revisore Prof. Mario Deganello

 

Avv. Paolo Pisano

1. Introduzione

Il presente contributo ha come finalità l’analisi del caso Antinori, noto medico-ginecologo esperto della fecondazione in vitro e della clonazione umana, che lavorava presso la propria clinica Matris in Milano, e passato agli onori della cronaca giudiziaria per i fatti che lo vedevano tratto agli arresti domiciliari il 13 maggio 2016 con l’accusa di rapina aggravata, lesioni personali, falsità ideologica e tentata estorsione ai danni di Hanae Messouak.

Antinori veniva condannato dal Tribunale di Milano, con sentenza emessa in data 15 febbraio 2018, alla pena complessiva di sette anni e due mesi di reclusione ed € 3.500,00 di multa per i reati testé accennati. In seguito il decisum veniva parzialmente riformato ad opera della Corte di Appello di Milano con sentenza 15 maggio 2019, sentenza che accoglieva in parte gli appelli del pubblico ministero e della parte civile, la stessa Hanae Messouak, stante cui veniva rideterminata la pena di cui ad oggetto in sette anni e dieci mesi di reclusione ed € 3.900,00 di multa per i reati riportati.

L’ultimo grado di giudizio, con recentissima decisione del 25 novembre 2020, n. 37818 (sotto riportata), disponeva ad opera della Suprema Corte di Cassazione, Sezione II, la definitiva condanna per rapina e la rideterminazione della pena in sei anni e sei mesi di reclusione nonché in € 2.800,00 di multa.

È nostro intendimento affrontare nello specifico il tema della rapina, tralasciando le ulteriori imputazioni, poiché ciò che è venuto a “fissare” la Corte di Cassazione sul tema apre le porte ad una nuova frontiera del reato di rapina alla luce dell’immediata quanto significativa circostanza che qui trattasi non di un comune bene mobile sottratto alla persona offesa, bensì di una parte organica del corpo umano che, una volta da esso estratta, diviene res mobile. Essa, invero, sottratta con violenza o minaccia, diviene oggetto di rapina al pari di qualsiasi bene mobile.

2. La rapina: un reato complesso

I reati complessi si caratterizzano per essere la composizione di più elementi che, di per sé, corrispondono ad ulteriori autonome fattispecie di reato.

La fattispecie delittuosa della rapina rappresenta l’esempio tipico del reato complesso, atteso che essa identifica ciò nel quale confluiscono gli autonomi reati di furto (art. 624 c.p.) e di violenza privata (art. 610 c.p.).

In particolare, se è vero che il reato complesso implica la co-presenza di singoli reati uniti fra loro, la disciplina sulla materia, di cui all’art. 84 c.p., prevede che, allorquando si perfezioni tale reato, non si realizzi un concorso formale o materiale fra i reati che lo costituiscono, poiché in realtà l’unico reato punito sarà quello complesso e non i singoli reati che di esso fanno parte. Per comprendere la “forza normativa” del reato complesso basti guardare a norme come quella ex art. 170 co. 2 c.p., ove si legge che “la causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso”.

Inoltre, va evidenziato come il reato complesso si distingua da ulteriori figure normative quali il reato progressivo, il reato abituale e il delitto aggravato dall’evento.

In conclusione, il reato complesso, insieme di due o più reati, identifica un reato unico e autonomo che pertanto sarà punito in quanto tale.

3. Rapina propria e impropria

L’art. 628 c.p., nei suoi due primi commi, così dispone: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da € 927 ad € 2.500. – Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità”.

Di tal che avremo “rapina propria” allorquando la violenza o la minaccia rappresentano i mezzi per ottenere l’impossessamento della res, mentre ci troveremo di fronte alla “rapina impropria” se la violenza o la minaccia serviranno a mantenere il possesso della res stessa o ad assicurare a sé o ad altri l’impunità.

