Qualunque riforma che incide su di un ordito compiuto (come dovrebbe essere un codice …) ambisce a fregiarsi, quantomeno per i posteri, del titolo di ‘epocale’. Di certo tale qualificativo non può essere disconosciuto alla riforma di cui ad oggetto (D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, dall’entrata in vigore invero posticipata al 30 dicembre 2022, a fronte dell’inadeguatezza della, in allora predisposta, disciplina transitoria, giusta il d.l. 31 ottobre 2022, recante “Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di termini di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e di disposizioni relative a controversie della giustizia sportiva, nonché di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2, di attuazione del Piano nazionale contro una pandemia influenzale e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali”, convertito, con modificazioni, in l. 30 dicembre 2022, n. 199), tanto più considerando che essa muove, di pari passo, con una rivisitazione au fond del processo civile (D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, recante “Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”) oltre che con una innovativa modifica sulla struttura degli uffici giudiziari (D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 151, recante “Norme sull’ufficio per il processo in attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, e della legge 27 settembre 2021, n. 134”) – sorvolando, per non appesantire ulteriormente la lettura, sulla l. 17 giugno 2022, n. 71, recante “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, ad oggetto, fra l’altro, incisive modifiche con riguardo al funzionamento dell’organo di “auto-governo” della Magistratura.

Un disegno di “sfrenata” ambizione che, come è dato notare, attraversa tangenzialmente tutto il comparto giustizia: per rimanere al nostro micro-settore di interesse (quello, per così dire, ‘criminale’ in senso lato) basti riflettere, giusta un profilo meramente contabile, sul fatto che il d. lgs. 150/2022 introduce, modifica od abroga ben 180 articoli di cui al corpo del codice di procedura penale (idem modus operandi per le norme di attuazione al segnalato codice di rito – qui i nova assommano a 35 – e per il codice penale sostanziale – anch’esso interessato, benché in un numero leggermente inferiore a quest’ultimo – 29 –, dalle coordinate riformistiche).

Al di là di questo epidermico riscontro il d. lgs. 150/2022 sottende un nuovo paradigma culturale spie lessicali del quale già si ravvisano a prima lettura della Rubrica normativa: ‘efficienza’ e ‘celere definizione’ in una, non scordiamolo, con ciò che dovrebbe rappresentare la vera e propria “scommessa” del novum di specie ovverosia la cosiddetta ‘giustizia riparativa’ (alternativa dal, e non nel, processo) leitmotiv, se non compulsivo, di certo ossessivo della “grammatica” riformistica (salvo errori e/o omissioni quella locuzione viene difatti reiterata per ben 167 volte nel testo che ci occupa). A “scandaglio” della centralità di quest’ultima nel disegno Cartabia, ad ulteriore riprova, il fatto che si tratti dell’unico momento assistito da un’erogazione finanziaria ad hoc (l’art. 67 d.lgs. cit. significativamente dispone che “1. Nello stato di previsione del Ministero della giustizia è istituito un Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, con una dotazione di euro 4.438.524 annui a decorrere dall’anno 2022. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è stabilita ogni anno la quota da trasferire agli enti di cui all’articolo 63, comma 5, per il funzionamento dei Centri per la giustizia riparativa e per la prestazione dei relativi servizi, nel limite delle disponibilità del fondo istituito ai sensi del presente comma. 2. Le Regioni e le Province autonome, le Città metropolitane, le Province, i Comuni e la Cassa delle Ammende, nel quadro delle rispettive politiche e competenze, possono concorrere, nei limiti delle risorse disponibili nell’ambito dei propri bilanci, al finanziamento dei programmi di giustizia riparativa. 3. Nel limite delle disponibilità del fondo di cui al comma 1, fermo restando il finanziamento degli interventi necessari a garantire i livelli essenziali delle prestazioni di giustizia riparativa, la determinazione degli importi da assegnare agli enti di cui all’articolo 63, comma 5, tiene conto, sulla base di criteri di proporzionalità, dell’ammontare delle risorse proprie annualmente impiegate dagli stessi enti per il finanziamento dei programmi di giustizia riparativa, opportunamente documentati e rendicontati alla Conferenza nazionale di cui all’articolo 61. 4. Agli oneri di cui al comma 1, pari a euro 4.438.524 annui a decorrere dall’anno 2022, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per l’attuazione della delega per l’efficienza del processo penale di cui all’articolo 1, comma 19, della legge 27 settembre 2021, n. 134. 5. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio”): sul restante grava, inesorabile, la ormai “scontata” clausola di invarianza finanziaria, qui esplicitata ex art. 99 d. lgs. summenzionato (“1. Salvo quanto previsto all’articolo 67, le amministrazioni interessate nell’ambito delle rispettive competenze, danno attuazione alle disposizioni del presente decreto, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”) – poi, certo, a tale riguardo soccorrono – dovrebbero soccorrere, rectius – i fondi europei di cui al NextGenerationEU in ordine ai quali, nondimeno, è bene precisare che, a differenza di quel che narra la “vulgata ufficiale”, essi non sono affatto condizionati alla riduzione della durata media dei processi penali del 25% in cinque anni: è il Governo italiano che, con decisione del tutto autonoma e consapevole, ha deciso di così motivarsi di tale vincolo non riscontrandosi traccia negli indirizzi euro-unitari.

