Due recenti arresti giurisprudenziali, l’uno della Nostra Corte di Cassazione (Cass., Sez., VI, n. 42942/2024), l’uno della Corte Europea dei Diritti Umani (d’ora in innanzi, per acronimo, Corte EDU) (Ciccone v. Italia, prima Sezione Corte EDU, 5 giugno 2025), inducono a riflettere, una volta di più, sull’eventuale “capovolgimento” della sentenza assolutoria, resa in prime cure, a fronte di appello “del pubblico ministero … per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” (arg. ex art. 603, comma 3 bis, incipit, c.p.p.). A tale riguardo è fatto notorio l’incessante, ma non sempre governato, flusso decisorio di cui al Nostro organo di nomofilachia [non può, d’altra parte, sottacersi l’input offerto al tema dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, anzi, ha tracciato il percorso con l’, ormai “leggendario”, judgment Dan v. Moldova (n. 1), terza Sezione Corte EDU, 5 luglio 2011 – le note de quibus, pur tuttavia, assumono a focus la dimensione interna del “travaglio” giurisprudenziale di tal che si farà rinvio alla prospettiva convenzionale nei limiti dello stretto necessario] che, salvo errori ed/od omissioni di chi scrive, si è inverato in sei decisa delle Sezioni Unite all’incirca nell’arco di sei anni (a ciò va inoltre soggiunta una devoluzione ulteriore alle Sezioni Unite – cfr. Cass., Sez. I, n. 45179/2021 – ritenuta alla fonte dalla Presidenza della Corte giacché, nell’evenienza di specie, non era dato ravvisare i presupposti onde giustificare l’intervento dell’adunata plenaria, vuoi ex art. 610 vuoi ex art. 618 del codice di rito penale). In ordine di mera apparizione cronologica vanno quindi censite: 1) Cass. S.U., 27620/2016; 2) Cass. S.U., 18620/2017; 3) Cass. S.U., 14800/2018; 4) Cass. S.U., 14426/2019; 5) Cass. S.U., 22065/2021; 6) Cass. S.U., 11586/2022 – il tutto a preambolo ed a quasi epilogo di un convulso riformismo [da un lato la l. 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, cosiddetta riforma Orlando, dalle generalità dell’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia, che ha introdotto il comma 3 bis nel “corpo” dell’art. 603 giusta il seguente tenore: “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”; dall’altro il d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, cosiddetta riforma Cartabia, dall’allora facente funzioni di Ministro della Giustizia, che, oltre a modificare il testo del comma 3 bis nel verso dappresso indicato (le modifiche apportate vengono evidenziate in grassetto corsivo: n.d.a.) “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5”, adegua ulteriormente per tramite di un comma 3 ter così impostato: “Il giudice dispone altresì la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale quando l’imputato ne fa richiesta ai sensi dell’articolo 604, commi 5-ter e 5-quater. Tuttavia, quando nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza dell’imputato ai sensi dell’articolo 420-bis, comma 3, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è disposta ai sensi dell’articolo 190-bis”] che ha agitato le acque di un settore disciplinare fino a quel momento “disteso”. È opportuno quindi prendere l’abbrivio dagli editti di cui alle Sezioni Unite onde poi convergere sui due giudicati ad esordio delle presenti osservazioni. Il ruolo dell’“asso pigliatutto” (non fosse altro in quanto detta pronunzia interviene in mancanza di normazione diretta sul punto) si deve alla sentenza 27620/2016 – conosciuta come Dasgupta, dalle generalità del ricorrente – la quale affida all’interprete ben quattro, enunciati, princìpi di diritto: “I principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come viventi nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, pur non traducendosi in norme di diretta applicabilità nell’ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione (‘convenzionalmente orientata’) ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell’applicazione delle norme interne”. “La previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, la quale costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne, implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado”. “L’affermazione di responsabilità dell’imputato pronunciata dal giudice di appello su impugnazione del pubblico ministero, in riforma di una sentenza assolutoria fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., integra di per sé un vizio di motivazione della sentenza di appello, ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ di cui all’art. 533, comma 1. In tal caso, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei ‘I principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come viventi nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, pur non traducendosi in norme di diretta applicabilità nell’ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione (‘convenzionalmente orientata’) ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell’applicazione delle norme interne”. “La previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, la quale costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne, implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado”. “L’affermazione di responsabilità dell’imputato pronunciata dal giudice di appello su impugnazione del pubblico ministero, in riforma di una sentenza assolutoria fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., integra di per sé un vizio di motivazione della sentenza di appello, ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ di cui all’art. 533, comma 1. In tal caso, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata”. “Gli stessi principi trovano applicazione nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado, ai fini delle statuizioni civili, sull’appello proposto dalla parte civile”, Importante l’edificio teorico addotto a fondamento del decisum: di tal che non rileva tanto il right to confrontation come declinato dall’art. 6, §3, lett. d), della Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (d’ora in innanzi, per acronimo, CEDU), e come interpretato dalla giurisprudenza della Corte alsaziana, quanto piuttosto la presunzione di non colpevolezza (garantita dall’art. 27, comma 2, Cost.) e “materializzata”, nel frangente codicistico, stante il canone decisorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio (giusta il quale, ed in esclusiva laddove soddisfatto, è dato addivenire ad una sentenza di condanna – arg. ex art. 533, comma 1, c.p.p.). Ebbene:rebus sic stantibus, “nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, occorrendo una “forza persuasiva superiore”, tale da far venire meno “ogni ragionevole dubbio” sulla addebitabilità del factum sceleris al suo supposto autore – e ciò in quanto la condanna presuppone la certezza della colpevolezza (giustappunto siamo al di là di any and all reasonable doubt) laddove l’assoluzione non presuppone alcunché limitandosi a suscitare un dubbio (ragionevole: giustappunto siamo al di qua di detta soglia) su quella (la colpevolezza) (arg. ex art. 530, comma 2, c.p.p., che così recita: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile” – in estrema sintesi, non si chiede la certezza dell’innocenza bensì la non certezza della colpevolezza). Altrimenti detto: colui che io imputo autore di (puto, ritengo che abbia commesso) un determinato illecito penale resta tale giacché non se ne è dimostrata la responsabilità oltre quel limite. Se così è “la rinnovazione della istruzione dibattimentale si profila come “assolutamente necessaria” ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.” (ricordiamo che, in temporibus, il comma 3 bis era ancora ben lungi da venire) … “tale presupposto, infatti, al di là dei casi di incompletezza del quadro probatorio, si collega, più generalmente, alla esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del “ragionevole dubbio”, replichi l’andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte”. E per mandare ad effetto un simile postulato nulla di meglio del ricorso al contraddittorio per la (nella) formazione della prova, dinnanzi a giudice terzo ed imparziale, in quanto metodo epistemologicamente più affidabile, stante il confronto dialettico fra le parti, onde approssimarsi al vero. In un eccesso di “protagonismo” la sentenza Dasgupta dice finanche altro (non richiesto) valorizzando una serie incontrollata di obiter dicta. Di tal che la necessità di reiterare, in seconde cure, il proprio sapere dichiarativo, a fronte dell’impugnazione del pubblico ministero avverso una pronunzia assolutoria, è indeclinabile, giusta la qualifica soggettiva del propalante, A1) a prescindere dalla veste di testimone “puro” (art. 197 c.p.p.) o di testimone “assistito” (art. 197 bis c.p.p.) del loquens; B1) altresì laddove si faccia riguardo a dichiarazioni del coimputato in procedimento connesso o collegato (cfr. art. 210 c.p.p.) o di coimputato de eodem judicio (v. art. 503 c.p.p.); C1) last but not least in ordine all’imputato in causa propria [la natura di obiter dictum di questo riferimento ha condizionato il non possumus della Presidenza della Corte di Cassazione a fronte dell’ipotetica devoluzione