Parliamo, quindi, di “rapina propria” allorquando il reato complesso rappresentato dalla condotta individuata dal primo comma dell’art. 628 c.p. fa riguardo al soggetto agente il quale, per ottenere un ingiusto profitto per sé o per altri, mediante violenza o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola al soggetto che la detiene; ci riferiamo, invece, alla “rapina impropria” allorquando il reato complesso, rappresentato dalla condotta individuata dal secondo comma dell’art. 628 c.p., fa riguardo al soggetto agente il quale, dopo la sottrazione della res, mediante minaccia o violenza, voglia assicurare a sé o a terzi il possesso della cosa sottratta oppure voglia procurare a sé o ad altri l’impunità.

Nondimeno, e come già anticipato, la rapina rappresenta l’esempio tipico del reato complesso, ove la condotta tipica del reato di furto è unita alla condotta della violenza privata.

Più in dettaglio,

a) minaccia: prospettazione ad una persona di un male futuro o prossimo; nonché prospettazione della dipendenza del male dalla volontà dell’agente, dovendo esso apparire causalmente ricollegabile ad un suo comportamento;

b) violenza: la violenza personale fisica abbraccia tutte le ipotesi in cui si pone la persona nell’incapacità, totale o parziale, di autodeterminazione. E quindi sia la violenza propria, quale energia fisica usata per incidere su tale capacità; sia la violenza impropria, che abbraccia la serie dei più moderni e subdoli comportamenti violenti, non riconducibili ai tradizionali concetti di violenza fisica e di minaccia, ma pur sempre caratterizzati dall’effetto psicologico della coazione della volontà;

c) il reato di rapina vede, infine, il proprio momento consumativo quando la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente/rapinatore, anche se per breve tempo (ad esempio perché tale soggetto abbandona la cosa sottratta per cause di forza maggiore, il che può essere rappresentato dall’intervento delle forze dell’ordine).

4. Un reato plurioffensivo

La rapina costituisce un delitto contro il patrimonio vedendo la propria collocazione nel Libro II, Titolo XIII, Capo I del codice penale, ad oggetto “Dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone”.

Scrive, a tal proposito, Margherita Piccardi: “l’art. 628 c.p. delinea un reato plurioffensivo, complesso, di mano propria e di aggressione unilaterale, che si estrinseca in due distinte figure criminose aventi in comune l’impossessamento della cosa mobile altrui e l’uso della violenza o della minaccia, seppure in opposta sequenza temporale. Modalità di condotta, queste ultime, che nella rapina propria costituiscono lo strumento per ottenere l’impossessamento della res sottratta, mentre nella rapina impropria il mezzo per conservarne il possesso ovvero per conseguire l’impunità” (M. Piccardi, voce “Rapina“, Diritto on line, 2013, in www.treccani.it).

Chiara, pertanto, appare la plurioffensività del reato de quo, in quanto oltre al valore del bene sottratto va contemplata la lesione dell’ulteriore bene giuridico, ovvero l’integrità fisica e morale del rapinato poiché, oltre al reato di furto, vediamo realizzarsi il reato contro la libertà morale della persona, ossia il delitto di violenza privata ex art. 610 c.p., ove la condotta violenta o minacciosa deve riguardare qualcosa di specifico che si viene “costretti” a fare, tollerare od omettere.

5. Elemento soggettivo

La rapina può perfezionarsi solo laddove il soggetto agente sia assistito da dolo ovvero quando, ai sensi dell’art. 43 c.p., “l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato della azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”: quindi, nel caso della rapina, ogniqualvolta sussistano coscienza e volontà nell’impossessarsi della cosa mobile, sottraendola con violenza o con minaccia a chi la detiene oppure, dopo la sottrazione della cosa medesima, nell’assicurare, per sé o per altri, il possesso della cosa sottratta oppure, ancora, nel procurare, per sé o per altri, l’impunità.

Il dolo è specifico poiché l’agente agisce con l’obiettivo preciso di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (art. 628 co. 1 c.p.) oppure per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità (art. 628 co. 2 c.p.).

