Recentemente, in più di un quotidiano a diffusa copertura nazionale (v., per tutti, l’articolo, dall’emblematico titolo “Bavaglio Cartabia: uccide il diritto di cronaca”, di cui al “Fatto Quotidiano” del 13 aprile u.s., notizia poi rilanciata da ulteriori fonti), sono apparsi commenti al “vetriolo” ad oggetto un supposto imbavagliamento della libertà di informazione a fronte di veicolazioni di dati di conoscenza presso le Procure della Repubblica. E ciò, ci si premura con acredine a soggiungere, “in ottemperanza alla riforma Cartabia” inoltre con mal riposto sprezzo chiosando che “è la riforma Cartabia, bellezza, e tu non puoi farci niente”. Trattandosi, nondimeno, di problematica che riconduce al delicato equilibrio fra interessi meritevoli di equi-considerazione – la segretezza/riservatezza delle indagini, da un canto, l’utilità sociale e la verità oggettiva nonché la forma civile di quanto esposto ovverossia, con riguardo a quest’ultimo profilo, la cosiddetta continenza, dall’altro (leitmotiv ricorrente in giurisprudenza detta augurabile sobrietas: ex multis cfr. Cass. civ., sez. III, 18 ottobre 1984, n. 5259) è giocoforza fare doverosa chiarezza acciocché la stigmatizzata deriva autocratica (giusta la paventata “mordacchia” agli organi di stampa) non faccia piuttosto velo ad una cattiva informazione o, peggio ancora, ad una disinformazione vera e propria.

Vi sono alcuni indici che paiono orientare ad antitesi della rappresentata criticità, quantomeno per come impostata nel menzionato “libello”. Innanzitutto l’ossessiva geremiade avverso la cosiddetta riforma Cartabia (nel dettaglio d. lgs. 10 ottobre 2022, recante “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”), qui, non ha ragione veruna di sussistere. Invero le modifiche apportate al d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, recante “Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150”, nei riguardi delle quali si appuntano gli “strali” degli organi di informazione di cui supra, oltre che l’art. 115-bis c.p.p., dalla significativa Rubrica “Garanzia della presunzione di innocenza”, al di là, per ora, dei loro contenuti oscuri, trovano esplicitazione normativa in un diverso provvedimento ovvero nel d. lgs. 8 novembre 2021, n. 188, dalla chilometrica Rubrica “Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. L’atto sovranazionale, a sua volta, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUUE), del giorno 11 marzo 2016, a numero d’ordine L 65, “entra

[va] in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione” in quella raccolta (id est il 31 marzo 2016) (cfr. art. 15 Direttiva cit.); rebus sic stantibus agli Stati firmatari era dato tempo fino al 1° aprile 2018 onde mettere “in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi” (così l’art. 14, comma 1, primo alinea, primo periodo, Direttiva cit.). Pur tuttavia, con sfrontata prosopopea, in temporibus il Governo italiano non si riteneva vincolato dai consideranda e dagli articoli di cui alla Direttiva di riguardo in quanto, a suo modo di intendere, la normativa nazionale appariva già conforme agli standards minimi individuati nel provvedimento euro-unitario – e ciò nonostante le costanti, ed identificate, violazioni della presunzione di innocenza. Ad ineluttabile “legge del contrappasso”, nondimeno, la Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull’attuazione della Direttiva (UE) 2016/343 summenzionata – resa disponibile il 31 marzo 2021 – biasimava l’aggiramento dei “chiari” disposti degli artt. 4 (Riferimenti in pubblico alla colpevolezza) e 5 (Presentazione degli indagati e imputati) della medesima nello specifico fornendo notizia che “la legislazione di soli sei Stati membri è pienamente conforme all’articolo 4, paragrafo 1” al contempo registrando “problemi di conformità in 19 Stati membri, rendendo questa disposizione la più problematica”. Stante l’in allora ormai quasi certo ricorso alla procedura di infrazione ex art. 258 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (d’ora in innanzi, per acronimo, TFUE) – “La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia dell’Unione europea” –, ed alla consequenziale apertura del contenzioso davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CJUE) – una vera e propria verifica dell’inadempimento che si traduce, ad esito affermativo, in una penalità