In tempi a noi assai prossimi le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (d’ora in innanzi, per acronimo, REMS) hanno ottenuto l’attenzione e dell’organo giurisdizionale di vertice della cosiddetta ‘grande Europa’ (Corte europea dei diritti umani) e del “garante interno” della conformità a precetto delle leggi e degli atti ad essa equiparati (la Corte costituzionale italiana). Al di là delle soluzioni adottate, su cui, comunque, si tornerà a breve, la riscontrata “sinergia decisionale” testimonia di un “nervo scoperto” del sistema da cui l’ineludibilità della reductio ad unum della “conformazione anfibia” dell’istituto che ci occupa, del pari presidio sanitario e ricovero custodiale di peculiari macro-classi di delinquenti.
Giova quindi, a premessa, indicare a che cosa si riconducano le cosiddette REMS – fatto curioso: le strutture de quibus assumono “investitura residenziale”, stante la qualifica giusta cui sono comunemente note, in esclusiva a seguito della Conferenza unificata tra Governo, Regioni, Province autonome ed autonomie locali, in data 26 febbraio 2015, indetta a fronte di quanto disposto dal d.m. (Ministro della sanità, di concerto con il Ministro della giustizia) 1° ottobre 2012, di “prima” definizione dei contenuti “minimi” delle medesime.
La normativa primaria di riferimento, invero (cfr. d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, recante “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”, convertito, con modificazioni, in l. 17 febbraio 2012, n. 9, come da ultimo interpolato dal d.l. 31 marzo 2014, n. 52, recante “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, convertito, con modificazioni, in l. 30 maggio 2014, n. 81), non nominava in alcun modo le “conformazioni” di risulta limitandosi a dettare che trattasi di «strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia» (cfr. art. 3-ter, comma 2, d.l. 211/2011 cit.).
E tale pruderie definitoria addirittura pervade i “fondamentali” giacché gli artt. 206 e 222 c.p. norme-oggetto, in una al testé menzionato art. 3-ter, della quaestio de legitimitate, benché qualificate “aberranti” nella parte motiva del decisum costituzionale, ancora insistono nell’imprimere “ospedale psichiatrico giudiziario” e “casa di cura e custodia” (per amore della precisione va detto che il secondo fra gli articoli evocati rinvia claris verbis a quel “reliquato” che, ormai, dovrebbe essere il “manicomio giudiziario”).
Altrimenti detto, nell’ottica lenta e sofferta di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, le poi “battezzate” REMS dovrebbero rappresentare il luogo di “allocazione”, in via definitiva od in via provvisoria, di coloro che abbiano commesso fatti qualificabili come reati e che risultino persone socialmente pericolose (beninteso, in un’ottica di extrema ratio del ricorso alla misura di sicurezza detentiva) ovverosia di coloro che, con icastica espressione, vengono a rappresentarsi come “folli rei”.
Si affida poi ad un decreto ministeriale da emanarsi entro il 31 marzo 2012 (“onere” poi soddisfatto, in ritardo, il 1° ottobre 2012 come supra visto) la puntualizzazione degli ulteriori requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi di interesse nel rispetto dei criteri-guida dell’«esclusiva gestione sanitaria all’interno delle strutture», dell’«attività “solo” perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna, ove necessario in relazione alle condizioni dei soggetti interessati, da svolgere nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente» e, last but not least, della «destinazione ai soggetti provenienti, di norma, dal territorio regionale di ubicazione delle medesime».
Ciò assodato, quadro da cui già emerge plasticamente la contraddittorietà dell’“architettura” normativa a supporto nonché le “torsioni” connesse agli interventi sia a livello costituzionale che a livello sovranazionale di cui a commento, entriamo in medias res. Con ordinanza istruttoria n. 131 (“eccentricamente” e “volutamente” numerata dacché, di solito, ciò non accade) del 2021, alla luce di una censura di costituzionalità ad oggetto gli artt. 206 e 222 c.p. e l’art. 3-ter d.l. 211/2011 cit., i giudici di palazzo della Consulta disponevano che, entro 90 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza “incriminata”, il Ministro della giustizia, il Ministro della salute, il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome oltre che, in parte qua, il Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio rispondessero, con relazione, ad una serie di interrogativi (per la precisione 14, taluni nondimeno estranei alla quaestio de legitimitate altri suscettibili di reitera di informazioni di “dominio pubblico”) volti a fotografare lo state of the nation in merito alle REMS.