6. Circostanze (art. 628 co. 3, 4 e 5 c.p.)

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da € 2.000 ad € 4.000:

1) se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite;

2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire;

3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416 bis;

3 bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all’art. 624 bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;

3 ter) se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto;

3 quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro;

3 quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.

Se concorrono due o più di queste circostanze, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’art. 61, la pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da € 2.500 ad € 4.000.

Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98, concorrenti con le aggravanti di cui ai numeri 3), 3 bis), 3 ter) e 3 quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.

Dott.ssa Francesca Palleschi 

7. Gli ovociti e il concetto di cosa mobile 

Con la sentenza n. 37818/2020 la Corte di Cassazione si è trovata a trattare di un unicum nel panorama giurisprudenziale, essendo stata chiamata a riempire un vuoto legislativo.

La vicenda dalla quale ha origine la sentenza è il prelievo, operato da un medico dall’utero di una donna e contro la sua volontà, di non meno di sei ovociti, al fine di procurarsi un ingiusto profitto derivante dall’impianto degli embrioni in altre pazienti.

La Suprema Corte si è trovata, quindi, ad affrontare il problema della qualificazione giuridica dell’ovocita all’obiettivo del suo inquadramento in uno dei due reati ipotizzati: violenza privata, come delineato dalla difesa, o rapina, come invece sostenuto dalla pubblica accusa.

Mentre non residuano dubbi su cosa sia un ovocita e sulla sua definizione a livello biologico, trattandosi della cellula germinale da cui si origina il gamete femminile durante il processo della gametogenesi, non chiara ne appare la sua definizione a livello giuridico.

È la stessa legge sulla procreazione medicalmente assistita (L. n. 40/2004: d’ora innanzi PMA), a determinare tale vuoto.

La legge, infatti, è nata in un momento storico ove la medicina iniziava le sue prime sperimentazioni in merito non solo alla cura della sterilità, ma anche e soprattutto alla manipolazione genetica. Tale provvedimento cercò di fornire le auspicate risposte e, soprattutto, di definire il sottile limite fra diritto ed etica. 

All’art. 1 vengono ad enunciarsi le finalità sottese al riscontrato novum normativo: “favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana”. La legge, dunque, è rivolta a tutte quelle coppie, sterili o infertili, ponendo come limite il ricorso alla PMA allorquando non siano disponibili ulteriori metodi terapeutici efficaci. La PMA rappresenta, o, meglio, dovrebbe rappresentare, solo un’ultima chance quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione.

Occorre a questo punto una piccola digressione. La procreazione medicalmente assistita può essere di due tipi: omologa o eterologa. La fecondazione omologa configura una tecnica di PMA che prevede lo sviluppo e l’eventuale impianto in utero di un embrione ottenuto con l’impiego di gameti (spermatozoi e ovuli) di appartenenza alla coppia richiedente. Di contro l’eterologa necessita del ricorso a gameti di donatori esterni, laddove in uno dei partner (o in entrambi) venga a caratterizzarsi  un’infertilità tale da non permettere il prelievo.

Mentre la prima era tendenzialmente accettata, dubbi sollevò la seconda. L’interrogativo che il legislatore si trovò ad affrontare attenne al fatto se gli interessi da tutelare sono solo quelli della coppia o anche dell’intera collettività; in altri termini se esiste un diritto assoluto alla procreazione medicalmente assistita in capo al singolo individuo. La Costituzione non prevedeva (né prevede) un tale diritto.

Il legislatore, dunque, all’art. 4 della summenzionata legge poneva il divieto assoluto di ricorso alla fecondazione eterologa, prevedendo al contempo sanzioni per coloro che utilizzavano gameti esterni rispetto alla coppia.

La scelta operata fu chiaramente influenzata dalla tradizione cattolica: non raro fu definire, da parte del mondo cattolico, la fecondazione eterologa come una tecnica veterinaria di ausilio all’adulterio.