Come è stato con maestria osservato dal cognitivismo garantista (l’accertamento della responsabilità da reato in una all’attribuibilità di quest’ultimo ad un soggetto determinato – e, in un’ottica spiccatamente processualista, il giudizio a ciò preposto – deve condursi nel rispetto di ciò che, con formula ormai consolidata, viene a qualificarsi ‘giusto processo’) si transita al decisionismo efficientista (l’abbattimento, costi quel che costi, della durata irragionevole del rito penale prescinde dalla verifica del rispetto di quei principi e di quei valori testé menzionati). È inquietante sul punto constatare come la riforma, monstrum onnivoro che tutto divora, per nulla si occupi della “provvista” probatoria (cfr. il Libro III del codice di rito penale, ‘Prove’, dall’articolo 187 all’articolo 271 – e “aggiustamenti” da fare ve ne erano, eccome!) tranne che per una “sterile” enunciazione ad oggetto la facoltà di opporsi al decreto di perquisizione, emesso dal pubblico ministero, non seguito da sequestro (v. art. 252-bis c.p.p.; cfr., altresì, l’art. 352, commi 4 e 4-bis,  del medesimo codice di rito): e ciò in esclusiva per mandare ad effetto una pronunzia (Corte EDU, 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia), giusta cui la Corte europea dei diritti umani aveva condannato, per violazione dell’art. 8 CEDU, lo Stato italiano, in un caso di perquisizione domiciliare adottata dall’organo requirente, e non seguita da sequestro, assumendo che il ricorrente non disponesse né di un controllo di legalità ex ante sulla misura né di un sindacato ex post sulla legittimità della medesima. Si parva licet componere magnis, verrebbe ironicamente da soggiungere … A contrario l’efficienza, ovvero la capacità di produrre l’effetto dovuto id est, economicamente parlando, il massimo rendimento produttivo a parità di costi, di modo che tale sarebbe un giudizio penale che fornisce i risultati migliori, da mezzo muta in fine dimenticandosi che i costi, in un setting processuale, si “pesano” non solo in termini di danno emergente e di lucro cessante ma anche, se non soprattutto, in termini di garanzie negate e di sofferenze patite. Fra l’altro la biasimata impostazione cela un ulteriore deficit essa implicando, quantunque solo in filigrana, che l’auspicata velocizzazione rappresenti il dover essere dell’obiettivo, rebus sic stantibus costituzionalmente imposto, della ragionevole durata dei processi. Ora, non è chi non veda come la locuzione invalsa – ‘ragionevole durata dei processi’ – figuri un concetto di relazione stante il quale non ci si può inibire dal censurare altresì un processo eccessivamente breve (è un apriorismo pericoloso qualificare come di irragionevole durata solo un processo dalla durata esorbitante: sono le esigenze di cui all’accertamento della vicenda oggetto di giudizio a “sagomare” la dimensione temporale de qua, infatti). Venendone che, se è vero che Justice delayed is justice denied, è del pari vero che Justice hurried is justice buried (e di ciò la Corte di Strasburgo è autorevole garante): reso in termini più accessibili ciò sta a significare che una verifica della responsabilità frettolosa e superficiale può tradursi in denegata giustizia (o, ancora, in parodia di quest’ultima) – un accertamento “contratto”, come sempre più viene a determinarsi nei riti alternativi/semplificati (grazie finanche all’articolato Cartabia), è in frizione con i principi del giusto processo. Ed anche la Corte costituzionale mostra di accedere all’ipotizzata ricostruzione:

[C]iò che rileva è esclusivamente la durata del «giusto» processo, quale delineato dalla stessa norma costituzionale invocata … Una diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti. Un processo non «giusto», perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata.” (la sottolineatura è nostra) “In realtà, non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sancito dal suddetto art. 111 Cost., sia del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24, secondo comma, Cost.: diritti garantiti da norme costituzionali che entrambe risentono dell’effetto espansivo dell’art. 6 CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo” (Corte cost. n. 317/2009).

