Nell’ambito del XXXI Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia («Dalla parte delle vittime. La ricerca criminologica fra ambiente e territorio, individui e collettività»), tenutosi a Siena dal 26 al 28 ottobre 2017, ho avuto l’onore e la gioia di vincere il Primo Premio della Sessione Poster.
Il mio contributo, intitolato «Fra ambiente e paesaggio: le “archeomafie” e le aggressioni al patrimonio culturale subacqueo», riguarda segnatamente il problema della tutela del patrimonio culturale; problema caratterizzato da un’evidente interdisciplinarietà, capace di coinvolgere trasversalmente non solo i diversi settori dell’ordinamento giuridico, ma anche di investire questioni socio-culturali, storiche, politiche ed economiche. A ciò si aggiunge la proiezione della salvaguardia del patrimonio culturale nella dimensione sovranazionale: a tal proposito, il 3/5/17 il Consiglio d’Europa ha adottato una Convenzione di diritto penale volta a prevenire e combattere il traffico illecito e la distruzione di beni culturali.
Il termine “archeomafie” nasce dalla consapevolezza che il furto di beni culturali è solo il primo di una serie di passaggi che, attraverso attività organizzate per il traffico illecito di siffatti beni, porta questo patrimonio nelle ville di collezionisti privati e in musei stranieri. Le associazioni mafiose saccheggiano non solo la terraferma, ma anche i più indifesi fondali marini; del resto, essendo i beni archeologici sconosciuti fino al loro ritrovamento, non sono mai stati catalogati e sfuggono così alle ricerche degli investigatori. Sottrarre un reperto vuol pure dire compiere danni culturali irrimediabili: si decontestualizzano definitivamente le cose, creando delle lacune sul piano scientifico.
Il Mediterraneo custodisce numerosissimi relitti, con il loro carico di anfore e di opere d’arte. La mancanza di un’adeguata tutela espone questo patrimonio culturale a molteplici rischi: basti pensare, oltre alle “archeomafie”, all’inquinamento marino, ai cacciatori di relitti, alla pesca e al turismo subacqueo.
In merito all’intreccio fra ambiente e paesaggio/cultura, l’inquinamento marino può influire negativamente sulle condizioni di conservazione dei reperti archeologici, accelerando i processi di degenerazione dei relitti. Anche l’impatto della pesca sull’ambiente è diventato insostenibile: i danni più gravi sono provocati dalle reti a strascico, il cui effetto è devastante sia su flora e fauna (il pensiero corre al nuovo delitto di inquinamento ambientale), sia su eventuali antichi relitti e relativi carichi.
Le situazioni più delicate sono quelle dei Campi Flegrei, delle Isole Tremiti, di Isola di Capo Rizzuto e di Mazara del Vallo: è così nato il “Progetto Archeomar”, che ha censito, posizionato e documentato i beni archeologici sommersi delle Regioni italiane al fine di migliorare la tutela del patrimonio che essi rappresentano.
Dal punto di vista del diritto penale, la protezione del patrimonio culturale subacqueo è oggi affidata a talune fattispecie incriminatrici previste nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e nella L. n. 157/2009 (ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, adottata a Parigi il 2/11/01); ma le pene minacciate non sono per nulla severe (v. peraltro il DDL S.2864 sui reati contro il patrimonio culturale).
In questo contesto, il criminologo è chiamato – oltreché a formulare proposte per il legislatore – ad individuare le condizioni affinché i diversi operatori presenti (Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, MiBACT, archeologi marini, storici dell’arte, ecc.) possano incrociare le proprie competenze.