Tale posizione fu sostenuta finanche da una parte della dottrina penalistica, nonostante il reato di adulterio fosse stato dichiarato non conforme al dettato costituzionale (Corte cost. n. 126/1968). A sostegno della tesi di adulterio, si adduceva il problema della conciliazione del consenso del marito al ricorso a tale tecnica di PMA, facendosi invero riguardo all’art. 235 c.c. (disconoscimento di paternità, articolo nondimeno abrogato nel 2013, dopo l’entrata in vigore della legge). Pertanto – si lamentava – per la donna che ricorreva alla fecondazione eterologa, senza il consenso del partner, la procreazione così ottenuta doveva essere equiparata all’adulterio, di tal che risultava consentito al marito disconoscere il figlio così generato a norma del codice civile, restando quest’ultimo al contempo privo di tutela penale.

Alla base del divieto di fecondazione eterologa, in sostanza, si collocava l’assunto giusta cui ognuno dei componenti del nucleo familiare ha diritto a diventare genitore solo tramite la compartecipazione alla procedura. Di modo che solo la coppia poteva rivolgersi alla medicina onde risolvere un problema di tal genere.

Il legislatore, tuttavia, volendo attribuire comunque al nato uno status incontrovertibile, ha statuito che, “qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’art. 4, co. 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art. 235, co. 1, nn. 1 e 2 del codice civile né l’impugnazione di cui all’art. 263 dello stesso codice” (art. 9, co. 1, L. n. 40/2004).

Ne deriva che il bambino è figlio del marito (o del partner) che ha dato il suo consenso all’inseminazione della moglie (o della partner) e che non è ammissibile l’azione di disconoscimento o l’impugnazione del riconoscimento.

La ragione del divieto di fecondazione eterologa veniva quindi ravvisata, preminentemente, nell’esigenza di garantire il massimo equilibrio psico-fisico del nato; utilizzando gameti di un donatore estraneo alla coppia, la cui identità è, usualmente, sconosciuta, il figlio potrebbe vedere compromessa la stabilità emotiva e la strutturazione della propria identità personale, la quale esige certezza in ordine alla conoscenza delle proprie radici e alla propria identità genetica.

Nondimeno non mancarono, a fronte dell’opzione riportata, dubbi circa la validità costituzionale di tale divieto; dubbi, quindi, tradottisi in numerose questioni di legittimità. L’art. 3 Cost., infatti, garantisce l’eguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge senza distinzioni di sorta; gli artt. 2 e 13, a loro volta, garantiscono l’autonomia e la libertà delle scelte personali. Trattasi di corollari del principio di offensività, ex art. 25 Cost., per il quale nessuno può essere punito se non per la commissione di un fatto lesivo di un bene giuridico. Il principio di eguaglianza medesimo, per una parte della dottrina, veniva leso dalla previsione normativa della legge sulla PMA. Infatti, l’assoluto divieto di fecondazione eterologa determinava, di conseguenza, la non risoluzione dei problemi di sterilità di una coppia nella quale l’uomo non produca spermatozoi o la donna non possa produrre ovociti. Tali coppie sarebbero risultate pertanto oggetto di una discriminazione, a detta di alcuni ingiustificabile, da parte di una legge che non consentiva di avvalersi delle diverse soluzioni che la ricerca medica è in grado di offrire. E ciò anche in considerazione del fatto che l’utilizzo di gameti di soggetto estraneo alla coppia non può essere considerato una forma di adulterio, in quanto la scelta della procreazione eterologa è frutto di un accordo raggiunto dai coniugi venendone che, trattandosi di una pratica medica, mancano ovviamente tutte le componenti psicologiche ed emotive di un concepimento naturale.

