La sentenza di cui ad oggetto (Cass. pen., Sez. III, 3 maggio 2022, n. 17188), accogliendo il ricorso presentato dall’imputato, annulla, senza rinvio, quanto emesso in data 14 giugno 2021 dalla Corte di appello dell’Aquila (di conferma del decisum di primo grado – Tribunale di Chieti, 15 dicembre 2016) con cui si era provveduto a condannare il suddetto, ex art. 527, comma 2, c.p., per il compimento di atti osceni in luogo pubblico. L’organo di legittimità ha buon gioco a motivarsi nel verso indicato giacché la fattispecie di interesse, ora ipotesi base a fronte della sopravvenuta depenalizzazione del comma 1 del testé menzionato articolo, assume la rilevanza penale del fatto de quo solo laddove “commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori” qualora “da ciò derivi il pericolo che essi vi assistano”. Alla luce di precedenti consolidati, difatti e nondimeno, si è a più riprese sottoscritto che i luoghi in questione non debbono intendersi come spazi votati ad una frequentazione occasionale ad opera di under ages (tanto per esemplificare, una pubblica via di “transito”) piuttosto essi dovendosi ritenere, elettivamente e sistematicamente, caratterizzati dalla, e per la, presenza distintiva di soggetti minori di età.

Ulteriormente dettagliando, allora, “

[a]i fini della configurabilità del reato di cui all’art. 527 c.p., comma 2, i luoghi abitualmente frequentati da minori – al cui interno o nelle cui immediate vicinanze deve essere commesso il fatto – sono quelli riconoscibili come tali per vocazione strutturale (come le scuole, i luoghi di formazione fisica e culturale, i recinti creativi all’interno dei parchi, gli impianti sportivi, le ludoteche e simili), ovvero per elezione specifica, di volta in volta scelti dai minori come punto di abituale incontro o di socializzazione, ove si trattengono per un termine non breve (come un muretto sulla pubblica via, i piazzali adibiti a luogo pubblico, il cortile condominiale)” (richiamando ad litteram Cass. pen., Sez. III, 13 giugno 2017). Il che non era avvenuto nella vicenda oggetto di contestazione: gli atti di auto-erotismo imputati al signor D.T., per vero, erano stati mandati ad effetto all’interno della propria autovettura, parcheggiata sulla pubblica via, ad una distanza di 500 metri dalla scuola frequentata dalla persona offesa (distanza che, ragionevolmente, non poteva considerarsi “nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori”, del genere dell’edificio scolastico di provenienza della minorenne). Un’esemplare mancata riconducibilità/riconduzione della fattispecie concreta (il fatto storico) alla fattispecie astratta (la norma, nel caso di specie ‘penale’, di “copertura”) – una sussunzione non andata a buon fine, detto più raffinatamente -, laonde per cui.

Comunque sia la decisione suscita criticità già appuntando il focus eminentemente sui profili di rilievo penale-sostanziale. Alla luce di un indirizzo giurisprudenziale così “tetragono” (fra l’altro, e sia detto per inciso, la tranche de vie a fondamento di quanto oggetto di virgolettatura è in toto sovrapponibile a quanto declinatosi nel contesto di cui alla sentenza del 3 maggio u.s.) appare perlomeno curioso che, nei gradi precedenti dei giudizi di merito, non si sia inteso procedere alla riqualificazione giuridica del fatto ex art. 527, comma 1 o comma 2, c.p. Tanto più considerando che le fattispecie a cui attingere non difettano di certo: da un lato si pensi all’ipotesi contravvenzionale regolata dall’art. 660 c.p. (“Molestia o disturbo delle persone”) giusta cui è punito chiunque, “in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo” (le sottolineature evidenziando ciò che potrebbe mostrarsi rivelarsi funzionale ai nostri obiettivi); dall’altro al reato ex art. 609-quinquies, comma 1, c.p. (“Corruzione di minorenne”) ove si recita che è punito chiunque “compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere” [addirittura un caso precedente l’intervenuta depenalizzazione dell’allora fattispecie-base di atti osceni (cfr. art. 527, comma 1, c.p.), legittimava il concorso formale tra i due reati da ultimo evocati “se la condotta dell’agente non si limita ad offendere il pudore o l’onore sessuale, ma è posta in essere anche in modo da coinvolgere emotivamente la persona offesa”: v. Cass. pen., Sez. III, 23 gennaio 2009 (fattispecie in cui la condotta manifestava un intento a bene vedere esibizionistico, assai meno lesivo dell’interesse obiettivamente protetto dalla norma incriminatrice a fronte di quanto realizzatosi nella vicenda annotata in cui l’atto commesso risultava inequivoco – “a contenuto evidentemente sessuale”, dice la Cassazione del maggio scorso].

