di Pasqualino Marsico
Per introdurre l’argomento relativo alla prova scientifica in ambito penale bisogna analizzare il combinato disposto tra gli articoli 187 e 189 del codice di procedura penale. Per parlare di prova, il metodo o il fatto utilizzato a sostegno dell’accusa, o della difesa, deve riferirsi all’imputazione, alla punibilità o alla determinazione della pena o della misura di sicurezza. Al tal proposito appare corretto osservare che ogni fatto estraneo a tali evidenze non può essere considerato oggetto di prova, ma, probabilmente, mero indizio o elemento di prova. Se il mezzo di prova da utilizzare non rientra tra quelli tassativamente indicati dalla legge (testimonianza, esame delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizia e documenti) il codice permette, previa autorizzazione del giudice, di poter assumere un mezzo di prova non previsto dalla legge se risulta idoneo ad assicurare l’accertamento dei fatti oggetti di imputazione.
Nella prova atipica rientra dunque la prova scientifica che può essere definita come uno strumento tecnico idoneo alla ricostruzione del fatto storico. Per essere tale, tuttavia, la prova scientifica deve partire da un fatto dimostrato e dimostrabile ripetutamente e, utilizzando leggi scientifiche, deve accertare l’esistenza di un altro fatto da provare, che risulta ignoto. La prova scientifica può essere considerata quindi una prova critica che, nel processo penale italiano, rientra attraverso la consulenza tecnica extraperitale o, quando è ammessa dal giudice, la perizia. Durante la fase delle indagini, ovviamente, viene disposta tramite accertamento tecnico. La prova scientifica ha un ruolo significativo ma non bisogna cadere in errore o percepire male il valore che essa rappresenta rispetto al fatto da provare: l’aggettivizzazione “scientifica” rispetto al temine “prova” evidenzia un serio rischio che questa espressione possa corrispondere a verità assoluta. La prova scientifica se non è in grado di dimostrare il nesso di causalità che lega la condotta, il reo, la vittima e l’effetto dell’azione antigiuridica, non potrà mai essere utilizzata in maniera esaustiva (come prova regina) ma potrà essere fondamentale per sostenere le ragioni dell’accusa e della difesa in relazione al concetto di indizio. In ogni caso, sia essa utilizzata per evidenziare il coinvolgimento di un indagato, o di una condotta, la prova scientifica dovrà essere assunta e formarsi in dibattimento, nel contradditorio tra le parti. A tal proposito sarà fondamentale addivenire al dibattimento con una traccia certa, non contaminata o degradata.
Nell’ambito della genetica forense, per esempio, il valore di scientificità della prova è cresciuto in maniera sostanziale negli ultimi anni. Fino a poco tempo fa la certezza del dato era relazionato al Curriculum Vitae del relatore che aveva valore preminente sia in relazione al confronto tra professionisti che direttamente rispetto alla controversia oggetto del contendere. Ma la legge scientifica, per essere tale, deve essere compresa e proprio per questo Bohr affermava che “nulla esiste finché non viene misurato”. È importante, dunque, in ambito di prova scientifica, dare un valore o un numero di riferimento tale che esso possa sostenere un dato altamente vicino alla certezza. L’introduzione della banca dati del DNA per esempio, introdotta nel sistema legislativo italiano nel 2009 ma effettivamente vigente dal 10 giugno 2016, obbliga tutti i laboratori ad eseguire calcoli biostatistici in relazione alla percentuale di errore nella conduzione di un accertamento. Fino a poco tempo fa in Italia venivano utilizzati protocolli stranieri (di solito della FBI americana); bisogna sottolineare che tali protocolli venivano quindi attuati rispetto a professionisti diversi, ad altri laboratori e rispetto ad altri sistemi…ad un altro processo e, proprio per questo, è possibile affermare che i medesimi protocolli non per forza debbano produrre i medesimi risultati di efficacia. Con l’introduzione della banca dati del DNA si obbliga, grazie all’adozione dell’accreditamento ISO 17025, ad eseguire una stima dell’incertezza e dell’errore all’interno del laboratorio in cui viene svolto un accertamento. Tale innovazione risulta importante perché permette al genetista forense di conoscere il suo limite e poterlo giustificare. Il dato scientifico, per poter essere utilizzato nell’ambito di un processo penale deve risultare certo e incontaminato, non deve essere degradato ma soprattutto deve essere comprensibile in modo da non compromettere le valutazioni di chi ha il duro compito di decidere e valutare. Proprio per questo motivo, a parere di chi scrive, nell’ambito della prova scientifica assume valore imprescindibile la biostatistica forense che ha il compito di misurare il peso del dato scientifico ed evitare (o ridurre) lo spazio dell’incertezza.
Nel celebre caso di Perugia per esempio, il dato scientifico era quasi apodittico ed ogni consulente, sul medesimo rilievo, riusciva a trarre conclusioni opposte e contrastanti. Utilizzando le nuove metodologie questo non potrà avvenire: se viene rispettata la catena di custodia ed evitata la contaminazione post delictum, il dato emergente dalla traccia avrà una precisione ai limiti della certezza. Sarebbe tuttavia opportuno evitare che il dato scientifico sia utilizzato come prova “regina” posto che, per esempio, la presenza di tracce dell’indagato per omicidio sulla scena criminis non dimostra la condotta omicidiario dello stesso. È noto che nell’impianto processuale penalistico italiano è riconosciuta la c.d. prova critica ma ciò non toglie che l’utilizzo di una prova atipica, unita ad un ragionamento critico su una materia imperfetta non può far altro che alimentare l’incertezza e l’instabilità del sistema probatorio. In ambito di prova del DNA, dopo l’introduzione della banca dati e dell’accreditamento ISO 17025 si è apportata una vera rivoluzione, tale da rendere il dato scientifico altamente affidabile. In questo contesto, tuttavia, la maggior parte dei laboratori presenti sul territorio nazionale avrebbero difficoltà a lavorare posto che solo una minima parte di essi detiene l’accreditamento ISO 17025 su determinati accertamenti (come possono essere le tracce di DNA derivanti da misti biologici). Tale circostanza non può che rappresentare il discrimine tra un accertamento altamente affidabile ed un accertamento da “manovrare” con estrema attenzione. In questo passaggio e soprattutto in questa crisi della ricerca universitaria italiana, occorrerebbe formare professionisti dello “CSI” altamente competenti in modo da garantire, di guisa con gli standard di accreditamento, certezza e non approssimazione.
La formazione degli attori processuali è la svolta fondamentale per la vera comprensione della prova scientifica. Se nel sistema italiano si vuole incrementare l’utilizzo della prova scientifica bisogna imprescindibilmente aumentare la ricerca, legalizzare le professioni forensi e riconoscerle a livello accademico. Se vuole crearsi un virtuosismo di professionalità tale da poter dare preminenza alla prova scientifica bisogna vestire di legalità il titolo acquisito dal professionista e sostenerlo nella sua formazione. Tale possibilità è forse realizzabile coinvolgendo le istituzioni pubbliche e gli enti privati in modo da favorire la ricerca e istituzionalizzare l’attività forense, che oggi, in Italia e in Europa, è quasi completamente ferma. La prova scientifica è un traguardo, ma ancora bisogna capire come gestirla per poter cercare una verità processuale che sia sempre più vicina a quella storica.