Pochi giorni or sono (per la precisione, il 7 aprile u.s.) la Corte europea dei diritti umani ha, una volta di più, condannato l’Italia ad esito di una drammatica vicenda riconducibile a ciò che, con espressione non felicissima, viene a qualificarsi come “femminicidio” (quantunque nell’evenienza di specie ad oggetto dell’episodio criminoso non si “fissasse” la donna “battuta” bensì il figlio, infante di un anno, della medesima). A fronte del susseguirsi, vieppiù incontrollato, di esplosioni di violenza, sempre più ravvicinati nel tempo, il signor N.P., affetto da turbe mentali e già “attenzionato” dalle forze dell’ordine per precedenti intemperanze nei confronti dell’ex compagna, in data 14 settembre 2018 determinava, volontariamente, la morte del figlio di cui sopra nonché attentava alla vita della figlia maggiore, di sette anni di età, nonché della sua convivente, madre di entrambi i minori.

Annalisa Landi, queste le generalità della sventurata persona offesa, nonostante l’aggressore fosse stato condannato a vent’anni di reclusione in primo grado (non si hanno informazioni con riguardo alle eventuali, successive, impugnazioni) per l’omicidio del figlio, per tentato omicidio nei suoi confronti e per i costanti maltrattamenti, ricorre innanzi alla Corte EDU lamentando una violazione dell’art. 2 (Diritto alla vita) e dell’art. 14 (Divieto di discriminazione) della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (d’ora innanzi, per acronimo, CEDU) ottenendo “ristoro”, nello specifico, in esclusiva giusta il primo profilo.

L’instante, facendo valere le “manchevolezze” di cui allo Stato italiano ad oggetto le obbligazioni “positive” di cui all’art. 2 CEDU, si doleva del fatto che quest’ultimo avesse evitato di adottare tutte le misure necessarie alla protezione della sua vita e di quella dei figli minori. Nel dettaglio, a dire della signora Landi, venivano ad evidenziarsi numerosi indici sintomatici che avrebbero dovuto condurre le autorità ad agire giusta il fondato motivo di ritenere che N.P. avrebbe posto in essere un atto irreparabile. Lo status vivendi ac familiaris della ricorrente, per vero, era stato incomprensibilmente sottovalutato: nonostante una pluralità di denunce stante gli abusi di cui era stata fatta oggetto, e nonostante i ripetuti solleciti di cui all’Arma dei Carabinieri, a più riprese testimone diretta degli scoppi d’ira dell’abusante, l’autorità giudiziaria (id est, il pubblico ministero) era rimasta sostanzialmente inerte non accedendo all’invito a richiedere una misura cautelare (in primis, quella dell’allontanamento dalla casa familiare ex art. 282 bis c.p.p. e a seguire, alla luce dell’escalation delle violenze, quella della custodia cautelare, auspicabilmente in luogo di cura a mente dell’art. 286 c.p.p.) venendone che Annalisa Landi, in buona sostanza, era rimasta inascoltata – “minimizzazione” tanto più grave una volta considerato che erano ben noti all’“ufficio” i precedenti penali di N.P. Ed anche i presidi sanitari avevano dimostrato insufficiente sensibilità: lo psichiatra “personale” di quest’ultimo, infatti, aveva ricondotto le aggressioni de quibus ad una mera divergenza di vedute fra coniugi finanche addirittura consigliando, all’esaurirsi di una fase di ospedalizzazione del prevenuto, una riunione della coppia presso il domicilio “condiviso” onde facilitare il buon esito della terapia a cui N.P. sottostava – e ciò nonostante una perizia psichiatrica evidenziasse la pericolosità sociale di quest’ultimo al punto che egli, stante la riscontrata patologia (difficoltà nel controllo delle pulsioni e, soprattutto, disturbo bipolare della personalità), avrebbe dovuto venire costantemente “monitorato” alla luce di un individualizzato programma terapeutico.