Nulla quaestio, al di là dell’alternativa sottoscritta ed al postutto, sulla dimensione oggettiva del fatto e sulle rationes che hanno indotto il signor D.T. a motivarsi nel verso censurato se, come en passant addotto dall’organo di legittimità, egli aveva richiamato (ora importa tampoco con quale “forma comunicativa” … ma a breve sul punto) l’attenzione della minore – trattasi pur sempre di una condotta volta ad “irretire” la predetta – laddove invece, qualora si accedesse alla seconda evenienza (“Corruzione di minorenne”), si dovrebbe ad abundantiam verificare se la persona offesa sia, o meno, infraquattordicenne (e sul punto è tutt’affatto di chiarimento la sentenza limitandosi essa ad affermare che la ragazzina G.T. è stata fatta oggetto di quella profferta indecente). Nondimeno quell’operazione – di riqualificazione giuridica del fatto – sarebbe stata perfettamente legittima risultando immutato nelle sue componenti essenziali (condotta; nesso di causalità; evento in senso naturalistico per i reati cosiddetti materiali; solo la prima per i reati cosiddetti formali) il fatto-storico variando in esclusiva la fattispecie astratta giusta cui sussumere il medesimo (beninteso, a patto che venga rispettata l’effettività di garanzia dei diritti difensivi come mirabilmente sottolineato dalla Corte EDU nel noto arrêt Drassich contro Italia dell’11 dicembre 2007). Arduo evincere le rationes a giustifica di tale modus procedendi (di mancata riqualificazione giuridica del fatto). Tacendo il giudice di legittimità è inopportuno “speculare”: sufficit avere “coltivato” un dubbio … e si muova oltre.

Per non essere ciononostante ingenerosamente accusati di essere depositari di un mal celato animus puniendi tentiamo di riscattarci valorizzando profili processuali, per nulla esplorati, se non a mero livello declamatorio, nella sentenza di cui a commento, la cui indagine avrebbe, con buona plausibilità, garantito una più compiuta esplicazione dei diritti difensivi in capo al signor D.T. Premessa necessaria (ma non sufficiente): quest’ultimo è affetto da sordomutismo – almeno così intendono gli “ermellini” senza punto considerare che, a far tempo dall’approvazione della l. 20 febbraio 2006, n. 95, “Nuova disciplina in favore dei minorati auditivi”, ogniqualvolta una disposizione legislativa reca ‘sordomuto’ il termine “è sostituito con l’espressione «sordo»” (cfr. art. 1, comma 1, l. cit.). Ciò sia perché, da un punto di vista socio-culturale, tale vocabolo riconduceva ad epoche in cui tali deficit erano forieri di emarginazione sia perché, e soprattutto, il progredire delle conoscenze in subiecta materia assicurano che quasi mai il mutismo origina, nell’evenienza di specie, da incapacità funzionali dell’apparato vocale quanto piuttosto dall’impossibilità di udire le parole classificando i suoni (i significanti) attribuendo loro il “valore” (i significati) che le convenzioni linguistiche impongono (altrimenti detto: non è postulabile, per proprietà transitiva, una connessione fisico-patologica tra sordità e mutismo). Dovendosi allora, in luogo, preferibilmente discorrersi di sordità congenita (dal momento della nascita); di sordità preverbale (con complicanze che intervengono prima dello sviluppo del linguaggio); di sordità periverbale (con problematiche ad emersione entro i 3-4 anni di vita ciò impattando sulle tempistiche di apprendimento del linguaggio); di sordità postverbale (i casi residui, in cui il “fenomeno” si manifesta dopo l’intervenuto apprendimento di un determinato linguaggio) – le riscontrate complicanze lasciano già prima facie intendere perché il legislatore si sia motivato per la mera sostituzione di un termine con un altro piuttosto che indicare, con maggiore acribia, i vari scenari prospettabili.

Comunque sia un ulteriore disposto, anch’esso “figlio” di una visione superata del reale (l’art. 96 c.p.) – i cosiddetti ‘sordomuti”’, stante le tecniche di recupero funzionale del loro handicap, non presentano più lacune relative alla percezione dell’esterno da sé – pur tuttavia equipara i medesimi ai soggetti affetti da vizio totale (art. 88 c.p.) o parziale (art. 89 c.p.) di mente dettando, all’uopo, che “[n]on è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità d’intendere o di volere. Se la capacità d’intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita”. Venendone allora che, stante l’indimostrata potenzialità di nesso fra minorazione auditiva e capacità di intendere e di volere, è demandato al giudice l’accertamento, caso per caso, della sussistenza, o meno, di quest’ultima.