giornaliera (per l’Italia la penalità di mora giornaliera minima equivale a 8.505,11 €) od in una somma forfettaria (quella minima, sempre per l’Italia, assomma a 7.038.000 €) – giusta il testo dell’art. 260 TFUE, la l. 22 aprile 2021, n. 53, recante “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2019 – 2020 ”, ha, giustappunto, delegato, fra l’altro, al recepimento della Direttiva oggetto di Nostro interesse [v. art. 1, comma 1, l. ult. cit., nella parte in cui rinvia all’Allegato A, n. 1) in coda alla medesima]. Ebbene: nella finestra temporale in questione, ovverossia dal 31 marzo 2016 al 1° aprile 2018, era Ministro della Giustizia Andrea Orlando, in prima battuta titolare del dicastero sito in via Arenula nel Governo Renzi e, poi, a seguire, ancora Guardasigilli nell’immediatamente successivo Governo Gentiloni il quale solo, dunque, appare responsabile del tormentato iter che si è avuto cura di sunteggiare. Che poi la legge n. 188/2021 sia stata emanata in un contesto in cui Marta Cartabia era Ministro della Giustizia identifica un mero accidente, e non una sostanza, come già conferirebbe Aristotele ben in anticipo rispetto al Don Ferrante manzoniano ed al Suo filosofare sterile, di modo che ad Ella nulla può farsi carico – anzi se ne dovrebbe elogiare l’avvedutezza stante il fatto di avere evitato allo Stato italiano un’imbarazzante messa in mora presso gli organi dell’Unione Europea – se non di essere innegabile promotrice di un ordito riformistico che tanti “grattacapi” determina, e determinerà, nell’ordinario svolgersi della giustizia penale. Qui, è bene però ribadirlo, la riforma Cartabia e la professoressa omonima sono un corpo estraneo rispetto alle doglianze avanzate.

Comunque sia, da un versante più schiettamente tecnico-giuridico, già emergono dubbi sulla sussistenza, o sulla sopravvenienza, nel Nostro contesto ordinamentale, di una presunzione di innocenza, o di non colpevolezza, che dir si voglia. Il formante normativo di riconoscimento della garanzia de qua viene, tralatiziamente, ad indicarsi nell’art. 27, comma 2, Cost., stante il cui tenore “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. A bene vedere, pur tuttavia, il dettato di cui alla Nostra Carta dei diritti non presume, non reputa, non considera alcunché: invero la negazione ‘non’ marca enfaticamente il predicato verbale ‘è considerato’ venendone che il Costituente si mostra indifferente rispetto a quella situazione di vita: l’imputato, al netto dei paludamenti espressivi, deve essere trattato come tale ovvero come persona destinataria di un’ipotesi di accusa che necessita ancora di essere verificata. Non puto, altrimenti detto. Ben altro conseguirebbe dallo scrivere “L’imputato è considerato non colpevole sino alla condanna definitiva”: qui la negazione ‘non’ marca enfaticamente non più il predicato verbale all’opposto focalizzandosi sul soggetto di quella considerazione adducendone uno status peculiare ovvero che egli non è ritenuto colpevole fintanto che la res judicanda non “trasmigra” in res judicata. Puto quia non, altrimenti detto. A ragionare in modo diverso si corre il rischio, tanto per esemplificare, di ritenere pari ordinati enunciati del genere ‘Non credo di amarti’ e ‘Credo di non amarti’. Nell’un caso l’interloquito non si pronuncia lasciando una “fiammella” di speranza alla/al desiderosa/o di affetto; nell’altro tronca sul nascere ogni dubbio: non la/lo ama proprio rafforzando il proprio convincimento con l’imperatività del ‘Credo’. Ben più rassicurante, qui, la prima evenienza; ben più liberatoria, a livello costituzionale, la formula che considera in un determinato modo (non in negativo, ça va sans dire) invece di quella che non considera affatto. Piuttosto è al livello convenzionale che occorre avere riguardo, nel dettaglio all’art. 6, §2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (d’ora in innanzi, per acronimo, CEDU): là sì che si presume infatti affermandosi che “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Di tal che quel momento imprescindibile di tutela entra a fare parte del Nostro ‘giusto processo’ solo per il filtro della CEDU e solo per il fatto che a questa è stata fornita esecuzione, dallo Stato italiano, con l. 4 agosto 1955, n. 848 – la presunzione di innocenza/non colpevolezza non è garanzia originaria, laonde per cui, ma derivata.