La Corte strasburghese, facendo leva sulla sua consolidata giurisprudenza (above all sul leading case Kurt v. Austria, risolto da una “divisa” Grande Camera in data 15 giugno 2021), rammenta gli steps che debbono essere percorsi, e se del caso soddisfatti, onde “mandare ad effetto” l’obbligazione “positiva” di cui all’art. 2 CEDU finalizzata ad assumere le doverose “misure preventive operazionali” (mesures opérationelles preventives) per garantire il diritto alla vita laddove la sopravvivenza sia minacciata da condotte illecite altrui. Di tal che, 1a) le autorità devono reagire immediatamente a seguito dell’allegazione di episodi di violenza domestica (immédiateté de la reaction des autorités); 2a) ciò posto esse debbono condurre una valutazione del rischio (risk assessment) che, soprattutto, si mostri proactive ovvero che sia diretta a prevenire situazioni, tendenze o problemi futuri in modo da pianificare anticipatamente le azioni opportune a contrasto; 3a) rebus sic stantibus le autorità debbono stabilire se esista un rischio reale ed immediato (immédiateté du risque) per la vita di coloro che sono destinatari di violenze domestiche tenendo in opportuna considerazione il contesto peculiare di cui al manifestarsi di quelle ultime; 4a) da ultimo, alla luce del vaglio affermativo dei rischi evocati sub 2a) e 3a), debbono adottare le misure preventive de quibus in modalità adeguata, nonché proporzionata, al grado di rischio constatato.

Il giudice dei diritti umani ha “gioco facile” nel sottoscrivere l’istanza avanzata dalla signora Landi di risulta condannando lo Stato italiano per violazione dell’art. 2 CEDU. 1b) Se difatti i carabinieri si sono dimostrati particolarmente diligenti nell’indagare le “grida di allarme” della denunciante del pari non può dirsi dell’organo di accusa. A fronte della prima plainte depositata nel 2015, e nonostante l’apertura di un fascicolo per atti persecutori (art. 612 bis c.p.) a carico di N.P., l’organo requirente immotus stetit per quattro mesi, fra l’altro senza mai sentire la vittima del reato e senza mai accedere alle sollecitazioni provenienti dalle forze dell’ordine acciocché venisse a richiedersi una misura cautelare – inoltre gli accertamenti si interruppero a seguito della remissione della querela in temporibus presentata. Idem avvenne nel 2018 con riguardo all’ultimo episodio di rilievo antecedente l’esito tragico di cui al settembre di quel medesimo anno: in un film già visto, mentre i carabinieri sottolineavano la necessità del ricorso ad una misura cautelare più afflittiva, id est privativa, e non più solo limitativa della libertà personale, del genere della custodia cautelare, possibilmente in luogo di cura ex art. 286 c.p.p., il pubblico ministero, qualificate al “ribasso” le condotte delittuose di specie (art. 572 c.p., a Rubrica “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”), del pari giammai ascoltò la signora Landi né si motivò per la somministrazione di un provvedimento de libertate. Sul punto la Corte icasticamente epiloga che “i procuratori della Repubblica che avrebbero per missione” (la sottolineatura è nostra) di apprezzare codeste segnalazioni nel caso di specie non hanno fatto prova dell’opportuna diligenza esatta al riguardo”; 2b) “una volta informato dei precedenti … di N.P. l’ufficio della procura non ha mostrato … di avere preso coscienza del carattere e delle dinamiche specifiche della violenza domestica quantunque tutti gli “indici sintomatici” fossero presenti, dall’escalation delle manifestazioni violente alle minacce profferte, dalle reiterate aggressioni allo stato mentale del “torturatore”. Nessuna attività “proattiva”, di tal che e desolatamente, può ritenersi essere stata “messa in campo”; 3b) di conseguenza, benché alla luce delle tranches de vie esposte, le autorità competenti avrebbero dovuto quantomeno rappresentarsi l’esistenza di un pericolo reale ed immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli, nulla è stato operativamente disposto; 4b) last but not least, al cospetto di una “panoplia” di misure “preventive” nella loro disponibilità, le autorità, che avrebbero potuto coinvolgere nel quadro di riferimento i servizi sociali e gli psicologi nonché ricoverare la signora Landi ed i figli minori presso un centro antiviolenza, si sono astenute dal porre in essere le misure necessarie onde “stornare” il rischio, poi purtroppo tradottosi in ineluttabile realtà, di passaggio all’atto di ciò che, sino a quel momento, N.P. aveva solo minacciato. E ciò tanto più sottolineando che le azioni de quibus debbono concretizzarsi a prescindere dalla formalizzazione di una querela, dall’eventuale remissione di essa e dalla mutata percezione dell’effettività del rischio incombente in capo alla persona offesa (la signora Landi, a più riprese, aveva sperato in un ritorno alla “normalità” del suo compagno giusta momenti di regressione della patologia ad egli diagnosticata).