Ora il ricorrente aveva investito la Corte di Cassazione di una pluralità di motivi uno dei quali proprio ad oggetto l’art. 96 c.p. (motivo erroneamente ricondotto, nella illustrazione di specie, all’omonimo articolo del codice di rito penale) – per vero non considerato, si anticipa, dall’organo di nomofilachia, ma non per questo solo immeritevole di adeguato spazio, una volta “testata” la “forza assorbente” della censura poi accolta ovverossia la violazione di legge per insussistenza del fatto-reato ex art. 527 c.p. (solo essa, difatti, avrebbe consentito, qualora sottoscritta, la liberatoria con formula ampia dall’addebito di cui al capo di imputazione). A tale riguardo ci si doleva nello specifico, benché ad esito di un percorso ricostruttivo non del tutto lineare giusta l’andamento logico-concettuale, del fatto che l’imputato, il quale era comunque stato affiancato da un interprete, “durante il processo per seguire una ragazza appena conosciuta si [era] trasferito in Ungheria” non potendo, quindi, “rendere dichiarazioni alla fine del dibattimento”. Essendo che, per i sordomuti, deve venire accertata caso per caso la loro capacità di intendere e di volere, nonostante specifica istanza avanzata al riguardo, “i giudici di merito”, dal canto loro, … “non [avevano] compiuto nessun accertamento, neanche per l’accertamento di un vizio parziale” (in quanto tale attenuante la responsabilità del prevenuto).

Finanche qui stupisce che non sia stato azionato lo strumento ad usum delphini predisposto alla bisogna, id est l’accompagnamento coattivo come disciplinato dall’art. 490 c.p.p. Certo … qui una maggiore chiarezza sarebbe opportuna giacché non è dato intendere se D.T. lamentasse l’impossibilità a rendere dichiarazioni (con buona evenienza spontanee) al termine del dibattimento – e qui nulla quaestio perché è lo stesso articolo da ultimo evocato a rappresentare, claris verbis, il divieto di innesto di quello “strumento di comparizione” al fine di esaminare l’imputato assente (nella vicenda di specie preordinatamente tale una volta dispostosi a seguire in “terra magiara” la ragazza di cui sopra) giacché, stante il noto brocardo nemo tenetur se detegere, posto che l’imputato non ha obbligo di rispondere né, tantomeno, di dire il vero, neppure si può ipotizzare che l’esame abbia o meno luogo (e ciò al di là della natura vincolata o spontanea del dichiarato). Ben diverso, invece, il quadro se la doglianza assumesse a nucleo costitutivo l’accertamento sullo, e dello, status mentis del prevenuto – se così fosse nulla meglio dell’accompagnamento coattivo potrebbe garantire l’effettività dello strumento preordinato a quel fine (ovvero della perizia psichiatrica in quanto di ciò tratterebbesi); venendo al riguardo confortati da un ormai non più prossimo ma ancora attuale leading case di cui al giudice di legittimità (Cass. pen., Sez. VI, 24 settembre 1996). “Il potere di ordinare l’accompagnamento coattivo dell’imputato per essere sottoposto a perizia psichiatrica nel dibattimento rientra tra quelli attribuiti al giudice dal codice di rito. A norma dell’articolo 224 comma secondo, il giudice dispone la citazione del perito e la comparizione delle persone sottoposte al suo esame ed adotta tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali; in questa ottica, conseguentemente, deve essere letto il primo comma dell’art. 132 c.p.p. che attribuisce al giudice il potere di ordinare l’accompagnamento coattivo dell’imputato, ma solo se la misura è prevista specificamente dalla legge. La norma va poi collegata all’art. 490 c.p.p. il quale prevede che l’accompagnamento coattivo possa essere disposto quando occorra assicurare la presenza dell’imputato per una prova diversa dall’esame: e tale è indubbiamente la perizia, finalizzata ad acquisire dati che richiedono specifiche competenze tecniche, e disciplinata tra i mezzi di prova”.