Un altro “nervo scoperto”, sempre che si intenda perseguire l’efficienza a tutti i costi, è rappresentato dalla compatibilità di siffatto obiettivo con il chiaro dettato di cui all’art. 112 Cost. ove si sancisce il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Principio nobilissimo, sia ben chiaro (al di là del fatto, a bene vedere, che quell’articolo non impone la doverosità di specie ma “investe” il pubblico ministero di quell’incomodo laddove ne sussistano le condizioni – così non fosse l’archiviazione, quintessenza del non agire, sarebbe incompatibile con la legge fondamentale …), giusta cui “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, esso trasponendo, in una dimensione di accertamento delle responsabilità, l’assunto fondamentale di cui all’art. 3 Cost. (il principio di uguaglianza o, meglio ancora, il principio di non discriminazione). Se infatti i cittadini debbono essere “valutati” stante il canone dell’uguaglianza – nel verso che situazioni eguali debbono essere trattate in modo eguale e situazioni dissimili in modo dissimile (bandendosi, quindi, i parametri “odiosi” di differenziazione come enucleati dal primo comma dell’articolo da ultimo menzionato) – del pari, nell’agone processuale, alla luce della commissione di un determinato reato tutti i potenziali autori debbono essere chiamati a rispondervi (senza, laonde per cui, che sia riservata, all’organo dell’accusa, potestà discrezionale al riguardo). L’elevatezza del principio fa nondimeno i conti con la “dura legge” della quotidianità: giammai, a fronte della ricezione di n notitiae criminis presso le Procure della Repubblica, tutte queste verranno ad essere evase, se non simultaneamente, quantomeno nell’arco fisiologico dei termini di indagine (per l’ipertrofia del sistema penale; per carenza di organico; per deficit di coordinamento e via seguitando – non per nulla, il numero preponderante di evenienze prescrittive del reato si annida nelle fasi iniziali del procedimento penale): è inevitabile che un profilo di discrezionalità/opportunità dell’esercizio dell’azione penale, almeno in forma mascherata, venga a significarsi (proprio per le valenze pragmatiche che si è avuto cura di indicare). Di tal che, se il valore da perseguirsi ad ogni costo è l’efficienza, come a più riprese sottolineato, è consequenziale che la riforma incida, con una novità assoluta a livello normativo (le Procure della Repubblica già si avvalevano di quegli “scivoli”, ça va sans dire), legittimando criteri di priorità nell’esercizio di cui sopra: “Nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio” (così, limpidamente, l’art. 3-bis n. att. c.p.p.). Forme “larvate” di discrezionalità dell’azione penale, piaccia o non piaccia, si affacciano quindi nell’ordito codicistico; e che quanto precede non identifica una suggestione di chi scrive è emblematicamente testimoniato dalla proposta di legge costituzionale n. 23, presentata dal deputato Enrico Costa, alla Camera dei Deputati in data 13 ottobre 2022, il cui art. 10 vorrebbe modificare il dettato costituzionale nel verso che sì “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” ma “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Più nel dettaglio l’art. 3-bis n. att. c.p.p., di nuovo conio, affronta uno dei tanti e delicati casi di problem solving giudiziario, relativo alla trattazione delle notizie di reato e all’esercizio dell’azione penale, ovvero i criteri di priorità de quibus una volta osservato che l’applicazione iper-rigida del brocardo prior in tempore potior in iure (l’ordine temporale nel trattare gli affari penali) avrebbe rischiato di dilazionare nel tempo, senza una risposta di giustizia, la “presa in carico” di fatti criminosi che vengono ad “imporsi” per peculiare offensività lesiva nonché per elevata rilevanza sociale. A tale proposito l’art. 1, comma 9, lett. i), l. 27 settembre 2021, n. 134, investe il potere legislativo dell’articolazione di una disciplina organica dei criteri di priorità ulteriormente individuabili, in sede di progetti organizzativi, dagli uffici del pubblico ministero onde selezionare le notizie di reato da trattare in via prioritaria (prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali  indicati  dal  Parlamento  con  legge,  individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare  nei progetti organizzativi delle procure della  Repubblica, al  fine  di selezionare le notizie di reato da trattare con  precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente  delle  risorse  disponibili;  allineare  la procedura di approvazione dei progetti  organizzativi  delle  procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti). Viene, quindi, a modularsi un sistema a doppia velocità contrassegnato dalla co-presenza, auspicabilmente “virtuosa”, di criteri generali, approvati dal Parlamento con legge (e non con meri atti di indirizzo, beninteso), che fisseranno le direttrici di intervento entro le quali, a seguire, si orienteranno le singole Procure con altri criteri, di maggiore dettaglio, che dovranno, inevitabilmente, misurarsi con le condizioni organizzative dei singoli uffici, con le risorse umane e materiali disponibili e, ci si consenta di aggiungerlo, con le peculiarità esperienziali di cui alla delinquenza in quella specifica area geografica. È self-evident, di riflesso, che un insieme così congegnato, oltre ad “annacquare” i valori sottesi al principio di obbligatorietà dell’azione penale (a nostro modo di vedere trattasi di una vera e propria forma di discrezionalità mascherata o, se si vuole essere più pudichi, di opportunità dell’agire), dissimula evenienze di regionalizzazione della giustizia [con buona pace dell’art. 117, comma 2, lett. l) Cost.] oltre che proporsi da stimolo per l’emersione di abusi sub specie di forum shopping (fenomeno per cui le parti di una controversia possono di fatto scegliere di incardinare il relativo giudizio di fronte a una delle diverse corti astrattamente competenti a conoscere la materia).