Con commendevole puntualità i destinatari dell’avviso soddisfacevano, con unica corposa relazione, ai quesiti dalla cui risposta, in estrema sintesi, è dato evincere: a) alla data del 31 luglio 2021 l’operatività sul territorio nazionale di 36 REMS (variamente strutturate) per un totale di 652 posti letto disponibili (596 occupati); b) che solo 19 persone su 596 erano ospitate in una Regione diversa da quella di residenza; c) un dato disomogeneo in merito alle persone in lista di attesa
Grazie a quanto precede, ed alle ulteriori informazioni in proprio possesso, la Corte costituzionale potrà, con sentenza a numero d’ordine 22, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria in data 27 gennaio 2022, procedere a dichiarare, con sentenza, l’inammissibilità delle censure sollevate dal giudice a quo.
In parallelo venivano a svilupparsi due ulteriori tranches de vie dinnanzi alla Corte di Strasburgo giusta le quali, in ambedue le evenienze, il giudice dei diritti umani adottava, a mente dell’articolo 39 del proprio Regolamento, due provvedimenti cautelari stante i quali si ingiungeva allo Stato italiano di fare cessare immediatamente la detenzione illegale di due “pazienti psichiatrici” nel contesto di istituti penitenziari, per così dire, “ordinari” [è d’uopo, a tale riguardo, evidenziare come l’art. 11 l. 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, come modificato dall’art. 1, comma 1, d. lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, recante “Riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, non espliciti più la necessità di disporre, presso i suddetti, dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria].
Nel dettaglio della vicenda di nostro interesse – Sy c. Italia, prima Sezione Corte EDU, 24 gennaio 2022 (dalla data di riferimento è facile cogliere la prossimità, non solo cronologica, fra la “dimensione” interna e quella sovranazionale di cui alla problematica oggetto di riflessione) – in data 3 marzo 2020 il magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Roma richiedeva alla Corte, in virtù dell’art. 39 di cui supra, di indicare al Governo misure funzionali a mettere termine alla “ingiustificata” reclusione inframuraria del signor Sy; il 7 aprile 2020 la Corte sollecitava il Governo italiano ad assicurare il trasferimento dell’interessato presso una REMS oppure presso altra struttura idonea a prendere in carico in modalità adeguata, sul piano terapeutico, la patologia psichica del richiedente; stante l’indisponibilità manifesta, anche fuori Regione, di un succedaneo all’ospedale psichiatrico giudiziario il signor Sy, il giorno 12 maggio 2020, veniva collocato presso una comunità specializzata (dalla quale, sia detto per inciso, si allontanava, senza giustificato motivo, il giorno successivo). Da ciò un insieme di ritenute violazioni di norme convenzionali al quale il giudice dei diritti umani forniva risposta con l’ârret di cui ad oggetto.
Ma torniamo al contesto “interno”. Ad esito di una vicenda complessa, anch’essa contrassegnata da indisponibilità di strutture residenziali e da inottemperanza agli obblighi di cui all’individuata soluzione alternativa [il signor P.G. era stato indirizzato, in stato di libertà vigilata, presso una struttura residenziale psichiatrica per trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo (SRTR) della quale, ripetutamente, si “faceva beffe”], il giudice per le indagini preliminari (d’ora in innanzi, per acronimo, GIP) presso il Tribunale di Tivoli sollevava quaestio de legitimitate ad oggetto il combinato disposto ex artt. 206 e 222 c.p. e 3-ter d.l. 211/2011.
Rebus sic stantibus il giudice a quo, con argomentazioni non sempre coerenti (addirittura qualificabili “fumose” a vedere di certa dottrina), si doleva, da un lato, dell’intervenuta violazione degli artt. 27 e 110 Cost. «nella parte in cui, attribuendo l’esecuzione del ricovero provvisorio presso una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) alle Regioni ed agli organi amministrativi da essi coordinati e vigilati, escludono la competenza del Ministro della Giustizia in relazione all’esecuzione della detta misura di sicurezza detentiva provvisoria» e, dall’altro, dell’inosservanza degli artt. 2, 3, 25, 32 e 110 Cost. «nella parte in cui consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in materia di misure di sicurezza in violazione della riserva di legge in materia» con ciò, in buona sostanza, provvedendo ad una sostanziale delegificazione della normativa vigente.
La Corte costituzionale ha “buon gioco” nel dichiarare inammissibili le censure ad oggetto le disposizioni del codice penale sostanziale in quanto esse esorbitano dai limiti fissati dal giudice rimettente nel sollevare questione di costituzionalità: nulla dicendo, queste ultime, in merito alle competenze del Ministro guardasigilli né con riguardo alla “articolazione disciplinare” di dettaglio delle REMS le quaestiones di specie «debbono considerarsi in radice inammissibili per aberratio ictus» (così il punto 2.1 del Considerato in diritto).
Più lunga riflessione esige la declaratoria in ordine all’art. 3-ter d.l. 211/2011 quantunque appaia identico l’esito conclamato. A tale proposito soccorre la risposta, dilemmatica, fornita all’interrogativo a lettera d’ordine m) dell’ordinanza istruttoria dell’anno precedente volta ad accertare se le criticità riscontrate giusta il buon funzionamento ed il buon “governo” delle REMS fossero addebitabili «a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie, ovvero ad altre ragioni» ancora.