Last but not least l’apporto dell’interprete, nominato al signor D.T. oltre che richiamato nel nudo termine lessicale nella pronunzia de qua (i “gesti di maniera”, per l’appunto) – e qui si dischiuderebbe un mondo se solo se ne sapesse di più. La disposizione di riferimento è l’art. 119 c.p.p., prima facie dal contenuto “intonso” ma oggi esprimente una norma ben lontana da quanto ipotizzato dai codificatori. Il testo di legge, at face value, nella misura in cui persone incapaci di comunicare giusta gli ordinari moduli espressivi (sordi, muti, sordomuti) altresì non sapessero o leggere o scrivere, esigeva la nomina di uno o più interpreti, “scelti preferibilmente fra le persone abituate a trattare” con loro, ogniqualvolta costoro volessero, o dovessero, rendere dichiarazioni. Due pre-condizioni per l’operatività di quel supporto, di tal che: 1) l’eventualità/necessità di un flusso dichiarativo; 2) la condizione di analfabetismo di cui all’io narrante. Leggendo poi in combinato disposto con la versione originaria dell’art. 143 c.p.p. (ante modifiche apportate con d. lgs. 4 marzo 2014, n. 32, recante “Attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali”, tanto per intendersi) la sistematica del codice lasciava trasparire come il filtro di specie venisse a qualificarsi, nonostante l’emersione di un diverso “sentire” al riguardo, ancora sub specie di ausiliario del giudice piuttosto che di “consulente tecnico specializzato” del polo difensivo (ad argomento testuale il rinvio all’art. 119 del codice di rito penale operato dal secondo, e non dal primo, comma dell’art. 143 c.p.p. il quale ultimo riconosceva per explicans “all’imputato che non conosce la lingua italiana” il diritto “di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa”. Il primo alinea, invece, affiancava all’autorità procedente il suddetto “quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana” con ciò ribadendo la tradizionale veste di ausiliario del giudice in capo all’interprete).

L’insufficiente sensibilità manifestata nell’articolazione del disposto di cui all’art. 119 c.p.p. (su tutto si biasimava la difettosa equiparazione fra la tutela offerta all’imputato alloglotto come da ultimo segnalato e quella, assai più ridotta, garantita all’individuo affetto da patologie o all’apparato uditivo o all’apparato foniatrico) “precipitava” l’ormai indifferibile vocatio della Corte costituzionale la quale, con sentenza manipolativa emessa in data 14 – 22 luglio 1999, a numero d’ordine 341, ha infine dichiarato la non conformità a precetto dell’articolo summenzionato “nella parte in cui non prevede che l’imputato sordo, muto o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia o meno leggere e scrivere, ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui, al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa”. Da ciò due corollari: a) il superamento del discrimen fra alfabeti ed analfabeti; b) tenuto conto delle “esigenze di comprensione e di comunicazione proprie dell’imputato per l’intero decorso del processo e non nelle sole ipotesi in cui egli debba o voglia rendere dichiarazioni” l’intervento dell’interprete risulta “emancipato” dalla necessità, dovuta o voluta, del flusso dichiarativo con ciò assicurandosi quel continuum di partecipazione alla dialettica giudiziale stante cui è dato garantire l’effettività del diritto di difesa come costituzionalmente tutelato. Resta salva, invece, la clausola preferenziale giusta cui, nelle evenienze de quibus, in prima battuta si dovrebbe fare rinvio, per la nomina, a soggetti che, abitualmente, si interfacciano con quegli specifici “parlanti” (ciò alla luce della maggiore familiarità che costoro sviluppano nel trattare o con il sordo o con il muto o con il cosiddetto ‘sordomuto’ onde comprenderne il linguaggio nonché decifrarne l’atteggiarsi comunicativo). Pur tuttavia il radicamento di lingue settoriali ad hoc (L.I.S. ovvero lingua italiana dei segni – ve ne sono a “bizzeffe”, in pratica in ogni Stato affluente – e L.I.S.T. ovvero lingua italiana dei segni tattili, preferibilmente invalsa fra i sordociechi) descrive rebus sic stantibus l’obsolescenza della norma del codice in parte qua … e consente qualche riflessione sull’attualità.