alle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 45179/2021. Là, forti del judgment Maestri v. Italia, prima sezione Corte EDU, 8 luglio 2021, stante cui ogni persona accusata dovrebbe, in linea di principio, essere ascoltata dal giudice che debba pronunciarsi sulla sua responsabilità, tanto più qualora venga in gioco lo scenario della colpevolezza, la prima sezione della Nostra Corte di Cassazione indugiava sul fatto come quell’arresto contrassegnasse un’ulteriore momento topico dell’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo, nel senso che, laddove si discuta della prova degli elementi costitutivi del reato (les cas dans lesquels une juridiction d’appel ayant infirmé un acquittement sans entendre directement le témoignage sur lequel l’acquittement était fondé a effectivement procédé à une nouvelle appréciation des faits) e non di operazioni meramente sussuntive (situations dans lesquelles la juridiction d’appel n’était en désaccord avec l’instance inférieure que sur l’interprétation d’une question de droit et/ou sur son application aux faits déjà établis), il giudice dei diritti umani sembrerebbe imporre “al giudice di appello [di] disporre l’esame dell’imputato”. Qui, stante il niet della Presidenza della Corte di Cassazione, l’obiter dictum sembrerebbe ancora “vagare” nei repertori giurisprudenziali, al postutto]; giusta la tipologia di ritualità considerata A2) quanto precede vale altresì per decisa resi ad esito di giudizio abbreviato ove la pronunzia di assoluzione “sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice e il cui valore sia posto in discussione dall’organo dell’accusa impugnante; … essendo irrilevante che gli apporti dichiarativi siano stati valutati in primo grado sulla base dei soli atti di indagine ovvero a seguito di integrazione probatoria a norma dell’art. 438, comma 5, o dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen.”; a fronte della possibilità, o meno, di reiterare il pre-formato dichiarativo appreso al di fuori della portata uditiva del giudice che decide il necesse est di cui opera laddove la rinnovazione in appello A3) “si riveli impossibile, ad esempio per irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare. Ma anche in questi casi, salva l’applicabilità nel giudizio di appello dell’art. 467 cod. proc. pen. per l’assunzione urgente delle prove “non rinviabili”, non vi sono ragioni per ritenere consentito un ribaltamento del giudizio assolutorio ex actis”. Resta comunque fermo “il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva della nuova audizione sia che la sottrazione all’esame non dipenda dalla volontà di favorire l’imputato o da condotte illecite poste in essere da terzi, essendo in tal caso il giudice legittimato a fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni”. Con specifico riguardo ad una peculiare figura di “io narrante” infermo, ovvero il teste vulnerabile, i giudici di Cassazione si mostrano meno assolutisti giacché, pur non sussistendo “valide ragioni per ritenere inapplicabile la preclusione di un ribaltamento ex actis del giudizio assolutorio … in questa speciale situazione è rimessa al giudice la valutazione circa l’indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell’impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria”. Specularmente parlando, invece, “non può condividersi l’orientamento secondo cui anche in caso di riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio il giudice di appello … deve previamente procedere a una rinnovazione della prova dichiarativa”. E ciò proprio in quanto qui non viene a rilevare la presunzione, costituzionalizzata, di non colpevolezza che, nell’architrave codicistica, trova “linfa” nel principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Infatti, mentre, come già detto, la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non traduce, in formula decisoria, la certezza dell’innocenza bensì solo il dubbio sulla medesima (scil.: colpevolezza) (cfr. art. 530, comma 2, c.p.p.) venendone, di riflesso, che l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcuna esitanza perché é la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio non certo l’assoluzione (dal che é dato evincere, qualora ancora ve ne fosse urgenza di conferma, che le autentiche rationes decidendi a fondamento di tale manipolo giurisprudenziale stanno nella tutela della presunzione di innocenza e non nel pieno esplicarsi del right to confrontation). Comunque sia, allerta Dasgupta, “il giudice di appello … é tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado” – a quel giudice è dunque imposto – ecco un must dell’evoluzione giurisprudenziale ancora in corso – un vero e proprio dovere di motivazione rafforzata.