Il nodo che si venne a determinare fu superato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 162/2014, che accolse il ricorso motivando come la fecondazione eterologa miri a favorire la vita, suscitando problematiche al più riferibili al tempo successivo alla nascita. Difatti l’opzione “della coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che … è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare”. La Corte, pur negando l’esistenza di un nesso imprescindibile fra il diritto alla creazione di una famiglia e l’esercizio del diritto alla procreazione, mostrandosi quest’ultimo in esclusiva alla stregua di un’opzione liberamente praticabile dalla coppia che costituisce il nucleo familiare, ha ribadito come “il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione”. Il divieto di fecondazione eterologa è, per cui, privo di qualsiasi fondamento costituzionale.

La Corte sottolinea, inoltre, come l’impedimento a ricorrere a tale tecnica di fecondazione possa incidere negativamente sulla salute psichica della coppia; pertanto, l’opzione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, riguardando la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile.

La Corte, infine, in relazione alla tutela degli interessi giuridici del nascituro, rileva come la stessa legge n. 40/2004, all’art. 9, preveda che i figli nati da fecondazione eterologa siano figli legittimi della coppia; la coppia che accede alla donazione dei gameti non può disconoscere il frutto dell’operazione; il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato, né può far valere nei suoi confronti alcun diritto, né essere titolare di obblighi. In questo modo sono nondimeno affermate le tutele per tutti i soggetti coinvolti nelle tecniche di PMA come previsto dalla legge medesima, anche e soprattutto in virtù di quanto disposto dalla CEDU.

Nel 2010 la Corte di Strasburgo, infatti, decidendo su due ricorsi presentati da cittadini austriaci che lamentavano il contrasto della normativa nazionale in materia di procreazione assistita con la CEDU, ha affermato che il diritto di una coppia di ricorrere alla procreazione assistita per concepire un figlio rientra nella sfera dell’art. 8 CEDU in quanto espressione della vita privata e familiare: pertanto, i divieti di accesso ad alcune tecniche di procreazione artificiale, quali la fecondazione in vitro con seme di terzo e la fecondazione con donazione di ovociti, nella misura in cui pongono una coppia sterile in posizione differenziata rispetto alle altre, rappresentano “pratiche” discriminatorie, a mente dell’art. 14 CEDU, se non giustificate da finalità obiettive e ragionevoli e dal rispetto del criterio di proporzionalità fra i mezzi utilizzati e gli obiettivi perseguiti.

Laddove, pertanto, lo Stato decida di regolamentare la procreazione artificiale, la Corte sostiene che “il quadro legale approntato a tale scopo deve essere concepito in modo coerente per permettere che i diversi interessi legittimi in causa vengano presi in considerazione in modo adeguato e in conformità con gli obblighi derivanti dalla Convenzione”.

L’apertura alla fecondazione eterologa ripristina, dunque, il rispetto del principio di uguaglianza gravemente leso dalla circostanza che la coppia sterile disponeva di chances terapeutiche differenti a seconda della gravità dell’infertilità da cui era affetta.

Ma la partita non è chiusa, considerate due recentissime decisioni della Corte costituzionale: la n. 32 (che dichiara inammissibili le qlc degli artt. 8 e 9 L. n. 40/2004 e 250 c.c., sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 Convenzione sui diritti del fanciullo, e agli artt. 8 e 14 della CEDU – dal Tribunale ordinario di Padova) e la n. 33 (che dichiara inammissibili le qlc dell’art. 12, co. 6, L. n. 40/2004, dell’art. 64, co. 1, lett. g, L. n. 218/1995, e dell’art. 18 DPR n. 396/2000, sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 Convenzione sui diritti del fanciullo, e all’art. 24 CDFUE – dalla Corte di cassazione) del 2021.