Esito infausto riceve, invece, la censura ad oggetto la violazione dell’art. 14 CEDU sollevata da Annalisa Landi giusta l’argomento per cui, se è indubbio che lo Stato italiano ha apprestato un vasto campionario normativo a tutela delle vittime del cosiddetto femminicidio, dette leggi restano nondimeno “lettera morta” una volta osservato che, nella prassi, le autorità si “ritraggono” dall’intervenire operosamente con ciò manifestando un pregiudizio di genere nei confronti delle donne. Anche qui la Corte ricorda la propria giurisprudenza (cfr. Volodina v. Russia) di modo che, Ia) se il ricorrente dimostra l’esistenza di “linee di indirizzo” che si caratterizzano per impatto discriminatorio avverso gruppi, per così dire, “protetti” spetterà all’ordinamento convenuto garantire che la riscontrata differenza ha fondamento e, soprattutto, che lo Stato ha posto in essere misure correttive onde bilanciare il surplus evidenziato; IIa) se tale dimostrazione fosse, a contrario, impossibile o non riuscisse competerà a “chi dice” segnalare la parzialità delle autorità che procedono (il cosiddetto intento discriminatorio). Ciononostante, secondo la Corte, (Ib) se è ben vero che gli uffici della procura hanno eternato nel tempo condotte omissive sottovalutando i fatti di causa (il che, non per nulla, giustifica l’accoglimento del ricorso in parte qua art. 2), del pari i carabinieri accorsi sul luogo delle violenze perpetrate hanno invece agito pro-attivamente a fronte delle richieste di aiuto di cui alla signora Landi – con ciò, alquanto curiosamente, sia consentito soggiungere, giungendo a bilanciare la mancanza di “sensibilità istituzionale” in capo agli organi dell’accusa (altrimenti detto la ricorrente non si è mostrata in grado di soddisfare, adducendo un principio di prova, l’onere dimostrativo di cui all’impatto discriminatorio: manca, quindi, la verifica “affermativa” di una dèfaillance sistemica imputabile allo Stato italiano). Ciò premesso IIb) è immediato evincere che quanto denunziato, comunque sia, non può essere ritenuto, in sé e per sé, alla stregua di un’attitudine discriminatoria (il cosiddetto intento di cui sopra) da ascrivere ai responsabili delle indagini.

E ciò basti con riguardo all’ârret Landi i cui esiti possono ritenersi condivisibili, perlomeno avendosi riguardo a quanto deciso sul versante dell’art. 2 CEDU. Nondimeno non sarà sfuggito ai lettori più avveduti come l’acme della indagata violence spree abbia “declinato” il proprio tragico epilogo all’incirca un anno prima della pubblicazione, in Gazzetta Ufficiale, della l. 19 luglio 2019, n. 69, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” (invalsa, nell’uso comune, come “codice Rosso”). Salutata con grandi aspettative la normativa de qua non ha per vero rispettato del tutto gli intendimenti prefissatisi se è vero che nel 2021, a fronte di 295 omicidi volontari perpetrati, tra le vittime dei medesimi “118 sono donne, di cui 102 assassinate in ambito familiare/affettivo ed in particolare 70 per mano del partner o ex partner” (così la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, tenuta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, dottor Pietro Curzio, il 21 gennaio 2022).

Alla luce delle criticità de quibus urge allora una riflessione sulla tenuta della normativa di settore, anche se non soprattutto facendo riguardo agli input provenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo e ben evidenziati nella decisione oggetto di interesse ovvero stante la necessità di sopperire ai deficit emersi valorizzando “misure preventive operazionali”. A tali limiti dovrebbe rimediare, qualora venisse approvato, un disegno di legge (d.d.l. A.S. 2530), a firmatarie congiunte le Ministre per le pari opportunità e la famiglia (BONETTI) dell’interno (LAMORGESE) e della giustizia (CARTABIA), comunicato alla Presidenza del Senato il 16 febbraio 2022 e calendarizzato per la discussione innanzi alla Commissione giustizia di quell’Assemblea a muovere dal 13 aprile c.a. (novità già preannunziata ad esito di una conferenza stampa delle Ministre di sesso femminile dell’esecutivo Draghi in data 3 dicembre 2021), dall’inquietante Rubrica “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica” (salvo errori e/o omissioni di chi scrive, infatti, dovrebbe trattarsi della prima occasione in cui, in luogo dell’ormai adusato “violenza di genere”, si imprime “violenza nei confronti delle donne” con ciò conclamandosi, e sia detto senza alcun intento polemico, una vera e propria reverse discrimination). Intendendosi la locuzione di cui sopra – “misure preventive operazionali” – lato sensu il provvedimento ad oggetto, oltre a lambire molteplici ulteriori settori disciplinari (dall’attività preventiva propriamente detta al cosiddetto codice antimafia fino ad interventi sul codice penale sostanziale), vorrebbe incidere, nello specifico del codice di rito penale, su situazioni che attengono al macro-settore della libertà personale, sia sub specie di misure cautelari che di misure pre-cautelari. Dettagliando al riguardo giusta, nondimeno, una “grammatica espositiva” non sempre di agevole lettura:

