro [sia detto per inciso: ve n’è più di uno, identificabili stante il numero d’ordine dei rispettivi modelli. Di tal che avremo: 1) il modello 21 ad oggetto le notizie di reato a carico di persone; 2) il modello 21 bis a proposito dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace; 3) il modello 44 che riconduce ai fatti di reato laddove il supposto autore sia ancora ignoto; 4) il modello 45 ovvero il registro in cui vengono annotati i fatti non costituenti reato; 5) il modello 46 che si occupa, a sua volta, delle denunzie anonime. Usualmente la notitia criminis viene iscritta come mero fatto di reato ovvero nel modello 44; se, in un momento successivo, emergeranno elementi che consentano di “interlacciare” l’illecito commesso ad un determinato autore la notizia transiterà al modello 21 – dati recenti danno nondimeno testimonianza del fatto che, nel registro ad oggetto i provvedimenti contro ignoti, “stanziano”, all’incirca, 1.000.000 di casi. Ancora più inquietante la “provvista” di cui al modello 45 in cui si riversano, grosso sommato, 300.000 vicende giacché, in questo frangente, l’opzione inattiva del pubblico ministero non è soggetta a controllo veruno: egli, quindi, può auto-archiviare o, giusta un linguaggio più franco, può cestinare notizie inerenti a determinati fatti ma, impunemente, persistere in un’indagine, per così dire, “sotterranea”]. Il termine di durata delle indagini preliminari scorre in innanzi dal momento in cui l’esercente dell’azione penale iscriva il nominativo del supposto responsabile del crimen nel registro ad hoc prefissato: self-evident, allora, l’importanza nel provvedere tempestivamente a quell’operazione (acciocché non si lucri ultra necessitate, ed ulteriormente, sui tempi di indagine). Un primo rimedio, non è dato sapere quanto efficace, è rimesso alla buona “creanza” del pubblico ministero il quale, “Quando non ha provveduto tempestivamente ai sensi dei commi 1 e 1-bis, all’atto di disporre l’iscrizione … può altresì indicare la data anteriore a partire dalla quale essa deve intendersi effettuata” (cfr. art. 335, comma 1-ter, c.p.p.): una auto-retrodatazione, se così è consentito esprimersi. Più incisivo parrebbe il rimedio “escogitato” ex art. 335-quater del medesimo codice di rito: lì il giudice (che quindi non può attivarsi ex officio), dietro sollecitazione della persona sottoposta alle indagini, può accertare la tempestività dell’iscrizione, muovendo per la retro-datazione, a patto che l’indagato “indichi, a pena di inammissibilità, le ragioni che sorreggono” tale istanza nonché “gli atti del procedimento dai quali è desunto il ritardo”. Ad esito di un sub-procedimento, non poco macchinoso, in ordine al quale viene garantito un contraddittorio almeno sulle carte “In caso d’accoglimento della richiesta, il giudice indica la data nella quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito” (così il comma del summenzionato art. 335-quater). Molto opportunamente, il tutto letto in combinato disposto con l’art. 407, comma 3, c.p.p., e a “quadratura del cerchio”, “… non possono essere utilizzati gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine per la conclusione delle indagini preliminari stabilito dalla legge o prorogato dal giudice”. Cosicché gli atti realizzati nel segmento temporale di “apparente” durata fisiologica delle indagini preliminari si rivelano, a bene vedere, ultra terminos a fronte dell’effettuata retro-datazione – non possono che essere inutilizzabili, al postutto. A specchio, non sempre lineare, di quanto finora esposto il momento di chiusura delle indagini preliminari [momento, ora, precisamente descritto nella Rubrica normativa di cui all’art. 405 c.p.p. – giustappunto “Termini per la conclusione delle indagini preliminari”: pre-2022 si discorreva di “Inizio dell’azione penale (attualmente quest’ultima viene ad esercitarsi, se del caso, una volta consumato un ulteriore periodo di riflessione). Forme e termini”]. Rebus sic stantibus è in auge un modulo tripartito: sempre muovendo da quando si iscrive la notizia di reato a modello 21 “… il pubblico ministero conclude le indagini preliminari entro il termine di un anno dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato. Il termine è di sei mesi, se si procede per una contravvenzione, e di un anno e sei mesi, se si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2” (comma 2 dell’art. 405 c.p.p.) (prima della riforma sei mesi per i reati “comuni” ed un anno per i reati che si caratterizzano per spiccata intensità lesiva). Possibili le proroghe: anzi, tanto per essere acribici, la proroga contemplandosene, a differenza del mondo pre-Cartabia, una sola fondata sulla riscontrata complessità delle indagini (v. art. 406, comma 1, c.p.p.) (in temporibus si legittimavano più istanze la prima retta sulla ‘giusta causa’ – non si negava a nessuno di tal che – le seconde, giusta un enunciato circolare, alla luce di “particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato” – il che, il più delle volte, si determinava, di necessità, ad esito di indagini particolarmente complesse, nevvero. Non possono mancare termini di durata massima onde stornare il rischio di “eterni indagabili”: un anno per le contravvenzioni e, identicamente al pregresso, diciotto mesi per i delitti “comuni” e due anni per quelli che si caratterizzano per spiccata intensità lesiva. Ma non è ancora finita giacché, per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (richiesta di rinvio a giudizio per l’azione; richiesta di archiviazione per l’inazione), al pubblico ministero si concede tempo ulteriore (ma di ciò infra). Come si possa allora rivendicare con orgoglio un contenimento del cosiddetto ‘gigantismo inquisitorio’ manet in alta retentum.