Da ultimo, riflettendo ancora, inquieta che a dolersi del cattivo funzionamento della disciplina che ci occupa siano i giornalisti i quali – è uno dei pochi dati certi di cui al novum normativo – devono ritenersi già prima facie esclusi dall’ambito di applicazione del d. lgs. 188/2021. L’art. 2, comma 1, dell’or ora evocato provvedimento normativo, non per nulla, fa divieto alle autorità pubbliche (il grassetto è nostro) “di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”: comunque vengano ad intendersi dette figure di certo i giornalisti non possono qualificarsi tali. Gli organi di informazione sono “i convitati di pietra al banchetto delle garanzie” stante il precetto de quo agitur: venendone che ci appaiono giustificate le riserve manifestate da illuminata dottrina a cui dire “rimane inspiegabilmente al di fuori della portata della direttiva” (ma un idem sentire parrebbe manifestarsi avendo riguardo al d. lgs. cit.) “il comportamento dei media che molto spesso arrecano più danni alla presunzione d’innocenza di quanto non possano fare i pubblici ufficiali. Per disinnescare del tutto il cortocircuito mediatico-giudiziario non appare sufficiente dettare regole di comportamento rivolte all’autorità inquirente, lasciando al tempo stesso piena libertà alla stampa di indicare preventivamente un colpevole, magari nell’ambito di violente campagne volte al raggiungimento di scopi schiettamente politici”. Tutto, more solito, sta allora nell’individuare una linea di displuvio fra interessi equi-meritevoli: con il che la tensione fra organi di informazione di massa ed i Procuratori della Repubblica (il che, sia detto per inciso, a differenza di quanto assicurato dal Foglio Quotidiano, non sono affatto, nella dialettica informativa siffatta, parti processuali), ad uno sguardo meno epidermico, non è responsabilità del malanimo degli uffici del pubblico ministero bensì di una legitecnica vieppiù deprimente. È sulle coordinate disciplinari della recente interpolazione normativa che deve quindi fissarsi la Nostra attenzione.