A) individuazione di una ulteriore tipologia di fermo stante il nuovo comma 1 bis 384 c.p.p. ove si descrive un “ibridismo” stante cui, anche al di fuori dei casi di flagranza, il pubblico ministero e, prima che quest’ultimo abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria dispongono “il fermo della persona gravemente indiziata di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 582 e 612 bis del codice o di delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona per il quale la legge prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, quando sussistono specifici elementi per ritenere grave e imminente il pericolo che la persona indiziata commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, quando non è possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del giudice” – inedito che potrebbe qualificarsi come ‘fermo a tutela della collettività’

[art. 6, comma 1, lett. a), d.d.l. A.S. 2530];

B) possibilità di ricorrere ad una misura coercitiva anche al di fuori dei limiti di pena di cui agli artt. 274, comma 1, lett. a e 280 del codice di rito penale laddove si sia provveduto all’arresto obbligatorio in flagrante delicto giusta una delle evenienze qualitativamente indicate ex 380, comma 2, c.p.p. nonché al verificarsi delle condizioni legittimanti il ‘fermo a tutela della collettività’ di cui all’art. 384, comma 1 bis, c.p.p. [il novum, pragmaticamente discorrendo, muove dalla subentrata obbligatorietà dell’arresto in flagranza per il delitto di cui all’art. 387 bis c.p. – “Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (cfr. art. 380, comma 2, lett. l ter c.p.p.) –, come frettolosamente sancita dall’art. 2, comma 15, l. 27 settembre 2021, n. 134, recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo  penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, cosiddetta riforma Cartabia, il cui “ridotto” editto sanzionatorio – pena fissata, nel massimo, a tre anni – non consentiva il ricorso a misure cautelari venendone che, una volta procedutosi a convalidare la misura pre-cautelare di specie, si sarebbe dovuto agire per l’immediata liberazione del ristretto de libertate] [art. 3, comma 1, lett. c) d.d.l. A.S. 2530];

C) incentivazione del ricorso a mezzi elettronici di controllo (cosiddetto braccialetto elettronico) “liberandone” l’utilizzo dalla previa verifica, ad opera del giudice cautelare, della disponibilità del medesimo in capo alla polizia giudiziaria (ciò una volta osservato, come da Relazione tecnica di accompagnamento al d.d.l. cit., come la dotazione di quelli sia di gran lunga superiore rispetto alle attivazioni operate) [art. 2, comma 1, lett. a) d.d.l. A.S. 2530];

D) revoca degli arresti domiciliari, a fronte della trasgressione alle prescrizioni imposte, e consequenziale sostituzione con la custodia cautelare intra moenia, non solo in caso di allontanamento dal luogo di sottoposizione ai predetti ma anche nel caso di manomissione dei mezzi elettronici summenzionati, mezzi che, fra l’altro, diverrebbero operativi finanche laddove si ricorresse, cautelarmente parlando, alle misure dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa [art. 2, comma 1, lett. b) d.d.l. A.S. 2530];

E) ampliamento del ricorso alla misura cautelare di cui all’art. 282 bis del codice di rito penale al di fuori dei limiti di pena edittale ex 280 c.p.p. altresì per il tentato omicidio e, inoltre, previsione dell’applicazione, “anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo anzidette” (sempre il braccialetto elettronico) [art. 2, comma 1, lett. c) d.d.l. A.S. 2530];

F) possibilità del ricorso alla misura cautelare di cui all’art. 282 ter c.p.p., al di fuori dei limiti edittali censiti sub lettera E), per il novero dei reati elencati all’art. 282 bis stesso codice con ciò sanandosi un incomprensibile, ed inopportuno, difetto di coordinamento fra le due disposizioni da ultimo evocate oltre che garanzia dell’applicazione, in parallelo con quanto significato alla lettera E), “anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo anzidette” (sempre il braccialetto elettronico) [art. 2, comma 1, lett. d) d.d.l. A.S. 2530];

G) inoperatività dei limiti edittali, ex 275, comma 2 e 280, comma 3 bis, quest’ultimo di nuovo conio, c.p.p., per l’applicabilità delle misure cautelari coercitive finanche avendo riguardo alle ipotesi di lesioni personali aggravate a mente delle norme ivi di richiamo [art. 3, comma 1, lett. a) e b) d.d.l. A.S. 2530].