Gli assiomi di cui alla sentenza capostipite del 2016 sono stati, a seconda dei casi, confermati od azzerati – in un’evenienza addirittura “innervati” ex nihilo – dalla progenie nomopoietica delle restanti Sezioni Unite. E valga il vero. Rafforzative di Dasgupta sono 1) la sentenza 18620/2017 – nota come Patalano, dalle generalità del ricorrente – in cui quell’elevato consesso significa che è affetta “da vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’, di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni”, indipendentemente dal fatto che l’accertamento di primo grado fosse intervenuto ad esito di un giudizio abbreviato non condizionato all’assunzione probatoria. E ciò nonostante le puntuali osservazioni dell’Avvocato Generale della Corte di Cassazione secondo il quale, se “la prova dichiarativa non è stata raccolta in forma orale, immediata e nel contraddittorio delle parti, ma solo valutata ex actis dal giudice di primo grado che ha pronunciato l’assoluzione …”, “non ricorrono le ragioni fondanti della regola di “simmetria operativa”, enunciata dalle Sezioni Unite Dasgupta, in assenza di dati normativi e sistematici indicativi del fatto che l’obbligo di motivazione rafforzata debba essere obbligatoriamente assolto attraverso l’effettuazione di una istruttoria dibattimentale, inesistente nel giudizio di primo grado, con l’assunzione per la prima volta in appello di una prova dichiarativa decisiva” e le incisive obiezioni delle Sezioni Semplici (nel dettaglio cfr. Cass., Sez. III, 43242/2016) espressive di diverso orientamento giusta cui si tratterebbe di un obiter dictum – quello riconducibile a Dasgupta sul punto – “non coerente con il ragionamento delle Sezioni Unite, dal momento che il dovere di riascolto in contraddittorio del dichiarante, sintonico con le forme del rito ordinario, doveva ritenersi invece dissonante rispetto al rito abbreviato non condizionato: essendo illogico obbligare il giudice di appello a ricondurre nei canoni propri di un giudizio dibattimentale il rito speciale attraverso un contatto diretto con la fonte della prova dichiarativa che il giudice di primo grado non ha avuto per espressa scelta dello stesso imputato”. Comunque sia di tali fraintendimenti può, forse, evincersene traccia nella co-presenza, a differenza di quel che accade nelle ulteriori Sezioni Unite, di un giudice estensore e di un giudice relatore nella sentenza Patalano (il che potrebbe “garantire” del conflitto segnalato) … sarà nondimeno la riforma Cartabia ad esigere cautela in merito (cfr. l’attuale testo dell’art. 603, comma 3 bis, del codice di rito penale). Per logico “precipitato” si conferma poi che “[a]d analoghe conclusioni deve pervenirsi nel caso di riforma della sentenza assolutoria agli effetti civili, emessa all’esito di giudizio abbreviato, a seguito di accoglimento dell’appello proposto dalla parte civile”; II) la sentenza 22065/2021 (Cremonini, giusta le generalità del ricorrente), dal verbiage inquietante che, nel risolvere una questione preliminare al punctum dolens sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, ovvero “[s]e in caso di annullamento, ai soli effetti civili, della sentenza di condanna pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o al giudice penale” (l’adunanza plenaria del giudice di legittimità si orienta per il giudice civile competente per valore in grado di appello), ricordati i postulati Dasgupta e Patalano, ne assicura la forza propulsiva al punto che l’introduzione del comma 3 bis nel testo dell’art. 603 c.p.p. – che, all’apparenza, limita il novum al pubblico ministero impugnante – “non autorizza a ritenere che, in caso di impugnazione della sola parte civile, il giudice di appello che intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione non sia obbligato a rinnovare le prove dichiarative incidenti in maniera decisiva sulla decisione … Non appare influente, sotto detto aspetto, la circostanza che l’impugnazione sia stata proposta dal pubblico ministero piuttosto che dalla parte civile, posto che il nostro sistema processuale non prevede differenziazioni delle regole probatorie ai fini dell’accertamento della responsabilità penale e civile, nel contesto unitario del processo penale, non potendo, sotto il profilo del diritto di difesa, diversamente declinarsi le regole poste a presidio dello stesso, a seconda se vengano in rilievo profili penali o esclusivamente