Il d. lgs. 188/2021 si muove lungo tre “assi” disciplinari ben strutturati: gli ipotizzati rimedi a fronte dell’indicazione “pubblica” come colpevole prima del passaggio in giudicato dell’accertamento di responsabilità (art. 2, commi da 2 a 5); le ricadute endoprocessuali di cui a tale interdictio (cfr. l’art. 4, di “conio” del nuovo art. 115-bis c.p.p.); l’interlocuzione fra uffici della Procura e mass media come regolata dalla versione attuale dell’art. 5 d. lgs. 106/2006 (cfr. art. 3 d.lgs. 188/2021) – ad epilogo della Nostra trattazione per la semplice ragione che essa configura il “qui ed ora” del pamphlet giornalistico di cui ad esordio del presente commento. Rapidissimamente, dunque, qualche accenno ai due profili iniziali per poi scendere in medias dell’oggetto del contendere. Ogniqualvolta non si osservi il disposto di cui al comma 1 dell’art. 2 cit. – “È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili” – l’interessato gode del diritto di richiedere, ex comma 2, alla medesima autorità pubblica attestante, rettifica della dichiarazione inopportuna; qualora essa riconosca la fondatezza dell’istanza provvederà immediatamente – non oltre quarantotto ore dalla ricezione della suddetta (così il time limit individuato) –, “dandone avviso all’interessato”, essendo tenuta “a rendere pubblica la rettifica con le medesime modalità della dichiarazione oppure, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica” (cfr. il combinato disposto dei commi 3 e 4 art. 2 cit.); qualora, invece, la domanda non sia accolta e, con buona plausibilità, finanche laddove non si risponda l’interessato potrà adire il giudice civile che, alla luce dell’art. 700 c.p.c., potrà ordinare “la pubblicazione della rettifica secondo le modalità di cui al comma 4” (così il comma 5). Forse non è la soluzione più appagante sia giusta il cotê del rimedio proposto che dell’autorità deputata ad intervenire: alquanto consequenziale che l’incauta autorità pubblica non si autocensuri perdendo, a tacer d’altro, di autorevolezza laddove si disponesse in quel verso. Ricorrere ad un’autorità garante autonoma ed indipendente avrebbe ben potuto rivelarsi di maggiore fecondità al riguardo, a Nostro sommesso modo di vedere. Ancora più farraginoso, se possibile, il testo di cui all’ennesimo articolo bis del codice di rito penale ovvero il 115 così numerato. Il primo comma identifica, per macro-classi nozionali, i provvedimenti giudiziari “colpevolisti” in ordine ai quali non opera il divieto di presentare la persona sottoposta alle indagini (d’ora in innanzi, per convenzione linguistica, indagato) o l’imputato come tale (ovvero colpevole): da un canto rilevano “i provvedimenti … volti alla decisione in merito alla responsabilità penale …” dall’altro, con formula vaga e “liquida”, si fa intesa agli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”. L’alinea successivo, a sua volta, consegna che, con riguardo ai provvedimenti diversi da quelli volti alla responsabilità penale dell’imputato (a tale riguardo v. art. 115-bis, comma 1, primo periodo, c.p.p., come normato ex art. 4 d. lgs. 188/2021) “che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza”, “l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Onde fornire concretezza a tale “nebulosa” definitoria potrebbe, eventualmente, sopperire il considerandum n. 16 della Direttiva 2016/343/UE giusta cui, in parte qua, dovrebbero rimanere impregiudicati “gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato, come l’imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa. Dovrebbero altresì restare impregiudicate le decisioni preliminari di natura procedurale, adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità, quali le decisioni riguardanti la custodia cautelare, purché non presentino l’indagato o imputato come colpevole” – in tal modo potrebbero forse ricondursi a quello slabbrato contenitore altresì i provvedimenti con cui l’organo dell’accusa dispone una perquisizione od un sequestro, cautelare o probatorio che sia, o, ancora, si motivi per l’autorizzazione onde eseguire un’intercettazione di flussi comunicativi. Con il terzo comma ci si volge a disciplinare il regime sanzionatorio nel senso che “l’interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo”. La singolarità di questo “pannicello” sta nel fatto che, expressis verbis, il dettato di specie circoscrive la propria operatività all’evenienza di “violazione delle disposizioni di cui al comma 1” (dove situare le ordinanze cautelari, tanto per esemplificare?) forzando l’interprete, e prima ancora, l’operatore pratico del diritto a veri e propri funambolismi stretti, come si è, tra una disamina della consistenza, e della resistenza ad ipotesi alternative di cui al fatto-reato, degli indizi a fondamento della istanza applicativa, putacaso, di una misura de libertate e la “giustifica” che quanto illustrato pone ad obiettivo esclusivo dimostrare la ricorrenza dei presupposti per l’emanazione della medesima. L’ultimo comma del novello 115-bis c.p.p., il quarto, infine significa che, sull’istanza di correzione, provvede il giudice che procede (il giudice per le indagini preliminari per la fase omonima), entro quarantotto ore dal deposito di quella, con decreto motivato da notificarsi alle parti interessate e da comunicarsi al pubblico ministero al fine dell’eventuale opposizione dinnanzi al presidente dell’organo di jus dicere. Qui vale quanto già contestato in merito al titolare della potestà di rettifica: sull’effettività di un meccanismo siffatto è lecito nutrire più di un dubbio, di tal che. A complemento vanno finanche ricordate alcune “spigolature”, sempre operate dall’art. 4 d. lgs.188/2021, ad oggetto ulteriori disposizioni del codice di rito penale: A) ad esordio la modifica apportata all’art. 314, comma 1, c.p.p. in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione ivi ora predicandosi, giusta un ultimo inciso, che “L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”. Del tutto fisiologico che ottenere quella “mercede” non deve essere inibito dall’esercizio del diritto al silenzio; ma bene esplicitarlo una volta riscontrato il costante indirizzo giurisprudenziale di segno opposto (v., ad esempio, Cass. Sez. II, 10 giugno 2020, n. 19063); B) il pubblico ministero può ora consentire, eccependo ai divieti di pubblicazione di atti di indagine ex art. 114 c.p.p., l’ostensione di singoli atti o di parte di essi non più quando ciò appaia necessario per la prosecuzione delle indagini ma solo nella misura in cui ciò è strettamente necessario (così il ri-formulato incipit dell’art. 329, comma 2, c.p.p.). Ora sarà pur vero che il novum potrebbe imporre, agli uffici requirenti, un onere di motivazione rafforzata con riguardo alle specifiche ragioni legate alla necessità di prosecuzione delle indagini ma a Noi pare che si tratti dell’ennesima “grida” che tanto denota ma che poco connota; C) last but not least si incide sul contenuto dell’art. 474 c.p.p. – votato a disciplinare l’assistenza dell’imputato all’udienza – procedimentalizzando l’iter di adozione dell’ordinanza che, in deroga alla regola della “libertà”, sacrifica quest’ultima laddove “siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza”. Fatto salvo “il diritto dell’imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l’impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili” il nuovo comma 1-bis identifica in un atto formale – l’ordinanza de qua – lo strumento tramite cui, sentite le parti, mandare ad effetto le cautele testé indicate. Giro di vite da salutare più che favorevolmente se si vuole evitare che l’indagato/imputato venga ad additarsi come colpevole presentandone il corpo in “ceppi” od in “schiavettoni” ultra necessitate.

Ed ora veniamo al clou delle Nostre riflessioni. Premesso che la “canalizzazione” dei rapporti con gli organi di informazione era già curata dal Procuratore della Repubblica, o da un suo delegato ad hoc, nel testo originario dell’art. 5, comma 1, d. lgs. 106/2006 (immutato in parte qua) ora, ad addendum, si precisa che ciò avviene “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”. Ad ogni buon conto la diffusione di informazioni sui procedimenti penali “è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili” (così il nuovo comma 2-bis dell’art. 5 cit.). Al di là del deprecabile modus procedendi (si norma in prima istanza il quomodo delle esternazioni – o per mezzo di comunicati