di Simone Ferrari
La Corte d’Assise d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Livorno, riduceva la pena inflitta all’imputata S. ad anni 6 di reclusione, ritenuta l’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p., revocando anche la concessione della provvisionale a tutte le parti civili costituite e riducendo la condanna alle spese per la loro costituzione; confermava nel resto la sentenza di primo grado, che aveva affermato la responsabilità dell’imputata per i reati di cui agli artt. 609-bis, co. 2, n. 1, 609-septies, co. 4, n. 4, e 584 c.p. per aver costretto il marito G., in condizioni di grave alterazione per abuso di sostanze alcoliche, a subire atti sessuali violenti (consistiti nello strizzamento violento dei genitali e nella penetrazione anale mediante un porta-rotoli da cucina in marmo), provocandogli lesioni dalle quali derivava la sua morte.
Avverso la sentenza d’appello proponeva ricorso per cassazione l’imputata.
La Corte Suprema (Cass. pen., Sez. V, n. 18048/2018) rileva innanzitutto che la motivazione dei giudici d’appello ha centrato il punto di valutazione che costituisce il discrimine fra la condotta di omicidio preterintenzionale e quella di omicidio colposo, e cioè la sussistenza del dolo di percosse.
E difatti, ai fini del delitto di omicidio preterintenzionale, l’elemento psicologico consiste nell’aver voluto (anche solo a livello di tentativo) l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che costituisce solo la conseguenza diretta della condotta dell’agente.
Più precisamente, l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. pone una valutazione ex lege quanto alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto, ritenendo l’assoluta probabilità che da un’azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa.
Elementi essenziali dell’omicidio preterintenzionale sono, pertanto, “atti diretti” a percuotere e/o ferire; vale a dire, atti diretti ad esercitare una coazione fisica sulla persona (riconducibili alla previsione dell’art. 581 c.p. ovvero a quella dell’art. 582 c.p.), che abbiano, come fine ultimo, l’inflizione di una sofferenza, sia essa – nelle percosse – una sensazione di dolore o di fastidio, ovvero – nelle lesioni – una menomazione, anche temporanea, dell’integrità fisica.
In ogni caso, è richiesta una violenta manomissione della fisicità del soggetto passivo, attuata contro la volontà di quest’ultimo, sicché l’elemento psicologico del reato di percosse o lesioni è dato dalla coscienza e volontà di tenere una condotta violenta, tale da cagionare alla vittima una sensazione di dolore (nelle percosse) o una malattia (nelle lesioni).
Un siffatto elemento psicologico – e precisamente la volontà di provocare (quantomeno) una sensazione di sofferenza e dolore – è stato ragionevolmente ritenuto dal giudice d’appello nel caso di specie, rilevandosi come la condotta della ricorrente avesse avuto “intenti ritorsivi sul marito, per la rabbia conseguita alla delusione e umiliazione di aver scoperto che l’uomo preferiva una prostituta a lei”, altresì ubriacandosi e sperperando soldi in tal modo.
La Corte d’Assise d’Appello esclude, quindi, che la sodomizzazione fosse avvenuta nell’ambito di un rapporto consensuale, anche perché la stessa dinamica del fatto descritta dalla ricorrente nell’interrogatorio lascia pacificamente trasparire come i due coniugi non stessero avendo un rapporto sessuale. Invero, tutto si svolge in un contesto non già di azioni rivolte alla ricerca del piacere sessuale, seppur estremo e con modalità violente, bensì entro il diverso ambito di una rivendicazione e ritorsione della S. nei confronti della vittima, cui vengono rimproverati i tradimenti recenti e la ricerca di rapporti con donne diverse.
La sodomizzazione, pertanto, costituisce l’epilogo di un litigio o, meglio, di un rimprovero livoroso che la ricorrente rivolge al marito, il quale, ubriaco ed incapace di autodeterminarsi, subisce la violenza estrema senza rendersi conto effettivamente di quanto ella gli stesse facendo e senza la possibilità effettiva di opporsi.
L’azione di evidente manomissione della persona – poiché tale deve ritenersi in sé considerata la condotta in esame, consistita nell’introdurre nell’ano di un uomo un porta-rotoli in marmo di ben 30 centimetri – configura senza dubbio, quantomeno, il reato di percosse nella sua materialità oggettiva, ma le sue modalità di realizzazione rafforzano, altresì, anche gli elementi di riferibilità psichica del reato all’imputata.
La Corte d’Assise d’Appello focalizza la sua attenzione sulla volontà dell’imputata di fare del male al marito, di provocargli dolore per una sorta di rivalsa nei suoi confronti, attraverso il gesto di dominio sessuale della penetrazione anale, da lei abitualmente subita e, questa volta, invece, inflitta, con la volontà di far pagare al marito le condotte scorrette nei suoi confronti e, in particolare, il tradimento con la prostituta di poche ore precedente ai fatti e del quale la ricorrente si era avveduta. Tanto ciò è vero che la stessa sentenza riconosce alla ricorrente l’attenuante dello stato d’ira dovuto a fatto ingiusto della vittima, prevista dall’art. 62, n. 2, c.p.
Né rileva la qualità del dolo, poiché il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale.
In definitiva, deve ritenersi configurabile il reato di omicidio preterintenzionale nella condotta di chi, attraverso un gioco erotico di sodomizzazione, non già diretto a provocare piacere sessuale, bensì posto in essere per infliggere un dolore o una punizione, al di fuori di un rapporto consensuale, provoca la morte della vittima come conseguenza della volontà di manomettere l’altrui persona in modo violento.
Va altresì chiarito che nell’omicidio preterintenzionale l’omesso rispetto da parte della vittima delle cure e delle terapie prescritte dai sanitari non elide il nesso di causalità fra la condotta di percosse o di lesioni personali posta in essere dall’agente e l’evento morte, non integrando detta omissione un fatto imprevedibile od uno sviluppo assolutamente atipico della serie causale.
Nel caso di specie, nessuna eliminazione del nesso di causalità può conseguire dalla condotta di iniziale rifiuto di sottoporsi a ricovero e cure da parte della vittima. Infatti, l’art. 41 co. 2 c.p. prevede che il nesso causale fra la condotta dell’agente e l’evento può ritenersi interrotto solo quando le cause sopravvenute siano tali da essere state, per sé sole, sufficienti a determinare l’evento, escludendo in tal modo il rapporto di causalità fra la condotta dell’imputato (fatto remoto) e l’evento stesso, il quale, a questo punto, si collega direttamente (e solo) al fatto più recente.
Ora, venendo a mancare la condotta dell’imputata, nessuna esigenza di cura si sarebbe mai avuta e, pertanto, nessun rilievo ha, ai fini della configurabilità del reato, la condotta omissiva della vittima, ritenuta plausibilmente ininfluente rispetto alle conseguenze mortali derivanti dall’azione delittuosa che, in ogni caso, si sarebbero prodotte.
In conclusione, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.