civili. Tale conclusione non è, infatti, in alcun modo desumibile dai principi della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come sviluppati dall’interpretazione della Corte comunitaria e recepita nella Carta costituzionale all’art. 111, nonché dalla prospettiva posta a fondamento dell’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte”. Venendone allora che, come già avvertito, “[l]’introduzione di un principio come quello dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. per l’appello del pubblico ministero non osta, dunque, a ritenere che il percorso esegetico disegnato dalle sentenze delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano mantenga una propria vitalità ed autonomia, in quanto si ispira a principi di rango superiore a quello della legge ordinaria: e cioè il principio del giusto processo – di cui il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio è un corollario che a sua volta è di matrice tanto costituzionale quanto convenzionale”; III) ad exclusio alterius della “conversa” (ovverossia l’operatività della regola stante cui il giudice è vincolato a rinnovare l’audizione dei dichiaranti finanche laddove ci si disponga per l’overturning della sentenza di condanna epilogo del first trial – nulla osta, pur tuttavia, a che il giudice di appello riscontri quella necessità nel qual caso può disporsi ex art. 603, comma 3, c.p.p.; dispone, di ufficio, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, per l’appunto, se “la ritiene assolutamente necessaria”, non obbligata, quindi) sta, a sua volta, la sentenza 14800/2018 (Troise, alla luce dell’anagrafica del condannato in primo grado) per cui, per le ragioni a più riprese esposte,“[n]ell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado“. Antitetica a Dasgupta invece la sentenza a noi più prossima – la n. 11586/2022 (Dine, per la cronaca) – per cui “[l]a riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso del dichiarante; tuttavia, la motivazione della sentenza che si fondi sulla prova non rinnovata deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, che il giudice ha l’onere di ricercare ed eventualmente acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, coтта 3, сod. proc. pen.”. Last but not least oltre (praeter) il “colonnato” di Dasgupta la sentenza 1426/2019 (conosciuta come Pavan dalle generalità del ricorrente), anch’essa ampollosa ultra necessitate, per la quale, a fronte dell’equiparazione fra teste ‘inesperto’ e teste ‘esperto’ (l’expert witness delle consolidazioni di common law; il perito/consulente tecnico di cui alle Nostre latitudini) e della riconosciuta natura dichiarativa del sapere di questi ultimi, soccorrono i seguenti princìpi di diritto: «[l]a dichiarazione resa dal perito nel corso del dibattimento costituisce una prova dichiarativa. Di conseguenza, ove risulti decisiva, il giudice di appello ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa». «Ove, nel giudizio di primo grado, della relazione peritale sia stata data la sola lettura senza esame del perito, il giudice di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame del perito». «Le dichiarazioni rese dal consulente tecnico oralmente, vanno ritenute prove dichiarative, sicché, ove siano poste a fondamento dal giudice di primo grado della sentenza di assoluzione, il giudice di appello – nel caso di riforma della suddetta sentenza sulla base di un diverso apprezzamento delle medesime – ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale tramite l’esame del consulente». (gli incisi di cui al secondo ed al terzo virgolettato appaiono dirimenti onde comprendere le motivazioni del recentissimo arrêt Ciccone, del 5 giugno u.s., come deciso dalla Corte EDU.
E veniamo all’oggi, muovendo proprio dall’intervento sovranazionale. In quel frangente la signora Anna Maria Ciccone, medico radiologo, in una vicenda che si era “intessuta” prima delle Sezioni Unite del 2019, si doleva proprio del fatto di essere stata condannata, in seconde cure, senza che il giudice di appello avesse ordinato la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a riguardo il sapere peritale. Ebbene: la Corte alsaziana, facendo propria la ‘dottrina Pavan’, ulteriormente ne affina i tratti. Con il che, “se le dichiarazioni degli esperti consistono in meri rinvii alle conclusioni della relazione peritale e se gli organi decidenti, in buona sostanza, hanno fondato il proprio giudizio sui contenuti di quella, è dato da ciò evincere che il processo “riposa” su di una prova documentale versata nel fascicolo per