Sul punto, in aperto contrasto fra i dicasteri interessati, il Ministero della giustizia riconosce come «il principio [della misura di sicurezza detentiva come extrema ratio] non abbia ancora fatto adeguata breccia nell’ambito giurisdizionale, tuttora in parte permeato da una cultura […] eccessivamente “custodialistica” che, come tale, nutre ancora una troppo scarsa fiducia sulla reale efficacia delle misure di sicurezza non detentive». Cionondimeno osserva come il fenomeno delle liste d’attesa sia ascrivibile principalmente alla «realizzazione di un numero complessivo di posti-letto troppo ridotto e comunque inadeguato rispetto all’effettivo fabbisogno, unitamente all’assenza di alternativa ed adeguata offerta di tutela psichiatrica, idonea a salvaguardare le concomitanti esigenze primarie di salute del singolo e di sicurezza pubblica». Il Ministero della giustizia si sofferma altresì sulla «frequente assenza di canali di comunicazione adeguati e strutturati tra Autorità giudiziarie, aziende sanitarie locali e dipartimenti di salute mentale» evidenziando che «laddove, anche tramite protocolli d’intesa, i servizi psichiatrici si sono dimostrati efficienti nell’indicare da subito adeguate soluzioni terapeutiche alternative alle REMS, al fine di procedere alla cura e al contenimento del paziente autore di reato, inevitabilmente il principio della misura detentiva come extrema ratio ha trovato concretizzazioni più che virtuose». Ancora, il Ministero della giustizia individua un ulteriore ostacolo nella «sottovalutazione delle problematiche relative alla sicurezza interna ed esterna alle REMS», ove gli operatori incontrano difficoltà «estreme […] nella gestione dei pazienti psichiatrici connotati da personalità particolarmente violente ed aggressive». Infine, pone in luce l’«assenza di strutture organizzative di coordinamento, sia a livello locale che nazionale, oltre che [la] mancata attivazione di poteri sostitutivi, o comunque di intervento, presso le Regioni dimostratesi inadempienti nella completa attuazione della riforma».
Il Ministero della salute e la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dal canto loro, individuano quali principali fattori di criticità difficoltà di ordine culturale, segnalando lo sforzo degli attori coinvolti (operatori sanitari, magistratura, amministrazione penitenziaria) per aderire al nuovo approccio culturale sotteso alla riforma, secondo cui la malattia mentale non è più un male incurabile ma un «disturbo, di natura anche sociale, curabile o almeno gestibile nell’ambito di un percorso di vita che tenda all’autonomia». Di talché «[r]icercare nella dotazione dei posti in REMS la soluzione al problema delle misure di sicurezza è espressione della cultura precedente la riforma, che, come prima risposta alla malattia mentale, immaginava un luogo in cui collocare la persona (rinunciando a ogni forma di inclusione sociale del malato)». Proprio l’insufficiente applicazione del principio di extrema ratio della misura di sicurezza detentiva – verosimilmente a causa della scarsa fiducia nelle misure di sicurezza non detentive e della debolezza dei servizi di salute mentale – sarebbe alla base dell’aumento delle richieste di ricovero che non hanno trovato esecuzione. Di qui la considerazione della necessità di accelerare e qualificare i percorsi già intrapresi, procedendo alla sostituzione delle REMS provvisorie con quelle definitive, e di valutare le carenze o eccedenze «sulla base di attente analisi delle cause del fenomeno (nei diversi territori) e di rigorose valutazioni dei fabbisogni di assistenza ([…] in coerenza con le innovazioni introdotte con la Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza verso una salute di comunità e in continuità con gli strumenti della programmazione ampiamente utilizzati nel settore sanitario)» (così il punto 5.12 del Ritenuto in fatto).
Ora, benché non spetti al giudice di legittimità delle leggi risolvere l’evidenziata antitesi nell’uno o nell’altro verso, esso non può pur tuttavia esimersi dal constatare lo stato di diffusa inefficienza connesso all’attuale operare delle REMS. Pur tuttavia il rimedio proposto dal GIP presso il Tribunale di Tivoli (accentrare le competenze presso il Ministro della Giustizia) minaccerebbe di rivelarsi inconferente all’obiettivo, anche se non soprattutto perché ciò «determinerebbe … l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG; e produrrebbe non solo un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, ma anche un risultato diametralmente opposto a quello auspicato dal rimettente, che mira invece a rendere più efficiente il sistema esistente, mediante il superamento delle difficoltà che impediscono la tempestiva collocazione degli interessati in una struttura idonea». Di tal che la declaratoria, forse sorprendente (qui si fa cenno alle “nuove” vie di cui alle cosiddette ordinanze di incostituzionalità prospettata, esperimentate dalla Corte in tre congiunture recenti – ordinanza n. 207 del 2018 in tema di “fine vita”; ordinanza n. 132 del 2020 in tema di pena detentiva per le diffamazioni a mezzo stampa; ordinanza n. 97 del 2021 in tema di “ergastolo ostativo”), di inammissibilità tout court.