ufficiali o per tramite di conferenze stampa – e solo in subordine l’an delle medesime – esse sono giustificate in caso di stretta necessità per la prosecuzione delle indagini o nell’evenienza di altre specifiche ragioni di interesse pubblico) esporre i tratti caratterizzanti la riforma è impresa tutt’altro che agevole. Ben ostico, per vero, stabilire che cosa si debba intendere con ‘stretta necessità per la prosecuzione delle indagini’ e, ancor più, con ‘specifiche ragioni di interesse pubblico’: la vaghezza espressiva in merito conduce di necessità ad oscillare fra ricostruzioni per tipologie di provvedimenti divulgabili ed una verifica invece fondata su di un approccio case by case. Meglio sarebbe stato se il legislatore avesse optato, facendo leva sulla specificità delle ragioni adducibili, su di un elenco di criteri normativamente predefiniti limitandosi “a situazioni in cui ciò ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi” in gioco (arg. ex considerandum n. 18, secondo periodo, Direttiva 2016/343/UE). Tanto più che, valorizzando clausole così “rarefatte”, si legittima inevitabilmente il ricorso a strumenti di soft law onde puntualizzarne i contenuti ovvero alle molteplici circolari, informative, direttive di cui agli uffici delle Procure (non sempre fra di loro collimanti ma che “proliferano” incontrollate nel territorio nazionale). Per quel che concerne, invece, le modalità di diffusione delle informative, fermo restando l’intendimento di evitare la sovra-esposizione mediatica degli inquirenti, sembrerebbe che l’organo dell’accusa, laddove intenda disporsi per una conferenza stampa, debba motivare sia avendo riguardo alle pre-condizioni su elencate (‘la particolare rilevanza pubblica dei fatti’) nonché sulle giustificazioni specifiche, ulteriori e diverse che rendano inadeguato, nella vicenda di interesse, il mero comunicato ufficiale; e ciò in quanto si assume che il pubblico ministero decida “con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che [quel]la giustificano”. Tutto bene: ma il difetto di un qualsivoglia strumento di tutela a fronte di una giustifica solo apparentemente motivata circoscrive il redde rationem in una prospettiva di sconsolante illusorietà. Il comma 3-bis, a volta, modalizza una disciplina specifica con riguardo alla polizia giudiziaria (rectius, ai suoi ufficiali) di modo che, qualora ciò si riveli strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o emergano altre specifiche ragioni di interesse pubblico, il procuratore della Repubblica “può autorizzare … a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di interesse che la giustificano”. Noi ci siamo già schierati – quantunque l’insipienza normativa possa deporre finanche per un’esegesi alternativa: l’ufficiale di polizia giudiziaria, altrimenti detto, può “interfacciarsi” con i mass media solo avendo riguardo agli atti di indagine, compiuti o partecipati che siano, e non anche in ordine all’intero procedimento penale le esternazioni in merito al quale restando dominio esclusivo del pubblico ministero. La sottoscritta interpretazione, “stressando” i concetti al limite, potrebbe nevvero indurre a ritenere che la polizia giudiziaria possa fornire direttamente notizie solo sugli atti di indagine “posti in essere prima dell’iscrizione di una notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e, quindi, ad esempio, gli arresti in flagranza, i fermi di indiziato di delitto …, la denunzia di soggetti “a piede libero”. Quelli successivi all’iscrizione, infatti, entrano a pieno titolo negli atti di un procedimento penale e come tali sono regolati come sopra si è detto” ovvero dal comma 2-bis art. 5 d. lgs. 106/2006 (così la Direttiva della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia relativa alle novità in tema di comunicazione delle informazioni sui procedimenti penali e sugli atti di indagine introdotte dal d.lgs. 188/2021, emanata il 6 dicembre 2021); addirittura, una volta osservato che il comma 3-bis sembrerebbe rinviare ad evenienze in cui si è già dato avvio al procedimento penale, si dice che “detta norma non dovrebbe applicarsi alle indagini espletate d’iniziativa dalla polizia giudiziaria in un fase pre-procedimentale, cioè