il dibattimento e non su prove di natura dichiarativa. Venendone che le conclusioni inerenti all’obbligo di ordinare la ri-escussione dei testimoni-esperti prima di infirmare una previa sentenza liberatoria non troveranno ad applicarsi nel caso di specie … Nella vicenda de qua agitur … le dichiarazioni orali degli ‘esperti’ non hanno [invece: n.d.a.] configurato un mero rinvio alla relazione peritale bensì hanno integrato quanto colà reso stante la propria narrazione orale, esercitando un impatto decisivo sull’apprezzamento dei fatti ad opera del giudice di primo grado”. Quindi, ‘super-Pavan’: non solo vale la regola dell’overturning condizionato alla novazione del sapere dichiarativo esperto ma ciò deve esigersi finanche qualora il perito/consulente, sentito in giudizio, abbia fatto rinvio, non meramente formale, ai contenuti di cui alla relazione peritale. Con il che, al di là dell’esuberanza grafico-espressiva, ci si può ritenere moderatamente soddisfatti.
Foriero di maggiori criticità, invece, l’esito sottoscritto dalla decisione interna n. 42942/2022 – qui l’abito sartoriale non è certo su misura, altrimenti detto. In quel contesto si dibatteva se la prova assunta in sede di incidente probatorio potesse/dovesse rinnovarsi innanzi al giudice di appello ex art. 603, comma 3 bis, c.p.p., stante l’obiettivo del “capovolgimento” della pronunzia assolutoria resa in prima istanza. La Sesta Sezione Penale dell’organo di nomofilachia risponde affermativamente al quesito nonostante la Corte di appello di Bologna avesse condannato l’imputato, ad esito della revoca del provvedimento di rinnovo del sapere dichiarativo dell’offeso dal reato, “sulla base della considerazione che la [persona offesa] era già stata “sentita in incidente probatorio”, di tal che non era necessario procedere a nuova escussione della stessa (così come delle altre persone offese). E ciò sul presupposto … che la nuova disciplina del comma 3-bis, introdotta dal d. lgs. del 2022, non si possa applicare all’esame testimoniale effettuato in incidente probatorio”. Rifacendosi ad un precedente ante-Cartabia, in cui si adduceva che “l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria … grava sul giudice di appello anche quando la diversa valutazione di una prova dichiarativa ritenuta decisiva riguardi una prova acquisita nel corso delle indagini preliminari e non ripetuta in dibattimento” (Cass., Sez. III, 24597/2020), il giudice di legittimità, sul presupposto che l’obbligo di rinnovazione Dasgupta-style fosse stato formalizzato dalla l. n. 103/2017 (la cosiddetta riforma Orlando) – il che, sia detto en passant, non è affatto corrispondente al reale – epilogava nel verso che l’effettività “dell’affermazione giurisprudenziale sopra indicata non risulta vulnerata dalla modifica introdotta al cit. comma 3-bis dal d. lgs. n. 150 del 2022 … Dall’omessa indicazione normativa della prova dichiarativa acquisita in incidente probatorio non può infatti dedursi la volontà del legislatore di escludere dall’ambito della rinnovazione detta prova”. Se su questa vera e propria petitio principii si può, a tutto concedere, indulgere debolissime appaiono le motivazioni addotte per supportarla. Primo la Sesta Sezione trova conforto nella Relazione Illustrativa al d. lgs. 150/2022 in cui si dà conto che il novum legislativo muoveva “ad escludere la rinnovazione dell’istruzione finalizzata alla rivalutazione della prova dichiarativa nei casi di giudizio abbreviato in cui non vi sia stata integrazione probatoria”. Ma qui, come dicono quelli che la sanno lunga, l’argomento prova troppo: il silenzio mantenuto dal riformatore del 2022 potrebbe essere dovuto a ben altre ragioni (putacaso, il fatto che fosse self-evident che quanto narrato in “ambiente” di incidente probatorio non fosse obbligatoriamente recuperabile in seconde cure onde “ribaltare” la sentenza assolutoria emessa in primo grado). Tanto più che è dato osservare che l’art. 1, comma 13, lett. l, l. 27 settembre 2021, recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, giustappunto delegava il Governo della Repubblica a normare in corpore articuli 603, comma 3 bis, c.p.p. “prevedendo che, nel caso di appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata (il grassetto corsivo è Nostro: n.d.a.) ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado” – ed è quasi ozioso ripeterlo ma l’incidente probatorio elettivamente si dispone o nella fase delle indagini preliminari (dal momento di approvazione del codice di rito penale) o in udienza preliminare (alla luce della pronunzia additiva Corte Cost., 23 febbraio – 10 marzo 1994, n. 77) – mai e poi mai ‘nel corso del giudizio di primo grado’, nevvero. Deinde si soggiunge l’irragionevolezza nel ritenere “che l’obbligo di rinnovazione sussista in caso di testimone sentito nel dibattimento di primo grado e non di colui che ha reso dichiarazioni nell’incidente probatorio, atteso che in entrambi i casi si è di fronte ad un’assunzione della prova effettuata con le regole stabilite per il dibattimento e mancando nell’incidente probatorio la scelta dell’imputato – collegata a un rito alternativo a connotazione premiale – di rinunciare al contraddittorio accettando di essere giudicato sulla base degli atti unilateralmente formati dal Pubblico ministero nelle indagini preliminari (presupposto, questo, della non obbligatorietà della rinnovazione in caso di overturning in appello di assoluzione conseguente a giudizio abbreviato “secco”)”. Nondimeno è tramandato ab immemorabili che, per mandare ad effetto, i canoni di ragionevolezza, ed ora anche di proporzionalità, sottesi al dettato di cui all’art. 3 Cost. (giacché è poi del principio di uguaglianza che si sta discorrendo), si deve ricorrere ad un tertium comparationis (termine di paragone) adeguato – invero equiparare incidente probatorio ed abbreviato non condizionato pare quantomeno incauto, a tacer d’altro: situazioni uguali vanno trattate in modo uguale situazioni diverse in modo diverso, sia consentito aggiungere. E di ciò sembrerebbe farsi persuaso il giudice di Cassazione medesimo laddove significa che “[o]ve tale rinnovazione … si dimostri oggettivamente impossibile, la riforma, in grado di appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa ma la relativa decisione deve presentare una motivazione rafforzata (ecco il “feticcio”: n.d.a.) sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, acquisibili dal giudice anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.”. Ed è ancora il giudice di legittimità a stemperare la propria ricostruzione facendo riguardo a prove acquisite, e documentate, con le forme/regole stabilite per il dibattimento (arg. ex art. 401, comma 5, c.p.p., proprio dettato per l’incidente probatorio). Ecco: se in luogo di “prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all’esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5” fosse impresso “prove dichiarative assunte con le forme previste per il dibattimento” (e per operare detto “trapianto” già disponiamo dello specimen di cui all’art. 401, comma 5, del codice di rito penale) non residuerebbe dubbio veruno sull’applicabilità dell’art. 603, comma 3 bis, c.p.p., ad oggetto prove dichiarative assunte ante iudicium. Ma a ciò contravviene la littera legis; ed in claris non fit interpretatio.
Un’ipotetica riconduzione ad unità di tale inarticolato compendio deve, a Nostro modo di vedere, transitare per indeclinabili punti fermi. A) È poi vero che la cosiddetta motivazione rafforzata configuri una panacea universale? Ora è bene accetto sottolineare come quest’ultima sia un qualcosa di concorrente – e non di alternativo – alla rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva sicché la sentenza di seconde cure che “ribalti” l’antecedente pronunzia assolutoria postula, al contempo, l’adozione di quella e la reitera di questa; ma parimenti, ed è fatto notorio, il più delle volte motivare si traduce in un esercizio di stile che un buon causeur (un brillante argomentatore) è in grado di soddisfare – è pur sempre una razionalizzazione ex post, a bene vedere; B) quale la ratio dell’obbligo di rinnovazione? Il rispetto della presunzione di non colpevolezza (e della sua “matrice” intra codicem dell’oltre ogni ragionevole dubbio) o il parametro convenzionale del right to confrontation (con i coevi “gangli” dell’immediatezza/oralità) ex art. 6, §3, lett. d), CEDU? Valesse la dimensione convenzionale quanto assunto dalla sentenza n. 42942/2024 non avrebbe ragione di esistere, ad esempio; 3) e da ultimo: quale la natura del giudizio di appello? Novum iudicium (secondo accertamento nel merito del capo di imputazione) o revisio prioris instantiae (“revisione” critica del giudizio di primo grado)?
Dubitiamo di una parola chiarificatrice a breve ad opera del legislatore (e, addirittura, ne diffidiamo) ma, al contempo, la nomopoiesi ingovernata a cui, inevitabilmente, si deve cedere, nell’evenienza di un perdurante silenzio delle Assemblee di Montecitorio e di Palazzo Madama, oppugna a valori fondamentali, in primis la certezza del diritto che “vo cercando fra le ombre sospirando” Quid juris, tum?