Last but not least per funzionare a regime innovazioni così strutturate dovrebbero potere fare affidamento su risorse umane ed economiche non sotto-dimensionate rispetto a quanto di necessità (è una ovvietà, per vero, denunziare la costante insufficienza di magistrati e, fatto ancora più emblematico, di personale ausiliario – rectius, la cattiva loro dislocazione sul territorio nazionale rispetto al fabbisogno di cui alle piante organiche degli uffici). Onde compensare detto scompenso, con provvedimento coevo al d.lgs. 150/2022 (quello, di pari data, a numero d’ordine 151), apprezzabile in un’ottica di ingresso al lavoro per i neo-laureati e, comunque, di valorizzazione di professionalità non incardinate nella magistratura, ma esiziale giusta il profilo della corretta amministrazione della giustizia, il legislatore punta senza riserve sull’istituzione dell’ufficio del processo (ça va sans dire sul presupposto dell’ormai mai a sufficienza vituperata clausola di invarianza finanziaria) ovvero di una struttura organizzativa implementata “al fine di  garantire la ragionevole durata del processo attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (cfr. art. 2 d. lgs. 151/2022). Fra gli innumeri compiti riservati a tale ufficio, e con specifico focus sui tribunali ordinari e sulle corti di appello di nostro interesse (v. art. 6, comma 1, d. lgs. cit.), si enumerano a) coadiuvare uno o più magistrati e, sotto la direzione e il coordinamento degli stessi, compiere tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giudiziaria da parte del  magistrato, provvedendo, in particolare, allo studio dei fascicoli e alla preparazione dell’udienza, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e alla predisposizione delle bozze dei provvedimenti; b) prestare assistenza ai fini dell’analisi delle pendenze e dei flussi delle sopravvenienze, del  monitoraggio dei procedimenti di data più risalente e della verifica delle comunicazioni e delle notificazioni; c) incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, attraverso la valorizzazione e la messa a disposizione dei  precedenti, con compiti di organizzazione delle decisioni, in particolare di  quelle aventi un rilevante grado di serialità, e con la formazione di  una banca dati dell’ufficio giudiziario di riferimento; d) fornire supporto al magistrato nell’accelerazione dei processi di innovazione tecnologica. Incombenze tutt’affatto che di routine (si mediti, su tutto, sulla “predisposizione delle bozze dei provvedimenti” giudiziari: quest’attività, è bene segnalarlo, non può essere affidata ad altri se non magistrati ordinari) sorgendo, di necessità, il quesito circa l’opportunità di commissionare siffatte “missioni” a personale, a bene vedere, non qualificato in luogo di una sana ed adeguata politica di reclutamento del quantum mancante.

Criticità con cui si dovrà inevitabilmente rapportare, e raffrontare, la prassi delle aule di giustizia rebus sic stantibus non potendo fare altro che segnalarne la “acuzie”.