A margine preme ancora segnalare, da un lato, il coordinamento delle extravaganti disposizioni ad oggetto (cfr. i vigenti articoli 90 ter, comma 1 bis e 659, comma 1 bis, c.p.p.) le comunicazioni che debbono effettuarsi alla persona offesa a seguito del venir meno di provvedimenti limitativi/restrittivi della libertà personale, comunicazioni che, nell’ipotesi di approvazione del d.d.l. evocato, dovranno indirizzarsi finanche al Questore e al Prefetto, secondo le risultanze di legge, al fine di valutare l’opportunità dell’adozione di eventuali misure di prevenzione e/o protezione nei confronti della vittima (cfr. il combinato disposto degli artt. 5 e 9 d.d.l. A.S. 2530), dall’altro, a fronte dell’“emergenza” di situazioni di concreto e rilevante pericolo per l’incolumità delle vittime di violenza domestica, la possibilità di fare ricorso ad eventuali misure di cosiddetta vigilanza dinamica ovverosia l’attivazione di sorveglianza in forma mobile e continuativa, posta in essere da una o più autopattuglie, nei pressi dell’abitazione dell’offeso dal reato e/o dei luoghi da quest’ultima frequentati (v. art. 11 d.d.l. summenzionato).

Da ultimo due annotazioni critiche la prima riconducendo ad opzioni di metodo. Inquieta, a fronte di un quadro di crescente drammaticità – i “reati predatori domestici” hanno registrato un incremento esponenziale negli ultimi anni, anche se non soprattutto a seguito delle misure di contenimento adottate per fronteggiare l’epidemia da SARS-CoV-2 [allargando di poco il quadro temporale di riferimento negli ultimi 4 anni si segnalano circa 40.000 casi di maltrattamenti l’anno, oltre 20.000 casi di stalking, quasi 8.000 casi di violenza sessuale, circa 3.000 violazioni del divieto di avvicinamento alla persona offesa, oltre 1.000 casi di revenge porn, oltre 2.000 ammonimenti questorili, oltre 70 omicidi l’anno commessi in ambito familiare/affettivo: così la Relazione di analisi di impatto della regolamentazione (AIR) come allegata allo schema di d.d.l. citato] -, verificare che il legislatore, in luogo del ricorso alla decretazione di urgenza, abbia prescelto la “via ordinaria” onde regolamentare i suindicati profili: se non ora quando la “dimensione” di straordinarietà che giustifica l’esecutivo ad adottare, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge ex art. 77, comma 2, Cost. D’altro canto, se è pur vero che il disegno di legge in questione, volutamente o per mero accidente, “manda ad effetto” gli input di cui alla sentenza Landi in tema di “misure preventive operazionali” (sarà una coincidenza ma l’istanza di specie viene portata all’ordine del giorno dinnanzi alla Commissione giustizia del Senato neppure a far tempo da una settimana dall’emanazione di quell’ârret), è del pari innegabile che il progetto riformistico avrebbe potuto mostrarsi più ambizioso. Su tutto, si sarebbe definitivamente potuto “sciogliere” quel nodo problematico che caratterizza il versante processuale di cui al codice Rosso ovverossia la visuale miope stante cui si impone una “corsia preferenziale” per le indagini ad oggetto i reati de quibus agitur ma nulla dettandosi per il futuro giudizio – come se, per valorizzare una metafora automobilistica, si predisponesse un warm up (si “scaldassero le gomme”) e, poi, non si utilizzasse il circuito procrastinando la “gara”, come del resto il processo, a data da destinarsi.

“Codice Rosso” o “Allarme Rosso”, al postutto? Dilemma irrisolto tanto più osservando che finanche quanto avviato configurerebbe l’ennesimo make-up teorico, l’usuale “costo-zero” a regime, stante la clausola di invarianza finanziaria esplicitata all’art. 13 d.d.l. cit. (“Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono all’attuazione dei compiti derivanti dalla presente legge con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”).