Rebus sic stantibus, sul territorio nazionale, si contrappongono due filoni di pensiero, due “culture”, oseremmo dire, tali da determinare un’autentica spaccatura nella comunità nostrana dei minorati auditivi: ‘oralisti’ vs. ‘segnanti’. Il punto di maggiore frizione, una vera e propria “guerra di religione”, a bene vedere, attiene proprio alla lingua da privilegiare all’obiettivo di garantire “attitudine comunicazionale” ai summenzionati. Sul presupposto, condiviso, che le abilità linguistiche, per svilupparsi pienamente, richiedono l’esposizione stabile e precoce (da zero a tre anni) ad una lingua, il disaccordo muove dall’individuazione di quest’ultima: per gli ‘oralisti’, almeno nei primi anni di vita, solo quella vocale (e questa è la linea adottata dalla maggior parte delle strutture sanitarie italiane); per i ‘segnanti’ sia quella or ora evocata sia quella, ça va sans dire, dei segni di modo che, al postutto, l’infante crescerà bilingue. Al di là delle divisioni riscontrabili al proposito nel contesto medico-scientifico, lo scarto fra i due orientamenti nasconde una diversa rappresentazione identitaria. Tanto per esemplificare, ma il discorso è ben più ampio di quel che si può impostare in queste brevi “notule”, per gli ‘oralisti’ il riconoscimento della L.I.S. come lingua dei sordi ricondurrebbe all’art. 6 Cost. ove giustappunto si tutelano le minoranze linguistiche – ma, si soggiunge, non senza un fondo di ragione, che una comunità non può fondarsi su di una disabilità; per i ‘segnanti’, a controcanto, proprio il riconoscimento della L.I.S come lingua “ufficiale” fa sì che la sordità non venga percepita in esclusiva come patologia bensì, se non soprattutto, come “modo d’essere” comunitario. Deafness – sordità come patologia – in antitesi a deafhood – sordità come condizione identitaria -, a sintesi finale.

Prospettive affascinanti ma che, comunque sia, debbono fare i conti con il momento normativo. E recentemente, sul punto, i ‘segnanti’ hanno ottenuto significativo credito in quanto l’art. 34 ter d.l. 22 marzo 2021, n. 41, recante “Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19”, convertito, con modificazioni, in l. 22 maggio 2021, n. 69 (cosiddetto ‘decreto ristori’), riconosce, promuove e tutela la lingua italiana dei segni (L.I.S.) nonché la lingua italiana dei segni tattili (L.I.S.T.). Ad ulteriore implementazione di quanto testé asserito il primo periodo del comma 2 del medesimo articolo soggiunge che “[l]a Repubblica riconosce le figure dell’interprete in LIS e dell’interprete in LIST quali professionisti specializzati nella traduzione e interpretazione rispettivamente della LIS e della LIST, nonché nel garantire l’interazione linguistico-comunicativa tra soggetti che non ne condividono la conoscenza, mediante la traduzione in modalità visivo-gestuale codificata delle espressioni utilizzate nella lingua verbale o in altre lingue dei segni e lingue dei segni tattili”. Viene poi rimessa ad un decreto o del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro per le disabilità, di concerto con quello dell’Università e della Ricerca, da adottarsi entro novanta giorni dall’entrata in vigore della l. n. 69/2021, l’individuazione dei percorsi formativi per l’accesso alle professioni di interprete in L.I.S. e di interprete in L.I.S.T. altresì definendosi le norme transitorie per chi esercita le medesime professioni al momento di entrata in vigore della legge de qua. Ottemperando con l’usuale souplesse agli “inviti” provenienti dal legislatore primario in data 10 gennaio 2022 i dicasteri interessati hanno emanato il decreto attuativo (nondimeno pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo il 6 aprile u.s.: sic!) “Disposizioni in materia di professioni di interprete in lingua dei segni italiana e lingua dei segni italiana tattile” i cui contenuti mirano ad ulteriormente esaltare il ruolo professionalizzante di quegli operatori (su tutto va rimarcata l’istituzione, una volta tanto non a “costo zero”, del Corso di laurea sperimentale ad orientamento professionale in interprete in L.I.S. e in L.I.S.T. oltre che l’istituzione, a muovere dal 1° gennaio 2024, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dell’elenco ufficiale degli interpreti in L.I.S. e in L.I.S.T.).

Di questo effervescente dibattito non v’è traccia veruna nella pronunzia annotata (benché la riscontrata sequenza normativa abbia preceduto finanche la data di udienza della medesima – tenutasi il 27 gennaio 2022 -) i giudici di Cassazione limitandosi a dire, freddamente, che al signor D.T. era stato nominato un interprete. Beninteso: costui non può certo dolersi dell’esito ottenuto a fronte dell’accoglimento del presentato ricorso (giusta cui si annulla la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste) ma questo “mondo sommerso” non può più essere ignorato sempre che si voglia che le effettività di tutela siano da ultimo conquistate e non solo un quid a cui ancora concitatamente tendere.