al di fuori e prima di un procedimento già iscritto, in relazione alle quali … deve ritenersi consentito alla polizia giudiziaria procedente di fornire autonomamente informazioni sulle attività investigative espletate” (Direttiva della Procura della Repubblica di Modena in tema di comunicazioni istituzionali ed altre disposizioni in tema di presunzione di innocenza, data 9 dicembre 2021; contra Circolare della Procura della Repubblica di Bologna ad oggetto “I rapporti con la stampa a seguito del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188, in tema di presunzione di innocenza. Indicazioni operative per la polizia giudiziaria”, 2 dicembre 2021, giusta la quale, pur se “la procura della Repubblica non ha il monopolio dell’informazione, con ciò legittimando[si] le prassi diffuse già conosciute in cui l’ufficio requirente “autorizza” l’adozione di comunicati stampa o l’effettuazione di conferenze stampa da parte degli operanti …[,] tale attivazione da parte della polizia giudiziaria non può essere autonoma, ma deve essere, appunto, sempre autorizzata dal procuratore della Repubblica) (la sottolineatura riporta al testo primigenio della Circolare). Il che, come minimo, assevera in parte qua la denuncia di cui all’articolista del Fatto Quotidiano ove scrive che, “[t]ra gli effetti della riforma, poi, se prima i comunicati di polizia arrivavano nelle caselle email dei giornali all’alba, ora arrivano in tarda mattinata perché sono prima sottoposti al vaglio dei procuratori: senza il loro ok, non partono”: ma ciò che ancor più inquieta è la evidenziata “territorializzazione” della giustizia emblematicamente dimostrata, nel contesto di specie, da linee-guida contraddittorie nell’ambito di un’identica suddivisione regionale ovvero l’Emilia Romagna. Infine il comma 3-ter (sempre dell’art. 5 d.lgs. 106/2006, a più riprese evocato: “Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 1 e 3-bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Precetto sostanzialmente inutile, se non anche disutile, una volta osservato come ad “isterismi” comunicativi siano più propensi gli organi di informazione che i “divulgatori” pubblici, organi di informazione che, è fatto notorio, esulano dallo spettro applicativo di cui al d. lgs. 188/2021.

Quale la morale che è dato evincere da tutto ciò? Le preoccupazioni di cui si fa amplificatore il Fatto Quotidiano non sono per nulla infondate: cionondimeno è sbagliato sia il bersaglio che la forma espressiva. Delle conclamate frizioni, a Nostro modo di vedere, pare ingeneroso accusare gli uffici della Procura né, tantomeno, un legislatore che produce (certo: sempre in un’ottica di perfettibilità); è da stigmatizzare, piuttosto, l’operato di Assemblee elettive vieppiù delegittimate che, ormai, paiono avere abdicato dalla loro primaria funzione istituzionale cioè normare giusta provvedimenti generali ed astratti. A mero rilievo statistico si rifletta sul fatto che, dall’inizio dell’attuale legislatura, la XIXa, a far tempo dal 13 ottobre 2022, salvo errori ed/omissioni, sono state approvate 22 leggi. Ebbene: di queste una è una legge costituzionale; una l’autorizzazione alla ratifica di una Convenzione di cui al Consiglio d’Europa; un’altra una legge delega; ben 16 conversioni di decreti-legge e solo 3 leggi ordinarie (di queste ultime, ed ulteriormente dettagliando, nondimeno, due istituiscono Commissioni di inchiesta e la restante è la, inevitabile, legge di bilancio). Il Parlamento, per usare espressioni care ai giornalisti, è “imbavagliato”: tout se tient nei “penetrali” dei Ministeri, tanto per glossare Augusto Frassineti e la sua produzione letteraria più nota. Venendone che, a fronte di un legislatore colpevolmente neghittoso, a poco vale imputare del “misfatto” i procuratori della Repubblica, ingabbiati nella “tunica di Nesso” dei fallimenti altrui. Tanto più considerando che con costoro, di necessità, ci si deve rapportare: “[d]ai procuratori capo, i “domini” chiamati a valutare l’interesse pubblico di un fatto”, non si può prescindere giacché del “compito-filtro” di specie non si dovrebbe certo investire in esclusiva i mass media come, invece, auspicherebbe il giornale diretto da Marco Travaglio.