In particolare, Corte cost. n. 32/2021 sottolinea che serve, ancora una volta, attirare su questa materia eticamente sensibile l’attenzione del legislatore, al fine di individuare un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana. “Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale. In via esemplificativa, può trattarsi di una riscrittura delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione. Solo un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso, consentirebbe di ovviare alla frammentarietà e alla scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il ‘miglior interesse del minore’. … Il terreno aperto all’intervento del legislatore è dunque assai vasto e le misure necessarie a colmare il vuoto di tutela dei minori sono differenziate e fra sé sinergiche. Nel dichiarare l’inammissibilità della questione ora esaminata, per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario, questa Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia”. A sua volta, Corte cost. n. 33/2021 precisa che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento fra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. “Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”.

In un quadro così normativamente declinato, è chiaro il “nodo problematico” rimesso all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione: che cosa sono gli ovociti e quale ne è l’ambito di tutela.

Il vuoto normativo viene colmato dalla Seconda Sezione evocando la teoria della cosiddetta “mobilizzazione”: gli ovociti acquisiscono lo status di “cosa mobile” al termine del processo di asportazione dal corpo umano.

In diritto, è bene qualsiasi entità materiale o immateriale giuridicamente rilevante e tutelata. Sono beni, per il codice civile italiano, “le cose che possono formare oggetto di diritti” (art. 810). La nozione giuridica di bene è, in questo modo, resa interdipendente con il concetto di proprietà: sono quindi beni le cose che l’uomo ha interesse a fare proprie, a fare oggetto di un proprio diritto, che escluda gli altri dalla loro utilizzazione. Il bene, per cui, rappresenta l’oggetto del diritto soggettivo e come tale esso ne costituisce un elemento determinante. Stante queste premesse, i beni vanno classificati in mobili e immobili. Nella locuzione “beni immobili”, secondo quanto stabilito dall’art. 812 c.c., si ricomprende tutto ciò che è incorporato al suolo, in maniera naturale o in modo artificiale. “Bene mobile” è, di contro, qualsiasi cosa sia possibile spostare da un luogo all’altro senza alterarne l’essenza.

Resta, allora, da interrogarsi sul perché gli ovociti debbano essere considerati alla stregua di beni mobili.

La Corte di Cassazione, nell’argomentare la sua decisione, muove dal fatto che il concetto penalistico di “res mobile” non coincide di necessità con quello civilistico, potendo il primo al contempo, e simultaneamente, risultare più ristretto e più ampio del secondo.

Più ristretto laddove non vengono considerate mobili le entità prive di un sostrato materiale (ad esempio: opere dell’ingegno, diritti soggettivi), in quanto il perimetro definitorio dell’oggetto materiale, nei delitti contro il patrimonio, è influenzato dal modo di atteggiarsi delle condotte penalmente rilevanti, caratterizzate dalla sottrazione e dall’impossessamento, profili invero difficilmente configurabili facendo rinvio a contesti immateriali.

Più ampio allorché la giurisprudenza fa ricorso appunto alla teoria della mobilizzazione, secondo cui la nozione di “cosa mobile” comprende, oltre a quelle in senso stretto, anche quelle che possono essere rese mobili tramite un’attività materiale posta in essere dallo stesso soggetto agente; in altre parole, giacché determinati beni divengono sottraibili a seguito di un’attività di asportazione, di enucleazione o di avulsione.

Muovendo da precedenti pronunce, la Cassazione conferma la possibilità di parlare di “cosa mobile” in rapporto agli ovociti, sottolineandone al contempo una peculiarità: trattandosi di distacco dal corpo umano, è solo da quel momento che si può parlare di detenzione di ovociti e non, muovendo a “ritroso”, in un frangente in cui gli stessi sono sì “mobilizzabili” ma non ancora mobili. Pertanto, gli ovuli acquisiscono lo status di cosa mobile solo con il riscontrato distacco, divenendo così suscettibili di sottrazione e di impossessamento.

Il concetto di detenzione, in definitiva, deve venire inteso alla stregua di disponibilità materiale della cosa o come autonomo potere materiale sulla stessa. La detenzione, in altri termini, sta ad indicare lo stato di mero fatto per il quale una persona si trova nella possibilità di disporre fisicamente della cosa.