Sullo scenario dei diritti umani, quasi di necessità giusta la vicenda concreta “attenzionata”, la Corte omonima condanna lo Stato italiano a) per violazione dell’art. 3 (Divieto della tortura) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in innanzi, per acronimo, CEDU), stante la mancanza di alcuna strategia terapeutica globale di presa in carico della patologia in cui versava l’interessato; b) per violazione dell’art. 5 (Diritto alla libertà ed alla sicurezza), § 1, giusta l’illegalità della detenzione inframuraria patita medio tempore, e § 5, CEDU, alla luce dell’assenza di un rimedio effettivo onde garantire adeguata riparazione del pregiudizio sofferto a cagione dell’evidenziata detenzione “abusiva”; c) dell’art. 6 (Diritto ad un processo equo), § 1, CEDU, a fronte della mancata esecuzione della sentenza del 20 maggio 2019 con cui la corte di appello di Roma aveva ordinato che il signor Sy fosse rimesso in libertà; d) dell’art. 34 (Ricorsi individuali) CEDU, una volta ritenuto eccessivo il termine (35 giorni) entro cui si era fornita esecuzione al provvedimento cautelare ex art. 39 Regolamento Corte EDU.
Nondimeno, e quadro “impietoso” permettendo, la Corte di Strasburgo si trattiene dal ricorrere all’eventualità più invasiva ovverosia dall’ordinare al Governo italiano, ex art. 46 (Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), di adottare tutte le misure di carattere generale necessarie per tutelare ogni detenuto attinto da turbe mentali, destinatario della misura di sicurezza dell’ospedalizzazione in REMS, in primis per il filtro dell’immediato trasferimento presso di esse (e ciò nonostante l’istanza in tal senso del signor Sy) oltre che dall’azionare la procedura di sentenza-pilota, ex art. 61 Regolamento Corte EDU, laddove i fatti all’origine di un ricorso avanzato innanzi a quest’ultima «rivelano l’esistenza, nella Parte contraente interessata, di un problema strutturale o sistemico o di un’altra disfunzione simile che ha dato luogo o potrebbe dare luogo alla presentazione di altri ricorsi analoghi».
Questo, a dire di avveduta dottrina, lo sbocco che un’opportuna pronunzia costituzionale avrebbe dovuto cospirare ad evitare. L’intreccio delle tempistiche, invece, ha fatto sì che Strasburgo precedesse Roma – la sentenza Sy è del 24 gennaio u.s. mentre l’intervento della Consulta, rectius, il deposito della parte motiva della sentenza n. 22 del 2022 in Cancelleria, è di tre giorni dopo. Forse, allora, i giudici costituzionali, rassicurati dal manifestatosi self restraint di cui alla Corte EDU (del quale potrebbero avere avuto conoscenza …), proprio per tale ragione potrebbero essersi orientati per la tradizionale “sentenza-monito” in luogo dell’ancora non del tutto rodato decisum a costituzionalità “differita” o vacatio sententiae (tanto più considerando che, visti i precedenti, è tutt’affatto che certo che il legislatore, allo spirare del termine di quiescenza, si disponga ad agire).
Comunque sia, la Corte costituzionale non ha certo lesinato, specularmente parlando, l’asperità del monito (non sarà tollerato l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa, allertano i giudici di palazzo della Consulta) segnalando «l’urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati (supra, punto 5.3); la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure) (supra, punto 5.4); forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture esistenti o degli strumenti alternativi (supra, punto 5.5)».
Che poi, ciononostante, un domani lo “spartito” riservi ulteriori sorprese, ovvero la temuta procedura di sentenza-pilota a fronte di un legislatore colpevolmente ignavo, oggi non è, ça va sans dire, dato prevedere. Piuttosto, ad epilogo, sorge l’interrogativo se, alla luce di questa tormentata disamina, non sia di maggiore fecondità procedere a ripensare ab imis il modello consolidato del “doppio binario” – soggetto imputabile – sanzione che si specializza nel verso della pena; soggetto non imputabile – sanzione che si specializza nel verso della misura di sicurezza – onde approdare al superamento della nozione di non imputabilità per vizio di mente (e delle consequenziali misure di sicurezza) in luogo discorrendosi di “disabilità psicosociale”. Come, del resto, vorrebbe accingersi a fare, quantunque in un ordito più composito, un progetto di legge, attualmente giacente presso la II Commissione Giustizia della Camera, di iniziativa del deputato Magi (A.C. 2939).